John Donne, Il sogno

Alba sullo Jonio - CT - - - inserita il 13-Jun-11. Acitrezza

Il sogno 

Per nessun altro, amore, avrei spezzato
questo beato sogno.
Buon tema per la ragione
troppo forte per la fantasia.
Fosti saggia a destarmi. E tuttavia
tu non spezzi il mio sogno, lo prolunghi.
Tu così vera che pensarti basta
per fare veri i sogni e storia le favole.
Entra fra queste braccia. Se ti parve più giusto
per me non sognare tutto il sogno
ora viviamo il resto.
.
Come il lampo o un bagliore di candela,
I tuoi occhi, non già il rumore, mi destarono.
Pure (giacchè ami il vero)
io ti credetti sulle prime un angelo.
Ma quando vidi che mi vedevi in cuore,
sapevi i miei pensieri oltre l’arte di un angelo,
quando interpretasti il sogno, sapendo
che la troppa gioia mi avrebbe destato
e venisti, devo confessare
che sarebbe stato sacrilegio crederti altro da te.
.
Il venire, il restare ti rivelò: tu sola.
Ma ora che ti allontani
dubito che tu non sia più tu.
Debole quell’amore di cui più forte è la paura,
e non è tutto spirito limpido e valoroso
se è misto di timore, di pudore, di onore.
Forse, come le torce
sono prima accese e poi spente, così tu fai con me.
Venisti per accendermi, vai per venire. E io
sognerò nuovamente
quella speranza, ma per non morire.
 .

*

John Donne, Poesie amorose poesie teologiche, a cura di Cristina Campo (Einaudi) —  in foto: Alba sullo Jonio ad Aci Trezza, dal web.

Tre poeti per l’Italia

Lorenzo Perrone, J'accuse, libro vero, gres, vernice acrilica, matite, 2012

Italia di Giuseppe Ungaretti

Sono un poeta
un grido unanime
sono un grumo di sogni

Sono un frutto
d’innumerevoli contrasti d’innesti
maturato in una serra

Ma il tuo popolo è portato
dalla stessa terra
che mi porta
Italia

E in questa uniforme
di tuo soldato
mi riposo
come fosse la culla
di mio padre.

~

Il mio paese è l’Italia di Salvatore Quasimodo 

Più i giorni s'allontanano dispersi
e più ritornano nel cuore dei poeti.
Là i campi di Polonia, la piana dì Kutno
con le colline di cadaveri che bruciano
in nuvole di nafta, là i reticolati
per la quarantena d'Israele,
il sangue tra i rifiuti, l'esantema torrido,
le catene di poveri già morti da gran tempo
e fulminati sulle fosse aperte dalle loro mani,
là Buchenwald, la mite selva di faggi,
i suoi forni maledetti; là Stalingrado,
e Minsk sugli acquitrini e la neve putrefatta.
I poeti non dimenticano. Oh la folla dei vili,
dei vinti, dei perdonati dalla misericordia!
Tutto si travolge, ma i morti non si vendono.
Il mio paese è l'Italia, o nemico più straniero,
e io canto il suo popolo, e anche il pianto
coperto dal rumore del suo mare,
il limpido lutto delle madri, canto la sua vita.

~

Alla mia nazione di Pier Paolo Pasolini 

Non popolo arabo, non popolo balcanico, non popolo antico
ma nazione vivente, ma nazione europea:
e cosa sei? Terra di infanti, affamati, corrotti,
governanti impiegati di agrari, prefetti codini,
avvocatucci unti di brillantina e i piedi sporchi,
funzionari liberali carogne come gli zii bigotti,
una caserma, un seminario, una spiaggia libera, un casino!

Milioni di piccoli borghesi come milioni di porci
pascolano sospingendosi sotto gli illesi palazzotti,
tra case coloniali scrostate ormai come chiese.
Proprio perché tu sei esistita, ora non esisti,
proprio perché fosti cosciente, sei incosciente.

E solo perché sei cattolica, non puoi pensare
che il tuo male è tutto male: colpa di ogni male.
Sprofonda in questo tuo bel mare, libera il mondo.

*

In apertura: opera di Lorenzo Perrone, J’accuse (libro vero, gres, vernice acrilica, matite, 2012)

AA.VV. Ricordo, ricordi…

ph.AnGre

Ricordo di Eugenio Montale

Lei sola percepiva i suoni
dei miei silenzi. Temevo
a volte che fuggisse il tempo
ostile mentre parlavamo.

Dopodiché ho smarrito la memoria
ed ora mi ritrovo a parlare
di lei con te, tra spirali di fumo
che velano la nostra commozione.

Ed è questa la parte di me che ritrovo
mutata: il sentimento, per sé informe,
in quest’oggi che è solo di rimpianto.

~

L’addio di Nazim Hikmet

L’uomo dice alla donna
t’amo
e come:
come se stringessi tra le palme
il mio cuore, simile a scheggia di vetro
che m’insanguina i diti
quando lo spezzo
follemente.

