Rileggiamo l’opera: Maestà di Santa Trinita di Firenze – sassi d’arte

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Cimabue, Maestà di Santa Trinita (1270)

tempera su tavola, cm 385 x 223 – Galleria degli Uffizi, Firenze

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 “In questa tavola, che secondo la tradizione Cimabue realizzò per la chiesa di Santa Trinita di Firenze e oggi conservata agli Uffizi, troviamo alcuni dei maggiori traguardi raggiunti dal maestro fiorentino. Essa è stata realizzata tra il 1280 e il 1290, in una fase quindi molto matura del percorso artistico di Cimabue. Il tema della Maestà in trono è molto diffuso in tutta la pittura del Duecento italiano, ed è una delle composizioni che, nella sua immanente ieraticità, più risente della influenza dello stile bizantino, dal quale i pittori italiani cercano di distaccarsi. Ed anche questa tavola del Cimabue risente dei grandi precedenti bizantini, conservandone alcuni tratti stilistici, in particolare la visione frontale, l’uso molto esteso del colore oro, nonché le lumeggiature dorate che utilizza per la veste della Madonna.

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 Ma la grande novità di questa pala d’altare sta soprattutto nella straordinaria costruzione spaziale, che viene impostata secondo una composizione del tutto inedita per il tempo. La Madonna siede su un trono che è quasi un’architettura, con il suo ritrarsi in una forma convessa, lasciando aprire al di sotto tre campate dal quale si affacciano quattro profeti. Nel suo complesso, questo trono così articolato sembra quasi la sezione di una cattedrale a tre navate, e non è quindi da escludere il significato simbolico del trono sul quale la Madonna siede e che quindi rappresenta la Chiesa. Nelle tre nicchie sottostanti al trono si affacciano quattro profeti: ai due lati abbiamo Geremia e Isaia (il primo è quello a destra guardando), mentre nella nicchia centrale vi sono Abramo e David che rappresentano la dinastia dalla quale è disceso Gesù.

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 Ai lati della Madonna e del Bambino ci sono quattro angeli per parte, la cui collocazione spaziale appare decisamente inedita. Gli angeli non sono semplicemente uno sopra l’altro, ad occupare in verticale lo spazio ai lati del trono: ma appaiono come sfalsati in profondità. È questa la prima volta che ciò accade, con l’evidente intento di dare profondità spaziale all’intera costruzione spaziale dell’immagine. Del resto anche i due profeti Geremia e Isaia, nelle due nicchie in basso, con il loro alzare lo sguardo verso l’alto, già suggeriscono delle direzioni spaziali che sono di precisa tridimensionalità: essi non stanno “sotto” ma “davanti”. Quindi lo spazio non è pensato e realizzato sulla bidimensionalità della tavola, ma sulla scatola spaziale che visivamente avvertiamo oltre il piano della rappresentazione.491px-Cimabue_035 Il percorso della successiva arte italiana è così tracciato: in Giotto, e in tutti i suoi seguaci, il piano di rappresentazione diviene sempre più trasparente per aprirsi ad uno spazio virtuale, e tridimensionale, oltre il piano sul quale giace materialmente l’immagine.”

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Nota – Il pittore fiorentino Cenni di Pepo soprannominato Cimabue fu uno dei principali protagonisti della pittura italiana della fine del Duecento, così come ci testimonia anche Dante in un famoso passaggio della Divina Commedia (Credette Cimabue ne la pittura / tener lo campo, e ora ha Giotto il grido, / sì che la fama di colui è scura – Purg. XI, 94-96). Poche le notizie della sua vita: la sua attività è documentata tra il 1272 e il 1302. Secondo il Vasari fu egli il primo pittore italiano a distaccarsi dallo stile bizantino per dar vita al nuovo linguaggio pittorico italiano. In realtà Giorgio Vasari tendeva a sopravvalutare la portata storica del contributo fiorentino al rinnovamento pittorico italiano, mentre la presenza a Roma di Cimabue nel decennio ’70 lo colloca in stretto rapporto con l’ambiente pittorico romano dominato in quegli anni dalle figure di Pietro Cavallini e Jacopo Torriti. Fondamentali alla formazione di Cimabue furono anche due pittori fiorentini quali Coppo di Marcovaldo e Giunta Pisano, i cui modi tardo bizantini furono proprio il punto di partenza dell’evoluzione stilistica di Cimabue.

Ma la pittura del maestro fiorentino se ne distaccò per due parametri fondamentali: la maggiore resa volumetrica delle figure attraverso un chiaroscuro di grande forza plastica e la ricerca di una umanizzazione delle figure che rompe definitivamente con la ieraticità delle immagini bizantine.

Non molte le sue opere pervenutici, alcune delle quali rovinate anche da recenti eventi, quale l’alluvione a Firenze del 1966 che produsse gravi danni al suo Crocefisso della Chiesa di Santa Croce. Diverse le sue opere su tavola, mentre la sua produzione ad affresco si concentra nei lavori eseguiti per le due basiliche di San Francesco ad Assisi. 

