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Angela Greco © all rights reserved
Lentamente muore
(Ode alla vita)
Lentamente muore
chi diventa schiavo dell’abitudine,
ripetendo ogni giorno gli stessi percorsi,
chi non cambia la marcia,
chi non rischia e cambia colore dei vestiti,
chi non parla a chi non conosce.
Muore lentamente
chi fa della televisione il suo guru.
Muore lentamente chi evita una passione,
chi preferisce il nero su bianco
e i puntini sulle “i”
piuttosto che un insieme di emozioni,
proprio quelle che fanno brillare gli occhi,
quelle che fanno di uno sbadiglio un sorriso,
quelle che fanno battere il cuore
davanti all’errore e ai sentimenti.
Lentamente muore
chi non capovolge il tavolo
quando è infelice sul lavoro,
chi non rischia la certezza per l’incertezza
per inseguire un sogno,
chi non si permette almeno una volta nella vita,
di fuggire ai consigli sensati.
Lentamente muore
chi non viaggia,
chi non legge,
chi non ascolta musica,
chi non trova grazia in sé stesso.
Muore lentamente
chi distrugge l’amor proprio,
chi non si lascia aiutare
chi passa i giorni a lamentarsi
della propria sfortuna o della pioggia incessante.
Lentamente muore
chi abbandona un progetto prima di iniziarlo,
chi non fa domande sugli argomenti che non conosce
o non risponde quando gli chiedono qualcosa che conosce.
Evitiamo la morte a piccole dosi,
ricordando sempre che essere vivo
richiede uno sforzo di gran lunga maggiore
del semplice fatto di respirare.
Soltanto l’ardente pazienza
porterà al raggiungimento di una splendida felicità.
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A Morte Devagar
Muere lentamente
quien se transforma en esclavo del hábito,
repitiendo todos los días los mismos trayectos,
quien no cambia de marca,
no arriesga vestir un color nuevo
y no le habla a quien no conoce.
Muere lentamente
quien hace de la televisión su gurú.
Muere lentamente quien evita una pasión,
quien prefiere el negro sobre blanco
y los puntos sobre las “íes”
a un remolino de emociones,
justamente las que rescatan el brillo de los ojos,
sonrisas de los bostezos,
corazones a los tropiezos
y sentimientos.
Muere lentamente
quien no voltea la mesa
cuando está infeliz en el trabajo,
quien no arriesga lo cierto por lo incierto
para ir detrás de un sueño,
quien no se permite por lo menos una vez en la vida,
huir de los consejos sensatos.
Muere lentamente
quien no viaja,
quien no lee, quien no oye música,
quien no encuentra gracia en sí mismo.
Muere lentamente
quien destruye su amor propio,
quien no se deja ayudar,
quien pasa los días quejándose
de su mala suerte o de la lluvia incesante.
Muere lentamente,
quien abandonando un proyecto antes de iniciarlo,
no preguntando de un asunto que desconoce
o no respondiendo cuando le indagan sobre algo que sabe.
Evitemos la muerte en suaves cuotas,
recordando siempre que estar vivo
exige un esfuerzo mucho mayor que
el simple hecho de respirar.
Solamente la ardiente paciencia
hará que conquistemos una espléndida felicidad.
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di Martha Medeiros, giornalista, scrittrice e poetessa brasiliana nata a Porto Alegre nel 1961.
(dal web)
“Una volta per tutte dunque ti viene imposto un breve precetto: ama e fa’ ciò che vuoi; sia che tu taccia, taci per amore; sia che tu parli, parla per amore; sia che tu corregga, correggi per amore; sia che tu perdoni, perdona per amore; sia in te la radice dell’amore, poiché da questa radice non può procedere se non il bene.” (In Io. Ep. tr. 7, 8)
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Agostino (Aurelio Agostino d’Ippona, filosofo, vescovo e teologo latino e padre, dottore e santo della Chiesa cattolica), pronuncia queste parole in aggiunta ad “Ama e fa’ ciò che vuoi (Dilige et quod vis fac)” durante la settima Omelia del 20 aprile del 407 mentre sta commentando i versetti 4-12 del capitolo 4 dell’epistola giovannea, dove viene affermato che Dio è Amore, avendolo concretamente provato nel corso del travaglio della sua stessa esistenza.
Nato a Tagaste il 13 novembre 354 e morto ad Ippona il 28 agosto 430 Agostino, osservatore acuto delle cose di Dio e degli uomini, assomma in sè la più fervida umanità e una delle più straordinarie conversioni dei primi periodi del Cristianesimo.
Ai link che seguono è possibile immergersi nella storia di questo grande uomo e scaricare una versione in formato pdf della sua opera maggiore, Le confessioni:
Due
Quando saremo due saremo veglia e sonno
affonderemo nella stessa polpa
come il dente di latte e il suo secondo,
saremo due come sono le acque, le dolci e le salate,
come i cieli, del giorno e della notte,
due come sono i piedi, gli occhi, i reni,
come i tempi del battito
i colpi del respiro.
Quando saremo due non avremo metà
saremo un due che non si può dividere con niente.
Quando saremo due, nessuno sarà uno,
uno sarà l’uguale di nessuno
e l’unità consisterà nel due.
Quando saremo due
cambierà nome pure l’universo
diventerà diverso.
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Erri De Luca
(dal web)
Giorgione, La Tempesta, olio su tela cm 82×73 cm
1505-1508 c.a e conservato nelle Gallerie dell’Accademia a Venezia.
Realizzato da Giorgio Gasparini, più comunemente noto con il nome di Giorgione, protagonista indiscusso della pittura veneta degli inizi del Cinquecento nato a Castelfranco Veneto nel 1478. Questo artista animò l’ambiente pittorico veneziano per breve tempo, fino al 1510, quando morì a poco più di 30 anni, consegnando ai posteri un’eredità particolare nella mancanza di fonti certe e attendibili, che lasciano ancora avvolte nel mistero gran parte delle notizie relative alla sua vita e alle sue opere.