L’uomo dice alla donna
t’amo
e come:
con la profondità dei chilometri
con l’immensità dei chilometri
cento per cento
mille per cento
cento volte l’infinitamente cento.

La donna dice all’uomo
ho guardato
con le mie labbra
con la mia testa col mio cuore
con amore con terrore, curvandomi
sulle tue labbra
sul tuo cuore
sulla tua testa.
E quello che dico adesso
l’ho imparato da te
come un mormorio nelle tenebre
e oggi so
che la terra
come una madre
dal viso di sole
allatta la sua creatura più bella.

Ma che fare?
I miei capelli sono impigliati ai diti di ciò che muore
non posso strapparne la testa
devi partire
guardando gli occhi del nuovo nato
devi abbandonarmi.
La donna ha taciuto
si sono baciati
un libro è caduto sul pavimento
una finestra si è chiusa.
È così che si sono lasciati.

(Traduzione di Joyce Lussu)

~

Amore di lontananza di Antonia Pozzi 

Ricordo che, quand’ero nella casa
della mia mamma, in mezzo alla pianura,
avevo una finestra che guardava
sui prati; in fondo, l’argine boscoso
nascondeva il Ticino e, ancor più in fondo,
c’era una striscia scura di colline.
Io allora non avevo visto il mare
che una sol volta, ma ne conservavo
un’aspra nostalgia da innamorata.
Verso sera fissavo l’orizzonte;
socchiudevo un po’ gli occhi; accarezzavo
i contorni e i colori tra le ciglia:
e la striscia dei colli si spianava,
tremula, azzurra: a me pareva il mare
e mi piaceva più del mare vero.

~

Mi ricorderò di questo autunno di Leonardo Sinisgalli

Mi ricorderò di questo autunno
splendido e fuggitivo dalla luce migrante,
curva al vento sul dorso delle canne.
La piena dei canali è salita alla cintura
e mi ci sono immerso disseccato dalla siccità.
Quando sarò con gli amici nelle notti di città
farò la storia di questi giorni di ventura,
di mio padre che a pestar l’uva
s’era fatti i piedi rossi,
di mia madre timorosa
che porta un uovo caldo nella mano
ed è più felice d’una sposa.
Mio padre parlava di quel ciliegio
piantato il giorno delle nozze, mi diceva,
quest’anno non ha avuto fioritura,
e sognava di farne il letto nuziale a me primogenito.
Il vento di tramontana apriva il cielo
al quarto di luna. La luna coi corni
rosei, appena spuntati, di una vitella!
Domani si potrà seminare, diceva mio padre.
Sul palmo aperto della mano guardavo
i solchi chiari contro il fuoco, io sentivo
scoppiare il seme nel suo cuore,
io vedevo nei suoi occhi fiammeggiare
la conca spigata.

~

C’era di Umberto Saba

C’era, un po’ in ombra, il focolaio; aveva
arnesi, intorno, di rame. Su quello
si chinava la madre col soffietto,
e uscivano faville.

C’era nel mezzo una tavola dove
versava antica donna le provviste.
Il mattarello vi allungava a tondo
la pasta molle.

C’era, dipinta di verde, una stia,
e la gallina in libertà raspava.
Due mastelli, là sopra, riflettevano,
colmi, gli oggetti.

C’era, mal visto nel luogo, un fanciullo.
Le sue speranze assieme alle faville
del focolaio si alzavano. Alcuna
-guarda!-è rimasta.

AA.VV. Agli amici

L’amico che dorme di Cesare Pavese 

Che diremo stanotte all’amico che dorme?
La parola più tenue ci sale alle labbra
dalla pena più atroce.
Guarderemo l’amico,
le sue inutili labbra che non dicono nulla,
parleremo sommesso.
La notte avrà il volto
dell’antico dolore che riemerge ogni sera
impassibile e vivo.
Il remoto silenzio soffrirà come un’anima, muto, nel buio.
Parleremo alla notte che fiata sommessa.
Udiremo gli istanti stillare nel buio
al di là delle cose, nell’ansia dell’alba,
che verrà d’improvviso incidendo le cose
contro il morto silenzio.
L’inutile luce svelerà il volto assorto del giorno.
Gli istanti taceranno.
E le cose parleranno sommesso.

~

Amicizia di Khalil Gibran

E un giovane chiese: “Parlaci dell’amicizia”
Il vostro amico è il vostro bisogno saziato.
È il campo che seminate con amore e mietete con riconoscenza.
È la vostra mensa e il vostro focolare.
Poiché, affamati, vi rifugiate in lui e lo ricercate per la vostra pace.

~

Soffitta di Ezra Pound

Vieni, compiangiamoli quelli che stanno meglio di noi.
Vieni, amica, e ricorda
che i ricchi han maggiordomi e non amici,
e noi abbiamo amici e non maggiordomi.
Vieni, compiangiamo gli sposati e i non sposati.
L’aurora entra a passettini
come una dorata Pavlova,
e io son presso al mio desiderio.
Né ha la vita in sé qualcosa di migliore
che quest’ora di chiara freschezza,
l’ora di svegliarsi in amore.