[tratto da Storia dell’Arte, dal Gotico al Barocco; per questo articolo si ringrazia francescomorante.it – immagini dal web]

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Rileggiamo l’opera: Madonna Lochis – sassi d’arte

Giovanni Bellini - Madonna Lochis

Giovanni BelliniMadonna Lochis

olio su tavola, cm 47×34 (1475 c.a) – Bergamo, Accademia Carrara

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Del pittore italiano rinascimentale Giovanni Bellini (Venezia, 1433 – Venezia, 29 novembre 1516), sono conservate un gran numero di Madonne con Bambino, ad indicare quanto fosse elevata la richiesta sul mercato della devozione privata. L’artista, però, non si abbandonò mai ad effettuare ripetizioni di medesimi soggetti, quanto piuttosto preferì in ogni opera – proprio come nel caso della Madonna Lochis – rielaborare in nuova ottica elementi già presenti in opere precedenti.

Maria col Bambino in braccio sono raffigurati in primo piano oltre la consueta balaustra marmorea, dove su un cartellino è appeso il cartiglio con la firma dell’artista: IOANNES BELLINVS. Le loro figure sono salde e monumentali e spiccano, anche da un punto di vista cromatico, sullo sfondo bruno, che imita un drappo steso, dove si vedono ancora le pieghe. Sebbene la scena presenti elementi tradizionali, come il volto di Maria, ispirato forse a una Basilissa bizantina, dolcissimo e al tempo stesso pensoso per la riflessione sulla tragica sorte destinata al figlio, vi sono anche elementi innovativi, come la posa in diagonale del Bambino, che si muove vivacemente, in contrasto con la posizione assiale di Maria. Oltre che un accorgimento compositivo, la scelta riflette anche il contrasto tra la maiestas di Maria e la vitalitas di Gesù. Il dipinto è databile all’inizio della fase matura dell’artista, anche se vi si leggono ancora alcune rigidità derivate dall’influenza, non ancora dissolta, di Andrea Mantegna, come i preziosi riflessi dorati del panneggio che appare solido come una scultura. (da Wikipedia)

Lo sfondo interpretato come una stoffa appena spiegata, si allarga fino ai limiti della tavola, richiamando gli sfondi scuri della ritrattistica contemporanea. Le dimensioni del parapetto, cui è dato un forte rilievo prospettico, vengono ampliate. Il piano serve da base di appoggio e palcoscenico per la posa di Gesù, che vuole forse evocare la sua caduta da adulto, mentre sale al Calvario.In quasi tutte le madonne belliniane, infatti, è presente il richiamo al destino del Salvatore, sottolineato anche dall’aspetto malinconico ed introspettivo della Madonna, che spesso distoglie lo sguardo dal Figlio. L’espressione di quest’ultimo non ha nulla di infantile e rimanda piuttosto all’inellutabilità del suo destino. Alla complessità di significato si accompagna un’esecuzione di grande raffinatezza, che ricorre anche all’antico espediente delle lumeggiature in oro per il manto blu della Vergine. (da: Bellini, i grandi maestri dell’arte, Skira Editore)

Rileggiamo l’opera: Pisanello, San Giorgio e la principessa – sassi di arte

Pisanello (Pisa, ante 1395 – Napoli, 1455 circa), San Giorgio e la principessa, affresco,  1433-1438 circa.

Pisanell- Affresco intero

Antonio di Puccio Pisano, meglio noto come Pisanello (Pisa, ante 1395 – Napoli, 1455 circa), realizzò San Giorgio e la principessa con la tecnica dell’affresco tra il 1433-1438.

Di dimensioni intere pari a cm 223 x 620, l’affresco, che doveva far parte di un ciclo oramai andato perduto, è stato riportato su tela ed ubicato, insieme alla corrispettiva sinopia, nella cappella Giusti della chiesa di Sant’Anastasia, nel centro storico di Verona. Il Pisanello realizzò questa famosa ed importantissima opera sulla parete esterna di un’altra cappella, situata nel transetto destro della stessa chiesa, assegnata alla famiglia Pellegrini e descritta con vera enfasi ne “Le Vite” dal Vasari (1568): “Et per dirlo in una parola non si può senza infinita meraviglia, anzi stupore contemplare questa opera fatta con disegno con grazia, e con giudizio straordinario”.Pisanello - Part. di lucertola e scorie cibo drago

Dunque, l’affresco di San Giorgio e la principessa è la sola opera superstite dell’assai più vasto impianto pittorico decorante la cappella Pellegrini, come si evince dalla dettagliata descrizione vasariana. A complicare le cose, intorno alla fine dell’Ottocento, a causa d’una grande infiltrazione d’acqua piovana, anche il dipinto del Pisanello subì gravi danneggiamenti (soprattutto la zona del drago in agguato), tanto che si decise di staccarlo dalla parete e di trasferirlo su telaio per essere sottoposto a restauro.

Pisanello - Part. di San Giorgio e la principessa

L’opera costituisce una delle espressioni più alte dell’arte di Pisanello e ha come soggetto San Giorgio, mentre, dopo aver riverito la principessa, si appresta a risalire a cavallo per correre a sconfiggere il drago. Il santo appare splendidamente rappresentato nei suoi preziosi abiti cavallereschi, con un piede già nella staffa e la mano sinistra nell’atto di reggersi alla sella prima di spiccare il balzo per salire a cavallo. È da notare come la meticolosa e quasi ossessiva ricerca del particolare contribuisca a conferire alla scena una dimensione irreale e senza tempo. La tetra presenza dei due impiccati sullo sfondo finisce per perdere ogni drammaticità, come se si trattasse di pupazzi anziché uomini (nelle rappresentazioni non solo pittoriche, ma soprattutto nella vita reale di quei tempi, spesso facevano parte del paesaggio figure e visioni macabre lasciate in vista, come monito per la popolazione).