L’opera è citata per la prima volta nel 1530 da un nobile veneziano, che in un suo scritto annotava di aver visto nel Palazzo di tale Gabriel Vendramin, “el paeseto in tela cun la Tempesta cun la cingana (zigana, zingara) et soldato” di mano di Giorgione. L’ambiente culturale veneziano degli inizi del Cinquecento era incline alle immagini criptiche e al soggetto “nascosto”, accessibile solo a pochi eletti e Giorgione lavorò esclusivamente per una ristretta cerchia di intellettuali, alla quale apparteneva lo stesso committente Vendramin. La critica moderna ha tentato di ricostruire il significato recondito del soggetto giorgionesco, significato che doveva sfuggire agli stessi contemporanei, attribuendo svariate letture ad un’opera dalla indiscussa maestria pittorica. (dal sito ilmuromag.it, Giorgione L’enigma della tempesta)
Cattura lo sguardo un paesaggio misterioso e affascinante in cui si collocano gli elementi costituenti la scena e il soggetto nella sua totalità: un uomo, una donna svestita nell’atto di allattare un bambino nudo, un cielo trafitto da un fulmine, un fiume, una città in lontananza e delle rovine tutti immersi in una vegetazione particolareggiata e sospesi, quasi, nell’attimo che precede quello che possiamo immaginare l’evento successivo, la tempesta appunto, che si presume stia per accadere di lì a poco. La figura maschile in contrapposizione a quella femminile è vestita, in posizione eretta, colorata vivacemente e con lo sguardo maggiormente presente, tanto da sembrare quasi dotata di una consapevolezza rispetto alla scena e rispetto alla donna che, invece, guarda verso un punto indefinito con occhi insicuri, quasi fosse capitata in quel luogo per una sorte non decisa e si domandasse l’attinenza con quel contesto. La staticità della scena sottolinea il momento di sospensione che precede l’ineluttabilità della natura e anche i colori concorrono a sottolineare un tempo indefinito d’attesa, stesi nelle varie tonalità che comportarono a Giorgione “l’importante introduzione della pittura tonale o tonalismo, stile pittorico che si basa su un particolare uso del colore, in cui la definizione plastica e quella spaziale sono rese attraverso le sfumature e le modulazioni visive dei diversi toni di colore opportunamente accostati” (Mariella Pasotto).
– a cura di Angela Greco e Giorgio Chiantini –
approfondimenti:
http://www.arte.rai.it/articoli/giorgione/17601/default.aspx
http://www.arte.rai.it/articoli/giorgione-la-tempesta/1709/default.aspx
Ritratto di donna
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da Ogni caso (1972), Wisława Szymborska, Vista con granello di sabbia – Biblioteca Adelphi
immagine: Antonio Mancini (1852- 1930), Riposo
Vieni con me
Vieni con me!
Devi affrettarti però –
sette lunghe miglia
io faccio ad ogni passo.
Dietro il bosco ed il colle
aspetta il mio cavallo rosso.
Vieni con me! Afferro le redini –
vieni con me nel mio castello rosso.
Lì crescono alberi blu
con mele d’oro,
là sogniamo sogni d’argento,
che nessun altro può sognare.
Là dormono rari piaceri,
che nessuno finora ha assaggiato,
sotto gli allori baci purpurei –
Vieni con me per boschi e colli!
tieniti forte! Afferro le redini,
e tremando il mio cavallo ti rapisce.
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Hermann Hesse
(dal web – sull’Autore: http://www.hermann-hesse.de/it)
residui di memorie antecedenti l’agognata serenità
impossibilitano a vedere un azzurro incipiente
in questo baratro d’attese chiamato ‘oggi’
il trascorrere degli accadimenti si sussegue
alla rincorsa affannata verso uno spiraglio minimo
di altra luce fautrice – magari – di nuova linfa
aggrediamo così bianchi senza fondamenta fogli di noi
che non sappiamo distrarci dall’essere carta e penna
per respirare nel pantano grigiastro quello che non va
releghiamo lacrime mancate e prontissimi silenzi da noi
sugli interminabili spazi candidi che sappiamo ascoltarci
memori di quando eravamo quel tutt’uno capace di nome
ricominciamo solo dopo l’inchiostro a respirare neri ma vivi
non ho altre soluzioni se non questa di gettare ai piedi
di un dio clemente il fosco di un mattino mal nato
strana anche a me stessa accetto paziente la notte
mi raccolgo nella posizione di partenza a stringere ossa
e tento così di camminare ancora.
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Angela Greco, agosto 2014
Che belle parole
se si potesse scrivere
con un raggio di sole.
Che parole d’argento
se si potesse scrivere
con un filo di vento.
Ma in fondo al calamaio
c’è un tesoro nascosto
e chi lo pesca scriverà parole
d’oro
col più nero inchiostro.
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da Filastrocche in cielo e in terra
Gianni Rodari, I libri della fantasia – Einaudi Ragazzi
dedicata alla mia Josephine ^_^
Dice la speranza: un giorno
la vedrai, se sai aspettare.
E lo scoramento: lei
non è che la tua amarezza.
Ma tu batti, cuore…Tutto
non l’ha inghiottito la terra.
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Dice la esperanza: un día
la verás, si bien esperas.
Dice la desesperanza:
sólo tu amargura es ella.
Late, corazón…No todo
se lo ha tragado la tierra.
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Antonio Machado, da Campi di Castiglia
tratto da Antnio Machado, Il canto dell’uomo – Un secolo di poesia, Corriere della Sera