~

Amico di Pablo Neruda 

Amico, portati via quello che vuoi,
affonda il tuo sguardo negli angoli,
e se vuoi ti darò tutta l’anima
coi suoi bianchi viali e le sue canzoni.

~

Amicizia di Jorge Luis Borges 

Non posso darti soluzioni
per tutti i problema della vita
Non ho risposte per i tuoi dubbi o timori,
però posso ascoltarli e dividerli con te
Non posso cambiare né il tuo passato
né il tuo futuro
Però quando serve starò vicino a te
Non posso evitarti di precipitare,
solamente posso offrirti la mia mano
perché ti sostenga e non cadi
La tua allegria, il tuo successo e il tuo trionfo
non sono i miei
Però gioisco sinceramente quando ti vedo felice
Non giudico le decisioni che prendi nella vita
Mi limito ad appoggiarti a stimolarti
e aiutarti se me lo chiedi
Non posso tracciare limiti
dentro i quali devi muoverti,
Però posso offrirti lo spazio
necessario per crescere
Non posso evitare la tua sofferenza,
quando qualche pena ti tocca il cuore
Però posso piangere con te e raccogliere i pezzi per rimetterlo a nuovo.
Non posso dirti né cosa sei né cosa devi essere
Solamente posso volerti come sei
ed essere tua amica.

Vittorio Sereni, tre poesie

carta e penna

Vittorio Sereni, tre poesie

*

Finestra

Di colpo – osservi – è venuta,
è venuta di colpo la primavera
che si aspettava da anni.

Ti guardo offerta a quel verde
al vivo alito al vento,
ad altro che ignoro e pavento
– e sto nascosto –
e toccasse il mio cuore ne morrei.
Ma lo so troppo bene se sul grido
dei viali mi sporgo,
troppo dal verde dissimile io
che sui terrazzi un vivo alito muove,
dall’incredibile grillo che quest’anno
spunta a sera tra i tetti di città
– e chiuso sto in me, fasciato di ribrezzo.

Pure, un giorno è bastato.
In quante per una che venne
si sono mosse le nuvole
che strette corrono strette sul verde,
spengono canto e domani
e torvo vogliono il nostro cielo.
Dillo tu allora se ancora lo sai
che sempre sono il tuo canto,
il vivo alito, il tuo
verde perenne, la voce che amò e cantò –
che in gara ora, l’ascolti?
scova sui tetti quel po’ di primavera
e cerca e tenta e ancora si rassegna.

~

Le mani

Queste tue mani a difesa di te:
mi fanno sera sul viso.
Quando lente le schiudi, là davanti
la città è quell’arco di fuoco.
Sul sonno futuro
saranno persiane rigate di sole
e avrò perso per sempre
quel sapore di terra e di vento
quando le riprenderai.

~

Capo d’anno

Aggiorna sul nevaio.
Ad altro dosso di monte
un ignoto paese
mormorando mi va primavera
dalle sue rosse fontane,
da rivi scaturiti a giorno chiaro;
dove uscirono donne sulla neve
e ora cantano al sole.

Tre poesie di Robert Frost

bosco in autunno

Tre poesie di Robert Frost

*

La strada non presa

Due strade divergevano in un bosco giallo
e mi dispiaceva non poterle percorrere entrambe
ed essendo un solo viaggiatore, rimasi a lungo
a guardarne una fino a che potei.

Poi presi l’altra, perché era altrettanto bella,
e aveva forse l’ aspetto migliore,
perché era erbosa e meno consumata,
sebbene il passaggio le avesse rese quasi simili.

Ed entrambe quella mattina erano lì uguali,
con foglie che nessun passo aveva annerito.

Oh, misi da parte la prima per un altro giorno!
Pur sapendo come una strada porti ad un’altra,
dubitavo se mai sarei tornato indietro.

Lo racconterò con un sospiro
da qualche parte tra anni e anni:
due strade divergevano in un bosco, e io –
io presi la meno percorsa,
e quello ha fatto tutta la differenza.

~

Fuori per campi e boschi

Fuori per campi e boschi
E oltre le mura ho viaggiato;
Salito su colline panoramiche
Ho guardato il mondo, sono sceso;
Per la via grande son tornato a casa,
Ed ecco ho terminato.

Le foglie sono tutte morte a terra,
Ma la quercia le sue trattiene
Per ammucchiarle una a una
E lasciarle graffiare e strisciare
Fuori sulla crosta di neve,
Quando le altre staranno a riposare.

Confuse e immobili le foglie morte,
Non più sbattute qua e là;
L’ultimo astro solitario è scomparso;
Appassiscono i fiori dell’hamamelis;
Ancora cerca e si tormenta il cuore,
Ma i passi domandano «dove?».

Ah, quando mai al cuore dell’uomo
Fu meno che un tradimento
Lasciarsi alla deriva delle cose,
Cedere con grazia alla ragione,
E piegarsi e accettare la fine
D’un amore e d’una stagione?