Pisanello - Particolare della nave edegli impiccati

Il fiabesco svettare delle architetture tardo-gotiche che appaiono all’orizzonte, contro un cielo blu intenso, perde qualsiasi intento realistico e si trasforma in un gioco di linee e colori; lo stesso avviene anche con gli animali, la cui meticolosa realizzazione sembra farli emergere da un trattato di zoologia. Nessuno, prima di Puccio Pisano era giunto ad un’analisi del mondo naturale così accurata, come testimonia la sua vastissima produzione grafica. Famosi sono, infatti, i suoi studi-disegno dal vero di personaggi e animali, tra i migliori dell’epoca, superati solo sul finire del XV secolo dall’occhio indagatore di Leonardo da Vinci e successivamente di Albrecht Dürer.

Pisanello - Part. di sinistra col drago e destra con testa

L’elegante profilo del volto della principessa si ricollega con l’attività medaglista che Pisanello svolgeva parallelamente a quella di pittore, derivante da un vivace disegno dal vero realizzato a penna e inchiostro su una traccia preparata a matita; ciò che più colpisce è la fluidità della linea di contorno, che dalla fronte giunge al naso, descrivendo morbide curve che richiamano la lettera “S”. Questa linea non è realistica ma conferisce al profilo un’espressione intensa e pensosa di serenità, mentre la complicata acconciatura, che sembra ispirarsi alla moda delle ricche dame del tempo, al contempo si trasforma in un irreale turbante con funzione decorativa.

Pisanello - Part. dei personaggi

È in questo continuo contraddittorio rapporto, tra osservazione minuziosa degli elementi singoli e fiabesca irrealtà delle visioni d’insieme, che si concretizza l’arte di Pisanello.

[Giorgio Chiantini – fonti varie]

Pisanello - Part. di cavallo e cavaliere

Stabat Mater

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Tiziano Vecellio, Mater Dolorosa (1550-1555), Museo del Prado, Madrid

Stabat Mater è una sequenza liturgica in onore della Madonna, trasmessa in molte redazioni e presto accolta in vari messali (dalla metà del 14° sec.), fino a essere inserita nel Messale romano da Benedetto XIII (1727). Quasi certamente ne è autore Iacopone da Todi. Composta da due coppie di ottonari rimati, ciascuna delle quali seguita da un senario sdrucciolo, può essere rappresentata anche sotto forma di azione scenica. Fra le realizzazioni polifoniche o concertanti del testo si ricordano quelle di J. Desprez, G. Pierluigi da Palestrina, O. di Lasso, E.R. Astorga, A. Vivaldi, A. e D. Scarlatti, G.B. Pergolesi, L. Boccherini, F.J. Haydn, F. Schubert, G. Rossini, G. Verdi, A. Dvorak, K. Szymanowski, F. Poulenc, K. Penderecki. [Enciclopedia Treccani]

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Warsztat Krakowski, Pietà di Tubadzin (1450), Museo Nazionale di Varsavia

Stabat Mater (dal latino per Stava la madre) è una preghiera – più precisamente una sequenza – cattolica del XIII secolo quasi certamente attribuita a Jacopone da Todi. La prima parte, che inizia con le parole Stabat Mater dolorosa (“La Madre addolorata stava”) è una meditazione sulle sofferenze di Maria, madre di Gesù, durante la crocifissione e la Passione di Cristo. La seconda parte della preghiera, che inizia con le parole Eia, mater, fons amóris (“Oh, Madre, fonte d’amore”) è, invece, una invocazione in cui l’orante chiede a Maria di renderlo partecipe del dolore provato da Maria stessa e dal Cristo.

È recitata in maniera facoltativa durante la messa dell’addolorata (15 settembre) e le sue parti formano gli inni latini della stessa festa. Prima della Riforma liturgica era utilizzata nell’ufficio del venerdì della settimana di passione (Madonna dei sette dolori – venerdì precedente la Domenica delle Palme). Ma popolarissima era soprattutto perché accompagnava il rito della Via Crucis e la processione del Venerdì santo. Un canto amatissimo dai fedeli, non meno che da intere generazioni di musicisti colti. (dal web)

(c) Dulwich Picture Gallery; Supplied by The Public Catalogue Foundation
Guido Reni, Mater dolorosa, XVII sec., Dulwich Picture Gallery, Londum pendébat Fílius.iuxta crucem lacrimósa,

Pietro Lorenzetti, Entrata di Cristo in Gerusalemme – sassi d’arte

L’ingresso a Gerusalemme di Gesù è un evento descritto dai vangeli. In occasione della sua ultima pasqua Gesù si recò nella città santa di Gerusalemme dove fu accolto, come Messia, dalla folla festante, che lo acclamò gridando Osanna! Benedetto colui che viene nel nome del Signore, agitando rami d’ulivo e di palma. L’evento è ricordato dalla tradizione cristiana nella “Domenica delle Palme” in apertura della Settimana Santa, in cui si ripercorrono le tappe della passione di Gesù.