~

Niente che sia d’oro resta

In Natura il primo verde è dorato,
e subito svanisce.
Il primo germoglio è un fiore
che dura solo un’ora.
Poi a foglia segue foglia.
Come l’Eden affondò nel dolore
Così oggi affonda l’Aurora.
Niente che sia d’oro resta.

Due poesie di Vittorio Bodini

9~Leuca - Faro di Punta Palascia

Due poesie di Vittorio Bodini

*

Con questo nome

Amore, cosa chiamo con questo nome
io non sono più certo di sapere.
Se ricerco nel fondo ove s’immerse
il tuo quieto naufragio,
fra i denti degli squali, di quelle sabbie gelosi,
presto riemerge il mio pensiero nudo
al visibile giorno,
con le braccia ferite e qualche filo
d’alga sul corpo, o i ciechi segni d’una medusa.

Ma a sera, se col passo delle fiere
che convengono caute presso lo stagno,
fra gli azzurri veleni che mesce il cielo,
in me come a tremante vetro s’affacciano
le antiche colpe, o errori, o la presente
solitudine, oh allora, come sei
tu stranamente viva sulle mie labbra,
e che stupiti altari la mia voce
odono che si scolpa nelle tenebre
a mia insaputa: O amore, tu sapessi…

~

Tutto un paese sorge contro un uomo

Tutto un paese sorge contro un uomo
condannato al coraggio:
le torri aragonesi a rombo sulla scogliera
e le case alte un palmo
(e doverti pregare di sorridere!),
come il cucito su cui cade a picco
il profilo severo delle cucitrici
in una poca luce d’oleandri.
Mi sarebbe costato meno uccidere,
in quest’inefficace lume di luna
schiacciata ai poli e preda di vapori
d’un rissoso occidente,
che dover dire: «un uomo come me »,
e sentire lo spazio per tutti e quattro i costati
torcersi come rame bianco, e le stoppie bruciare
in fumo senza vampe.
Le cose si feriscono anche senza di noi.
Che cos’ha questo viso? Io non avrei dovuto
uscire così illeso dai miei naufragi e segnare
nuovi fatti insensati sul bilancio del vivere,
eppure il tempo non si vendica, serba una traccia
dell’antica fierezza che morì
nelle disabitate tombe sparse
fra questi scogli che corrode il mare
e lo zolfo di sommersi vulcani.
È lì che vaga la notte la tua anima
di uomo come me, di me che credo
in quegli avi sepolti per tanti secoli
con un profilo come il mio
con cui guidavano
il corso delle navi e dei cavalli
e amavano pazienti donne dagli occhi d’uva.
Come si dibatte l’omuncolo nell’intrico del sangue
di quell’offesa somiglianza – e intanto perde terreno!
Vedilo dunque saltare, saltare infinitamente
fra queste tombe greche
accecate di terra, in riva al mare,
sparire nelle grotte, ricomparire
col viso tumefatto dal dolciastro egoismo
d’essere ancora vivo senza pietà.

in apertura: faro di Punta Palascia, Otranto (LE)

Due poesie di Pablo Neruda

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Due poesie di Pablo Neruda

*

Nascere non basta

Nascere non basta.
È per rinascere che siamo nati.
Ogni giorno.

*

Giochi ogni giorno con la luce dell’universo

Giochi ogni giorno con la luce dell’universo.
Sottile visitatrice, giungi nel fiore e nell’acqua.
Sei più di questa bianca testina che stringo
come un grappolo tra le mie mani ogni giorno.

A nessuno rassomigli da che ti amo.
Lasciami stenderti tra le ghirlande gialle.
chi scrive il tuo nome a lettere di fumo tra le stelle del sud?
Ah lascia che ricordi come eri allora, quando ancora non esistevi.

Improvvisamente il vento ulula e sbatte la mia finestra chiusa.
Il cielo è una rete colma di pesci cupi.
Qui vengono a finire i venti, tutti.
La pioggia si denuda.

Passano fuggendo gli uccelli.
Il vento. Il vento.
Io posso lottare solamente contro la forza degli uomini.
Il temporale solleva in turbine foglie oscure
e scioglie tutte le barche che iersera s’ancorarono al cielo.

Tu sei qui. Ah tu non fuggi.
Tu mi risponderai fino all’ulitmo grido.
Raggomitolati al mio fianco come se avessi paura.
Tuttavia qualche volta corse un’ombra strana nei tuoi occhi.

Ora, anche ora, piccola mi rechi caprifogli,
ed hai persino i seni profumati.
Mentre il vento triste galoppa uccidendo farfalle
io ti amo, e la mia gioia morde la tua bocca di susina.

Quanto ti sarà costato abituarti a me,
alla mia anima sola e selvaggia, al mio nome che tutti allontanano.
Abbiamo visto ardere tante volte l’astro baciandoci gli occhi
e sulle nostre teste ergersi i crepuscoli in ventagli giranti.

Le mie parole piovvero su di te accarezzandoti.
Ho amato da tempo il tuo corpo di madreperla soleggiata.
Ti credo persino padrona dell’universo.
Ti porterò dalle montagne fiori allegri, copihues,
nocciole oscure, e ceste silvestri di baci.
Voglio fare con te
ciò che la primavera fa con i ciliegi.

Alla madre

Giacomo Balla, Affetti

Lettera alla madre di Salvatore Quasimodo

«Mater dolcissima, ora scendono le nebbie,
il Naviglio urta confusamente sulle dighe,
gli alberi si gonfiano d’acqua, bruciano di neve;
non sono triste nel Nord: non sono
in pace con me, ma non aspetto
perdono da nessuno, molti mi devono lacrime
da uomo a uomo. So che non stai bene, che vivi
come tutte le madri dei poeti, povera
e giusta nella misura d’amore
per i figli lontani. Oggi sono io
che ti scrivo. » – Finalmente, dirai, due parole
di quel ragazzo che fuggì di notte con un mantello corto
e alcuni versi in tasca. Povero, così pronto di cuore
lo uccideranno un giorno in qualche luogo. –
«Certo, ricordo, fu da quel grigio scalo
di treni lenti che portavano mandorle e arance,
alla foce dell’Imera, il fiume pieno di gazze,
di sale, d’eucalyptus. Ma ora ti ringrazio,
questo voglio, dell’ironia che hai messo
sul mio labbro, mite come la tua.
Quel sorriso m’ha salvato da pianti e da dolori.
E non importa se ora ho qualche lacrima per te,
per tutti quelli che come te aspettano,
e non sanno che cosa. Ah, gentile morte,
non toccare l’orologio in cucina che batte sopra il muro
tutta la mia infanzia è passata sullo smalto
del suo quadrante, su quei fiori dipinti:
non toccare le mani, il cuore dei vecchi.
Ma forse qualcuno risponde? O morte di pietà,
morte di pudore. Addio, cara, addio, mia dolcissima mater. »

~

Preghiera alla madre di Umberto Saba

Madre che ho fatto soffrire
(cantava un merlo alla finestra, il giorno
abbassava, sì acuta era la pena
che morte a entrambi io m’invocavo) madre
ieri in tomba obliata,
oggi rinata; presenza,
che dal fondo dilaga quasi vena
d’acqua, cui dura forza reprimeva,
e una mano le toglie abile o incauta
l’impedimento;
presaga gioia io sento
il tuo ritorno, madre mia che ho fatto,
come un buon figlio amoroso, soffrire.
Pacificata in me ripeti antichi
moniti vani. E il tuo soggiorno un verde
giardino io penso, ove con te riprendere
può a conversare l’anima fanciulla,
inebbriarsi del tuo mesto viso,
sì che l’ali vi perda come al lume
una farfalla. È un sogno,
un mesto sogno; ed io lo so. Ma giungere
vorrei dove sei giunta, entrare dove
tu sei entrata
ho tanta gioia e tanta stanchezza!
farmi, o madre,
come una macchia dalla terra nata,
che in sé la terra riassorbe ed annulla.

~

Supplica a mia madre di Pier Paolo Pasolini 

È difficile dire con parole di figlio
ciò a cui nel cuore ben poco assomiglio.

Tu sei la sola al mondo che sa, del mio cuore,
ciò che è stato sempre, prima d’ogni altro amore.

Per questo devo dirti ciò ch’è orrendo conoscere:
è dentro la tua grazia che nasce la mia angoscia.

Sei insostituibile. Per questo è dannata
alla solitudine la vita che mi hai data.

E non voglio esser solo. Ho un’infinita fame
d’amore, dell’amore di corpi senza anima.

Perché l’anima è in te, sei tu, ma tu
sei mia madre e il tuo amore è la mia schiavitù:

ho passato l’infanzia schiavo di questo senso
alto, irrimediabile, di un impegno immenso.

Era l’unico modo per sentire la vita,
l’unica tinta, l’unica forma: ora è finita.

Sopravviviamo: ed è la confusione
di una vita rinata fuori dalla ragione.

Ti supplico, ah, ti supplico: non voler morire.
Sono qui, solo, con te, in un futuro aprile…

*

In apertura: G.Balla, “Affetti”

Due poesie di Odisseas Elitis

libri-mare

Due poesie di Odisseas Elitis (pseudonimo di Odisseas Alepudelis); nato nel 1911 a Iraklio di Creta, nel 1979 riceve il Premio Nobel per la Letteratura, secondo poeta greco dopo Ghiorgos Seferis. Morirà ad Atene nel 1996.

*

Piango il sole e piango gli anni che verranno
Senza di noi e canto gli altri passati
Se veramente sono

Confidenti i corpi e le barche che sbattono dolcemente
Le chitarre che accendono e spengono sotto le acque
I “credimi” e i “non”
Ora nel vento ora nella musica

E le nostre mani, due piccole bestie
Che furtive cercavano di salire l’una sull’altra
Il vaso di brezza negli aperti cortili
E i frammenti di mare che ci seguivano
Fin dietro le siepi e sopra i muri a secco
L’anemone che si depose nella tua mano
E tremò tre volte il viola tre giorni sopra le cascate

Se tutto questo è vero io canto
La trave di legno e l’arazzo quadrato
Alla parete, la Gorgone con i capelli sciolti
Il gatto che ci guardò nel buio
Bambino con la croce vermiglia e l’incenso
Nell’ora che sull’impervia scogliera scende la sera
Piango la veste che sfiorai e fu mio il mondo.