L’Entrata di Cristo in Gerusalemme è un affresco di Pietro Lorenzetti, facente parte delle Storie della Passione di Cristo, collocato nel transetto sinistro della basilica inferiore di San Francesco ad Assisi. Il ciclo è databile al 1310-1319 circa; questa è la prima scena del ciclo e si trova sulla volta a botte. L’artista la rappresentò partendo da un’iconografia tradizionale – Cristo che avanza da sinistra verso destra seguito dagli Apostoli, con la gente di Gerusalemme che gli si fa incontro uscendo dalla città sul lato opposto – rinnovandola con alcune invenzioni di grande effetto.

I due gruppi di figure si incastrano lungo i bordi del dipinto, generando un angolo ottuso molto divaricato, che ha il vertice nella figura di Cristo, posto in primo piano vicino allo spettatore. Gesù incede sull’asinello vestito con un sontuoso mantello blu bordato d’oro e avanza benedicendo la folla, la quale al suo passaggio lancia rami di ulivo (come i due fanciulli sulla terrazza rocciosa a sinistra, uno dei quali si sta arrampicando su un albero) e stende drappi sulla via. In questo angolo colmo di figure umane, se ne incunea un secondo, dai lati paralleli, formato dalle mura di Gerusalemme, dalla porta urbica e dagli edifici monumentali, che sporgono con scorci arditi, prospetticamente validi, ma non raccordati a un unico punto di fuga. L’effetto compositivo è quello di una tridimensionalità spaziale estremamente dilatata.

Tutta la scena è ricca di dettagli minuti e preziosi. Ad esempio, le forme e le decorazioni degli edifici (la rotonda con archetti rampanti, il palazzo con i medaglioni, i portafiaccole, gli scudi araldici appesi, il balcone con la pertica su cui è steso un asciugamano, la scaletta lignea interna, la porta cittadina con intarsi cosmateschi, la volta stellata a crociera e un finto mosaico con due figure a monocromo su fondo oro), dove spesso i trafori mostrano sottili stralci di cielo, oppure le pose sinuose e le vesti eleganti del gruppo di cittadini a destra, che in alcuni dettagli anticipano i lavori di Ambrogio Lorenzetti, che da qui trasse ispirazione, come negli Effetti del Buon Governo. Se questa metà è sostanzialmente gotica, nel fluire delle linee, nella metà sinistra le linee sono più sobrie e le figure degli apostoli sono modellate attraverso i volumi dei panneggi, finemente chiaroscurati in tonalità più intense ed evidente è la derivazione dal modello di Giotto. Gli apostoli sono colti ciascuno nella propria individualità: in primo piano si riconosce Giuda Iscariota, già senza aureola, vicino a san Pietro col quale scambia uno sguardo; dietro di loro un altro, forse Giacomo il maggiore, distratto dai bambini che lanciano rametti di ulivo, ruota vistosamente la testa. Un altro particolare realistico e affettuoso è quello del bambino rosso-vestito che, dall’altro lato, fa capolino tra due ragazzi con vesti azzurre, affacciandosi da una sorta di sipario, come dipingerà poi Ambrogio Lorenzetti il figlio del calzolaio, sempre nel Buon Governo.

Splendida, in tutta la scena, è la ricchezza cromatica, mai scontata, intonata su colori tenui e su una gamma di bruni che, con il cielo azzurro realizzato in blu oltremarino, fanno particolarmente risaltare i dettagli in oro, testimonianza della sontuosità raggiunta dalla decorazione della basilica in quel periodo.

Tratto ed adattato da Wikipedia – Bibliografia: Chiara Frugoni, Pietro e Ambrogio Lorenzetti, in Dal Gotico al Rinascimento, Scala, Firenze 2003.

La Domenica delle Palme

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Nel calendario liturgico cattolico la Domenica delle palme è celebrata la domenica precedente quella di Pasqua e con essa ha inizio la settimana santa. Nella forma ordinaria del rito romano essa è detta anche domenica De Passione Domini (della passione del Signore) ed è una festività osservata non solo dai cattolici, ma anche dagli ortodossi e dai protestanti (ovvero le religioni che riconoscono Cristo).

In questo giorno la Chiesa ricorda il trionfale ingresso di Gesù in Gerusalemme in sella ad un asino, osannato dalla folla che lo salutava agitando rami di palma. La folla, radunatasi a voce per l’arrivo di Gesù, stese a terra i mantelli, mentre altri tagliavano rami dagli alberi intorno e, agitandoli festosamente, gli rendevano onore.

In ricordo di questo, la liturgia della Domenica delle palme, si svolge iniziando da un luogo al di fuori della chiesa, dove si radunano i fedeli e il sacerdote benedice i rami di ulivo o di palma portati dai fedeli stessi; quindi si procede in processione fino all’interno della chiesa, continuando la celebrazione della messa con la lettura della Passione di Gesù. Il racconto della Passione viene letto da tre persone che rivestono la parte di Cristo (letta dal sacerdote), dello storico e del popolo.

In questa Domenica il sacerdote, a differenza delle altre di quaresima (in cui veste di colore viola, che indica penitenza, richiamo alla conversione e alla stessa penitenza e che si usa in Avvento e in Quaresima, ma anche durante la celebrazione delle Messe dei defunti) indossa paramenti di colore rosso (colore che indica il sacrificio sulla croce di Gesù e la divinità dello Spirito Santo, ma anche il sangue sparso dai Santi Martiri; si usa la Domenica delle Palme, appunto, il Venerdì Santo, a Pentecoste, nelle feste degli Apostoli e dei Martiri e per la Messa della Cresima).