~

Elena

Uccisa con la prima goccia della pioggia l’estate
Madide le parole un tempo madri a chiaro d’astri
Parole tutte destinate solo a Te!
Dove mai tenderemo le mani ora che il tempo non ci calcola più
Dove mai getteremo gli occhi oramai che le remote linee
hanno fatto naufragio nelle nubi
Ora che le tue palpebre sopra i nostri paesi sono chiuse
E siamo – come invasi dalla nebbia – soli
Soli assediati dalle tue sembianze morte.

Con la fronte sul vetro vegliamo il nuovo cruccio
Non è la morte che ci abbatterà se ci sei Tu
Se un vento altrove c’è che tutta intera ti vivrà
Ti vestirà da presso come la speranza nostra ti veste da lontano
Se altrove c’è
Una pianura verde di là dal tuo sorriso fino al sole
E gli confida che c’incontreremo ancora
Non è la morte che fronteggeremo no
Ma così breve goccia della pioggia d’autunno
Un sentimento torbido
L’odore della terra infradiciata nelle anime nostre che s’allontanano via via

Se non è la tua mano nella nostra
Se non è il sangue nostro nelle vene dei tuoi sogni O la luce nel cielo immacolato
E dentro noi la musica segreta – malinconica
Pellegrina di tutto ciò che ci tiene al mondo ancora
È quest’umido vento l’ora dell’autunno il distacco
L’amaro appoggio del cubito al ricordo
Che spunta quando già la notte sta per scinderci dal chiaro
Di là dalla finestra quadra
Che guarda sull’angoscia e nulla vede
Perché s’è fatta musica segreta vampa al focolare bàttito
dell’orologio grande alla parete
Perché s’è già cangiata
In poesia – verso su verso – in suono parallelo a pioggia lacrime parole
Altre parole eppure anch’esse destinate solo a Te!

Pensando a te…

Henri-Cartier-Bresson-In-treno-Romania-1975-©-Henri-Cartier-Bresson-Magnum-Photos-Contrasto

Incontro di Karen Blixen

Ah, quando sei lontano e nessuno
più nomina il tuo nome –
quando ovunque mi rechi sento
cupo e gelido un vuoto –

comincio a credere che tu sia solo un sogno
nato dalle brame della mia mente,
e a questo sogno ho dato vita e nome
e in ultimo il tuo aspetto –

– ma quando poi ti vedo e posso
sentire ancora le tue forti parole,
e posarti ancora il capo sulla spalla –
ascoltare ancora il suono della tua voce –

allora so che il resto è solo notte,
malvagi sogni che presto scorderò,
so che tu mi porti nella luce
e che in te dimorano la vita e il giorno

~

Il tuo cuore lo porto con me di Edward Estlin Cummings 

Io porto il tuo cuore in me (lo porto nel
mio cuore) non lo lascio mai (ovunque
vado tu vai, cara: e quel che faccio
io da solo lo fai tu, tesoro mio)
non temo
fato (tu sei il mio fato, mia dolce) né
voglio il mondo (bella, mio mondo, mia fedele)
tu sei quel che luna sempre fu
e quel che un sole sempre canterà sei tu
qui sta il più grande segreto che nessuno sa
(qui l’intima radice e bocciolo e cielo
di un albero chiamato vita; che cresce
più alto di quanto anima speri e mente
celi) e questa meraviglia regge le stelle
io porto il tuo cuore (lo porto nel mio cuore)

~

Parlare di Paul Eluard

Parlare
senza avere niente da dire
comunicare
in silenzio
i bisogni dell’anima
dar voce
alle rughe del volto
alle ciglia degli occhi
agli angoli della bocca
parlare
tenendosi per mano
tacere
tenendosi per mano.

~

Penso a te nel silenzio della notte di Fernando Pessoa

Penso a te nel silenzio della notte
quando tutto è nulla,
e i rumori presenti
nel silenzio sono il silenzio stesso,
allora solitario di me, passeggero fermo
di un viaggio senza Dio, inutilmente penso a te.
Tutto il passato in cui fosti un momento eterno
è come questo silenzio di tutto.
Tutto il perduto, in cui fosti quel che più persi.
è come questi rumori,
tutto l’inutile, in cui fosti quel che non doveva essere,
è come il nulla che sarà
in questo silenzio notturno.
Ho visto morire o sentito che morirono,
quanto amai o conobbi,
ho visto non saper più nulla di quelli che un po’ andarono
con me, e poco importa se fu un’ora
o qualche parola;
o un passeggio emotivo e muto,
e il mondo oggi per me è un cimitero di notte,
bianco e nero di tombe e alberi e di chiardiluna,
ed è in questo quiete assurda di me e di tutto
che penso a te.