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nell’immagine: Giotto, Scene dalla vita di Cristo, Entrata in Gerusalemme, affresco databile 1303-1305, Cappella degli Scrovegni, Padova: da sinistra Gesù avanza a cavallo di un asino verso le porte di Gerusalemme, seguito dagli Apostoli e facendosi incontro a una folla incuriosita: chi si prostra, chi accorre a vedere, chi è sorpreso, ecc. Sebbene la stesura denoti un’autografia non piena dell’episodio, la scena spicca come una delle più vivacemente naturali del ciclo, con una serie di episodi interni tratti dalla vita quotidiana, come quello dell’uomo che si copre la testa col mantello (un’azione goffa o un simbolo di chi non vuole accettare l’arrivo del Salvatore?) oppure i due fanciulli che salgono sugli alberi per staccare i rami d’ulivo da gettare al Salvatore e per vedere meglio, dettaglio derivato dalla tradizione bizantina, ma qui più realistico che mai. [fonti varie]

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Rileggiamo l’opera: Apparizione – sassi d’arte

Apparizione Chagall

Marc Chagall, Apparizione (1917-1918)

collezione privata, in deposito presso il Museo di Stato russo, San Pietroburgo

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Opera poco nota di Marc Chagall, Apparizione è stata realizzata agli inizi del Novecento ed attrae per la scelta minima di colori rispetto alla tavolozza di questo artista e per la sistemazione sulla tela degli elementi rappresentati, racchiusi in un quadrato suddiviso in elementi triangolari convergenti in un ipotetico centro, che esula dal riferimento classico di convergenza prospettica.

Chagall condivide l’idea della trasformazione dell’immagine in testo così come è stato per la generazione prebellica, che storicamente si distingueva dal simbolismo “fin de siècle”: l’immagine dipinta, si sostiene, è interamente frutto d’invenzione e non discende in alcun modo dall’imitazione del mondo reale, così come era stato per i Simbolisti. In altre parole, l’immagine è “idea” e non “impressione”: le diverse parti del quadro si possono rimandare a questa o quella forma sensibile – fiori, corpi, montagne, frutta, case, volti, ecc. – ma acquistano senso definito e specifico esclusivamente nel contesto della composizione, quasi fossero nominate per la prima volta o disegnate ex novo.

Ed è proprio l’attesa l’esperienza artistica al centro della composizione: l’artista siede al cavalletto e si chiede cosa dipingere o raccontare e l’invenzione del tema è il suo primo problema. L’ispirazione è intermittente e a volte manca del tutto. Che fare? Un angelo annunziante si incarica di rispondere all’angosciosa domanda: entra in scena dall’angolo in alto a destra della composizione e apostrofa l’artista quasi a intimargli di non rinunciare, mentre nubi ultraterrene sorreggono il messaggero e si estendono all’intero atelier, rimandando a dimensioni di sogno a occhi aperti, di rapimento. Il tutto accade, perché agli occhi di Chagall l’artista è comunque un eletto, come un profeta o un santo, e l’angelo si rivolge a lui direttamente, poiché lo ha scelto, ha scelto il predestinato della pittura. Accompagnati da frammenti superstiti di iconografie tradizionali, questo processo creativo è descritto come un’Annunciazione e si distingue da altre opere dell’artista, per l’elegante riduzione della tavolozza ricorrendo esclusivamente a grigi e azzurri.

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El Greco, Annunciazione, conservata a Budapest (1595-1600 circa)

Tale riduzione è strettamente legata all’immagine considerata modello di Apparizione, ossia l’Annunciazione di El Greco, conservata a Budapest (1595-1600 circa): Chagall assimila il complesso gioco di grigi e azzurri che caratterizza il dipinto di El Greco e conferisce al proprio artista la posa di Maria. Riproduce infine fedelmente la figura dell’angelo nel gesto, il profilo, la collocazione compresi ali e panneggi, che esibiscono la citazione del modello manierista dell’artista ispiratore e c’è un solo dettaglio che Chagall non riprende della figura angelica dell’Annunciazione di Budapest: il volto dell’angelo. Di quest’ultimo elemento se ne può individuare facilmente la fonte in un’altra opera di El Greco, la Trinità del Prado (1577-1579) i cui l’angelo il cui profilo Chagall cita (rovesciato) occupa il primo piano a sinistra e sorregge la figura esamine del Cristo.

[a cura di Giorgio Chiantini & Angela Greco, liberamente tratto da “Chagall”, Dossier Art n.313 (settembre 2014), commentato da Michele Dantin, Giunti editore.]

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Rileggiamo l’opera: Evoluzione – sassi d’arte

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Piet Mondrian, Evoluzione (1910 – 1911)

Tra il 1910 e il 1911 il pittore olandese Piet Mondrian (Pieter Cornelis Mondriaan Jr. 1872-1944) dipinse il trittico “Evoluzione” legato a stilemi simbolisti; dal 1908 (e fino al 1911, quando si trasferirà a Parigi) ebbe residenza a Domburg, assieme a Jan Toorop, e proprio l’incontro con l’artista e la lettura di testi teosofici lo convinceranno che è illuminato da Dio e intimamente unito a questi.