*

In apertura: foto di Henri Cartier-Bresson

Konstantinos Kavafis, due poesie

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Konstantinos Kavafis, due poesie

*

Voci

Voci ideali e amate
di quanti sono morti, di quanti
sono per noi perduti come i morti.

A volte ci parlano nei sogni,
a volte le ode la mente tra i pensieri.

Col loro suono riemergono un istante
suoni della poesia prima della vita –
come di notte una musica
che in lontananza muore.

~

Mare al mattino

Fermarmi qui. Per vedere anch’io un po’ di natura.
Luminosi azzurri e gialle sponde
del mare al mattino e del cielo limpido: tutto
è bello e in piena luce.

Fermarmi qui. E illudermi di vederli
(e davvero li vidi un attimo appena mi fermai);
e non vedere anche qui le mie fantasie,
i miei ricordi, le visioni del piacere.

Tre poesie dedicate al mare

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IL MARE 

Acqua docile al freno, sottomessa in silenzio,
Sparso mare dai flutti per sempre incatenati,
E massa offerta al cielo, specchio dell’obbedienza
Dove ogni notte tesse nuove pieghe
La lontana potenza senza sforzo degli astri.
.
Quando viene il mattino e di sé colma lo spazio,
Essa raccoglie e rende il dono della luce.
Si posa in superficie un brillìo lieve;
L’acqua, in attesa e senza desiderio,
Sotto il giorno che cresce risplende e si cancella.
.
Il riflesso serale darà all’ala sospesa
Fra cielo ed acqua un lucrore improvviso.
Trattiene in basso la legge sovrana
L’onde oscillanti, fisse alla distesa
Dove ogni goccia sale e scende alterna.
.
La bilancia dai bracci segreti e trasparenti
D’acqua si pesa, e pesa schiuma e ferro,
Di per sé giusta ad ogni barca errante.
Un filo azzurro traccia sulla nave un rapporto,
Esatto sulla sua linea apparente.
.
Sii propizio, ampio mare, agli infelici mortali,
Stretti ai tuoi bordi, persi nel tuo grande deserto.
A chi è per sprofondare parla, prima che muoia;
Éntraci fino all’anima, acqua, sorella nostra:
Degnati di lavarla dentro la tua giustizia.
.
da Le poesie di Simone Weil  (a cura di Maura Del Serra, Ed.C.R.T. by Petite Plaisance)
.
.

L’UOMO E IL MARE 

Sempre, uomo libero, amerai il mare!
È il tuo specchio il mare: ti contempli l’anima
nell’infinito volgersi delle onde
e il tuo spirito non è abisso meno amaro.

Con piacere ti tuffi in seno alla tua immagine,
l’abbracci con lo sguardo, con le braccia, e il cuore
a volte si distrae dal proprio palpitare
al rumore di quel pianto indomabile e selvaggio.

Siete discreti entrambi, entrambi tenebrosi:
inesplorato, uomo, il fondo dei tuoi abissi,
sconosciute, mare, le tue ricchezze intime,
tanto gelosamente custodite i segreti!

Eppure, ecco che da infiniti secoli
vi combattete senza pietà e rimorso,
a tal punto amate le stragi e la morte,
o lottatori eterni, o fratelli implacabili!

Charles Baudelaire, da “Spleen e Ideale”, in “I fiori del male” (Trad. Marcello Comitini)

.

S’ODE ANCORA IL MARE

Già da più notti s’ode ancora il mare,
lieve, su e giù, lungo le sabbie lisce.
Eco d’una voce chiusa nella mente
che risale dal tempo; ed anche questo
lamento assiduo di gabbiani: forse
d’uccelli dalle torri, che l’aprile
sospinge verso la pianura. Già
m’eri vicina tu con quella voce;
ed io vorrei che pure a te venisse,
ora, di me un’eco di memoria,
come quel buio murmure di mare.
.
Salvatore Quasimodo, Tutte le poesie (Oscar Mondadori)

Roberto Bertoldo, quattro poesie da Il popolo che sono.

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Roberto Bertoldo, Il popolo che sono (Mimesis, Milano 2015), quattro poesie

.