In questo dipinto, che rappresenta l’adesione di Mondrian alla dottrina mistico-filosofica della teosofia, è rappresentato il processo di evoluzione spirituale necessario all’uomo per accedere a quella “vera comprensione” teorizzato dalla teosofia stessa. La dottrina proclamata dalla Società teosofica fondata nel 1875 a New York affermava l’origine unica di tutte le religioni, l’eguaglianza di tutti gli uomini, la possibilità di arrivare alla conoscenza della verità, riservata a pochi adepti, non con la sola ragione ma per mezzo di rivelazioni, di esperienze mistiche e di un determinato modo di vivere, fu fortemente influenzata da elementi di derivazione indiana.

piet mondrian evoluzioneNel dipinto “Evoluzione” si possono rintracciare i rapporti di Mondrian con l’intero complesso delle dottrine teosofiche, secondo cui il mondo è concepito come un tutto unitario, retto da leggi e principi matematici in cui i poli opposti – principio maschile e femminile, oppure spirito e materia – tendono alla ricomposizione e all’armonia cosmica. 

Il trittico “Evoluzione” va letto partendo dalla figura di sinistra, per poi passare a quella di destra e, infine, a quella centrale; la stessa forma del trittico, diffusa nell’area simbolista, potrebbe essere stata suggerita da un passo del testo “Iside svelata” (1877) di Helena Blavatskij (fondatrice della teosofia), in cui si parla di tre spiriti che vivono nell’uomo: lo spirito terrestre, lo spirito delle stelle e lo spirito divino. piet mondrian evoluzione - Copia (2)Simbolici sono i passaggi di colore della figura della donna (dal verde al blu, il colore spirituale) in cui si attua la fusione di elemento maschile (spirituale) e femminile (materiale), cui allude Mondrian nei “Taccuini”. Simbolico è anche il passaggio dai due fiori posti ai lati del volto, alle figure geometriche ed anche dal colore rosso (corrispondente, per Steiner – filosofo, pedagogista, esoterista, artista e riformista sociale austriaco – all’amore divino, ma ancora espresso secondo una concezione terrena) al giallo e al bianco, quindi alla massima luminosità, espressione del divino.

piet mondrian evoluzione - CopiaLa donna a sinistra nel trittico, fiancheggiata da due amarillis rossi – simbolo di sensualità – è l’incarnazione dello spirito terrestre; ha il volto indietro e gli occhi chiusi, perché lo spirito terrestre da solo non permette la comprensione del mondo. A destra, è posta la donna con le stelle a sei punte (il doppio triangolo, simbolo della teosofia, emblema della perfezione), che rappresenta lo spirito stellare, il quale possiede un grado più alto di comprensione rispetto allo spirito terrestre; infine, al centro, la figura circondata dalla luce bianca, rappresenta lo spirito divino dagli occhi aperti e dalla maggiore intensità luminosa, che indicano la conquistata visione di una verità superiore. Quest’ultimo elemento, la figura centrale a occhi aperti di “Evoluzione”, è stato messo in rapporto con la concezione di Steiner secondo cui la visione spirituale avverrebbe in condizione di piena coscienza e non in stato di trance o di ipnosi. (by AnGre – fonti varie e immagini dal web)

Rileggiamo l’opera: Da dove veniamo? Cosa siamo? Dove andiamo? – sassi d’arte

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Paul Gauguin, Da dove veniamo? Cosa siamo? Dove andiamo?

(1897 – 1898) olio su tela, cm 139 x 374 – Boston, Boston Museum of Art

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Testamento artistico e spirituale dell’artista, la tela è una sintesi dei temi della sua pittura e della sua visione del mondo. Prima di affrontare il dipinto vero e proprio, esegue vari disegni. Lavora quindi giorno e notte, febbrilmente per oltre un mese e a luglio spedisce il quadro a Parigi. Il dipinto impressiona i critici per le soluzioni stilistiche e il profondo simbolismo.

L’opera può essere interpretata come una metafora della vita, dall’infanzia alla vecchiaia, ma anche una meditazione sul suo senso, un confronto tra la natura e la ragione, rappresentata dalle due donne in atteggiamento pensoso. Le figure sono disposte nel paesaggio con un andamento che ricorda i fregi antichi e i grandi cicli di affreschi dei palazzi rinascimentali. Gauguin le riprende da dipinti precedenti, ma conferisce loro un significato differente. La presenza dell’idolo blu e degli animali è stata variamente interpretata, in particolare “lo strano uccello bianco con una lucertola tra le zampe, che sta a significare la vanità tra le parole”.

Benché egli tenda a precisare che “è buttata giù di getto, in punta di pennello”, la tela compendia di fatto una serie di elementi già trattati separatamente in diversi dipinti, che vengono così a costituire altrettanti abbozzi di un’unica creazione protrattasi per parecchi anni e infine concretizzata in questa complessa e  imponente composizione. [Elena Ragusa]

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Paul Gauguin - Autoritratto con cappello (1893-1894)
Paul Gauguin – Autoritratto con cappello (1893-1894)

tratto dal saggio “Il primitivo moderno” di Vittorio Sgarbi: “Gauguin ha cercato nell’arte non solo una ragione estetica, ma anche una ragione esistenziale. Partito a fianco degli impressionisti, Gauguin al culmine della maturità, decide di rifugiarsi o di ritrovarsi in una zona lontana dal mondo “evoluto”, a Tahiti, interrompendo i rapporti con la propria civiltà. Nessuno prima di lui aveva cercato nella vita quotidiana, non più soltanto nell’arte, l'”evasione” con una scelta tanto radicale nelle sue conseguenze pratiche.