Io parlo poesie
.
Io parlo poesie come i fabbri schegge
e festuche i falegnami,
amo per quel diluvio
che non potete dimenticare,
vivo come i veggenti,
scrivo da passatore.
Ho spade di legno
e l’arca di ferro,
una pagina di idee
e altri materiali sul ceppo.
Conosco la morte
perché è stata sulla penna
che ha scritto ‘bambini’,
conosco le mani disonorate
perché il vento vi ha inciso
le sue folate,
so dei rapaci che volano bassi
più della mia colpa
e aspettano che forgi il verso
di cui farmi sepolto.
Ma io ho, dentro di me,
il popolo che sono.
.
.
.
I distici della notte
.
Vi abbiamo addossato le nostre tomaie
per affrancarvi dalla parola venduta,
la poesia ha decretato l’offesa:
non morirete con il canto alla gola,
le nostre mani che hanno terra
tra le fessure delle falangi
gridano con gli ultimi tendini,
fino a troncare il colore pingue
dei vostri aggettivi.
La notte opprime i distici,
vuole un’ampia dichiarazione,
impoetica per di più.
Sulla grata del confessionale
i versi si frantumano,
la tonaca si macchia di rime
e accessori annessi,
il rosario che sproloquia
sulle gambe del messia
sputa i semi delle metafore.
Qualcuno ha gridato la verità
più fortemente delle vostre lamentele,
nababbi di apollo,
gentilizi dell’anima.
Oh poeti, poeti, quale emblema
il mio osso di popolo vi estorce
quando la bocca avete sulla platea
per la tenia degli applausi?
.
.
.
Poema delle folate (il popolo tradisce)
.
Si sono riaperte, dentro, le note della malinconia
per il perdersi dei giorni
forse qualcuno capirà questa spesa di emozioni
e avrà carezze per i marmi
ma le notti di solitudine nascondono la pelle
come fosse mille volte dietro i ceri
e file di pellegrini dalle mani bacate
non riempiranno d’amore la cesta dove crolla il mio capo.
Chi mi ha ucciso conosce i rantoli
li porta sul sorriso della sua lama
e chi ha assistito alle folate dei secoli
tra i miei capelli sepolti
sa che gli inverni portano ancora
i fiocchi freddi dei deserti.
.
.
.
Iraq
.
Fatemi delirare l’amore
prima di sorprendere i mercati
coi vostri deliri di glicerina nitrata,
io li conosco gli avventori,
i loro occhi, la bocca e lo scarnito,
la fame che farfugliano,
rinvengo le verità e le altre carabattole
nel campo delle mie aritmie.
Oh, questi versi che marciscono
per troppa passione, tra le mie scapole
incontrano la notte che ghermisce.
.
.

popolo

San Giorgio, Giornata del libro e delle rose

libro e rose

23 aprile: Giornata del libro e delle rose.

La “Giornata Mondiale del Libro”, è stata voluta dall’Unesco nel 1996 con lo scopo di promuovere il “continuo progresso culturale attraverso la lettura, a protezione della pace, della cultura e dell’educazione di tutti i popoli.”

La scelta della data è legata alla coincidenza con due ricorrenze: la scomparsa, proprio il 23 aprile 1616, di nomi fondanti della letteratura mondiale, quali Shakespeare e Cervantes, e la tradizione  legata alla regione spagnola della Catalogna, dove già si festeggiava una Giornata dedicata al libro proprio il 23 aprile, nel giorno di Sant Jordi (San Giorgio), patrono, e dove è uso donare, nella stessa data, rose in ricordo di una leggenda.

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A Barcellona, secondo la leggenda, Giorgio, cavaliere, sconfisse il drago, salvando il popolo e la principessa minacciati dalla mostruosa creatura; dal sangue sgorgato dalle ferite, il santo fece fiorire immediatamente delle meravigliose rose rosse, una delle quali venne regalata proprio da Sant Jordi alla principessa.

In memoria di questo mitico accadimento, nel giorno dedicato a San Giorgio – il 23 aprile, appunto – in Catalogna si festeggia regalando un libro e una rosa alla persona amata. E anche i librai usano donare un fiore, quel giorno, ai lettori. (notizie dal web).

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William Shakespeare

Sonetto n.3

Guardati allo specchio e di’ al volto che vedi
che è ormai tempo per quel viso di crearne un altro,
se non rinnovi ora la sua giovane freschezza
inganni il mondo e rinneghi la gioia d’ogni madre.
Vi è forse donna tanto pura il cui illibato grembo
disdegni il seme della tua virilità?
O forse uomo tanto folle da voler essere la tomba
del suo proprio amore per non aver progenie?
Tu sei lo specchio di tua madre e come lei in te
ricorda il leggiadro Aprile della sua primavera,
così dai vetri del tuo crepuscolo tu rivedrai
a dispetto delle rughe, questo tuo tempo d’oro.
Ma se invece vuoi vivere senza esser ricordato,
muori celibe e la tua immagine morirà con te.

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Sonetto n.46

I miei occhi e il cuore sono in conflitto estremo
per contendersi l’immagine della tua persona:
gli occhi al cuor vorrebbero celare la tua effigie,
agli occhi il cuor contesta la libertà di tal diritto.
Il cuore a difesa adduce che tu dimori in lui
– un tempio mai violato da sguardi penetranti –
ma gli accusati negano tal dissertazione,
dicendo che in loro giace il tuo bel sembiante.
Per attribuir questo diritto si convoca in giuria
un esame dei pensieri che al cuore son fedeli,
e per verdetto loro viene aggiudicata
la parte dei puri occhi e quella del caro cuore:
così: agli occhi spetta la tua esteriorità,
e diritto del mio cuore è il tuo profondo amore.

(Versi dal sito shakespeareitalia.com)

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