E’ l’esito estremo di una visione romantica nel rapporto tra arte e società che interpreta la prima come coscienza necessariamente critica, eversiva dalla seconda. Con Gauguin l’artista diventa perfetto intellettuale, libero pensatore, profeta di un mondo migliore nel nome dello spirito e del bello. Ma Gauguin non è stato un iniziatore solo in questo senso, essendo le sue scelte di vita profondamente legate a quelle estetiche. Per primo intuisce che le ricerche di Van Gogh, di Cézanne e di tutti gli artisti più avanzati sono tanto progredite in quanto vanno verso una riduzione della forma alla sua essenza espressiva, il cosiddetto “primitivo”.

[…] Ricominciare vuol dire allora tornare alle origini della civiltà, quando mito, simbolo e filosofia si concretizzavano nei significati dell’opera artistica e Gauguin è stato il primo, come ha scritto René Huyghe, “a prendere coscienza della necessità di una rottura, perché potesse nascere un mondo moderno; il primo a sfuggire alla tradizione latina, disseccata, ossificata, moribonda, per ritrovare tra leggende barbare, le divinità primitive, l’impeto originario. Mentre l’arte occidentale aveva come proprio perno il noto, egli vi ha sostiutito l’ignoto…ha intuito le terre sommerse dell’anima, le loro intatte potenze in cui la civiltà decrepita e raffinata potrebbe ritemprarsi” (da Gauguin, I grandi maestri dell’arte – Skira)

Rileggiamo l’opera: Pinakes di Locri Epizefiri – sassi d’arte

a sinistra, pinax in terracotta, Locri V sec. a.C., Demetra e Ade in trono; a destra, Hermes e Aphrodite – Reggio Calabria,Museo Archeologico Nazionale

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I Pinakes, al singolare Pinax (in greco Πίνακες), sono dei quadretti votivi in terracotta, legno dipinto, marmo o bronzo tipici dell’antica Grecia. In Magna Grecia furono prodotti tra il 490 e il 450 a.C. principalmente nelle poleis di Rhegion e Locri Epizefirii ed è presso il Museo Archeologico Nazionale di Reggio Calabria che si trova oggi la vastissima collezione di questi reperti, rinvenuti sui luoghi del centro coloniale magno-greco di Locri Epizefirii.

I pinakes sono i più caratteristici ex-voto rinvenuti a Locri e costituiscono un complesso unico nel mondo greco per quantità, varietà e qualità e la gran quantità di pezzi ritrovata ha permesso di individuare più di 170 scene. Si tratta di tavolette in terracotta realizzate in serie grazie all’uso di matrici e arricchite di una vivace policromia, le quali recano scene a bassorilievo connesse al mito di Persefone e ai rituali del culto tributato alla dea nel santuario della Mannella. Donati alla dea dalle fanciulle di Locri in procinto di sposarsi, con l’intento di ingraziarsi la protezione divina in questo momento di transizione e di assicurarsi un’unione feconda, venivano probabilmente appesi, grazie ai fori di sospensione, alle pareti dei piccoli edifici di culto e forse anche agli alberi del recinto sacro. Quando il santuario subì una ristrutturazione, furono spezzati ritualmente, in modo da evitarne un sacrilego reimpiego, e scaricati in una stipe votiva.

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pinax: rapimento di Persefone

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Nei pinakes è innanzitutto rievocata la vicenda di Kore-Persefone, dal rapimento da parte di Hades al matrimonio con costui. Un nucleo consistente di scene ha come oggetto momenti del culto, in particolar modo l’atto rituale consistente nell’offerta: di animali, di fiori e di frutta, di un abito (il cosiddetto “peplo nuziale”) portato in processione, dei giochi infantili. Altre scene alludono ai preparativi delle nozze, come l’acconciatura e la vestizione della sposa, nonché la preparazione del letto nuziale. Un gruppo di pinakes, che prevede la riproduzione di un bambino entro una cesta, allude alla maternità, fine primario del matrimonio, mentre alla sfera della sessualità necessaria a tale scopo rimanda quel gruppo di scene che vede protagonista Afrodite.

Le raffigurazioni dei pinakes tuttavia non sono univoche, in quanto prevedono la comprsenza di tre livelli di lettura difficilmente distinguibili tra loro: si richiamano, infatti, le nozze sacre di Persefone e Hades; si allude alle cerimonie con cui nel santuario della Mannella queste erano rievocate; si fa riferimento ai complessi riti di iniziazione che accompagnavano le nozze dei locresi, vissute non come un fatto privato, ma come un momento fondamentale per l’intera comunità.

[testo tratto e adattato da R.Schenal Pileggi, I pinakes di Locri Epizefiri – Laruffa Editore]

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uno dei pinakes di Locri-Epizefiri

Rileggiamo l’opera: l’albero della vita – sassi d’arte

L’albero della vita, mosaico, 1118 c.a 

Roma, San Clemente, abside della basilica superiore

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A Roma, nei pressi del Colosseo, lungo la strada che sale gradualmente verso San Giovanni in Laterano, si trova una basilica intitolata a San Clemente I Papa, terzo successore di Pietro al soglio pontificio. L’opera architettonica risalente al IV secolo fu ampiamente devastata dai Normanni nel 1084; nel 1110, durante una fase particolarmente acuta della lotta alle investiture, allorché le nomine vennero nuovamente proibite, Papa Pasquale II ordinò che la chiesa fosse ricostruita sulle rovine della chiesa interrate della basilica precedente. Come se si trattasse di esorcizzare l’antico potere della Chiesa contro l’Impero, per la ricca decorazione interna della basilica ci si orientò verso reperti formali tratti dalle chiese paleocristiane; anzi, nel nuovo impianto furono integrati programmaticamente parecchi arredi della costruzione più antica (soprattutto suppellettili che vi erano state aggiunte nel V e nel VI secolo).

Anche un’opera nuova, che oggi eclissa tutto il resto, evoca sotto un certo aspetto l’arte paleocristiana. Parliamo del mosaico dell’abside, la cui composizione è dominata dalla croce. Il suo carattere fenomenico, che si manifesta mediante un meraviglioso tono di azzurro, richiama alla mente l’arte dello smalto. Maria e San Giovanni stanno ai lati della croce, ai cui piedi sgorgano i quattro fiumi del paradiso, ai quali si abbeverano i cervi. Scorgiamo, poi, la fenice, l’uccello fantastico che simboleggia l’immortalità. Dodici colombe bianche, che incarnano gli apostoli, occupano le assi verticale e trasversale della croce. In una nicchia ricavata dietro l’emblema della passione, è inserito un vero frammento della croce insieme ad altre reliquie (il mosaico assume perciò la funzione di stauroteca, reliquiario destinato ai frammenti della croce di Cristo). Sopra la croce si apre la volta celeste stellata, da cui scende la mano benedicente di Dio.

La decorazione vegetale fatta di incantevoli tralci di acanto ritorti, che riempie il catino absidale, rimanda al paradiso e identifica la croce come “l’albero della vita”; al contempo, l’intreccio dei tralci intorno al legno della croce regala vita e nutrimento a uomini e donne di ogni professione, anzi a ogni creatura. Tra le figure spiccano quattro personaggi vestiti semplicemente di bianco e nero, che rappresentano i padri della Chiesa latina, i santi Agostino, Gerolamo, Gregorio e Ambrogio. Il fregio sottostante, con l’Agnello dell’Apocalisse, ricorda nuovamente la Gerusalemme celeste e, poiché sopra l’arco di trionfo sono raffigurati i santi Pietro, Clemente, Paolo e Lorenzo e i profeti Geremia e Isaia, la resa visiva della redenzione include in sé anche la storia della Chiesa. In sintesi, il programma iconografico esaltava idealmente il Papa (sostenendo le pretese universalistiche della chiesa cattolica), il quale, in carne e ossa, sedeva in trono giù nell’abside.

Non a caso un simile messaggio era espresso a livello stilistico mediante il richiamo a modelli antichi. Gli artefici dell’opera ricordavano bene l'”impressionismo” che caratterizzava i mosaici romani del V secolo, quelli in Santa Pudenziana o in Santa Maria Maggiore e, come allora, accentuarono l’incarnato o il panneggio con strisce di tessere da mosaico di marmo bianco, circondate da frammenti di vetro neri e grigi (secondo l’antica tecnica romana).

Nei mosaici dei luoghi antichi paleocristiani comparivano anche scene di genere; le ritroviamo in San Clemente, arricchite con uccelli acquatici come quelli raffigurati un tempo lungo il bordo della cupola di Santa Costanza, con foglie di vite e grappoli d’uva disseminati qua e là e putti sgambettanti.

(tratto e adattato dal volume Romanico, Taschen Ed. – immagini dal web)

 

6 gennaio, Adorazione dei Magi – sassi d’arte

Leonardo da Vinci, Adorazione dei Magi, realizzato tra il 1481 e il 1482;

olio su tavola e tempera grassa, cm 246×243; Galleria degli Uffizi, Firenze.

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Il tema dell’Adorazione dei Magi fu uno dei più frequenti nell’arte fiorentina del XV secolo, poiché permetteva di inserire episodi marginali e personaggi che celebravano il fasto dei committenti; inoltre ogni anno, per l’Epifania, si svolgeva un corteo che rievocava la Cavalcata evangelica nelle strade cittadine. Leonardo riuscì a rivoluzionare il tema tradizionale sia nell’iconografia che nell’impostazione compositiva. Innanzitutto, come in altre sue famose opere, decise di centrare l’episodio in un momento ben preciso, ricercandone il più profondo senso religioso, cioè nel momento in cui il Bambino, facendo un gesto di benedizione, rivela la sua natura divina agli astanti quale portatore di Salvezza, secondo il significato originario del termine “epifania” (“manifestazione”). Ciò è chiaro nella reazione degli astanti, presi in un vorticoso rutilare di gesti, attitudini ed espressioni di sorpresa e turbamento, al posto della tradizionale compostezza del corteo dove i pittori erano soliti sfoggiare dettagli ricchi ed esotici. L’effetto è quello di uno sconvolgimento interiore di fronte al manifestarsi della divinità.

Nel 1481 i monaci di San Donato a Scopeto commissionarono a Leonardo un’Adorazione dei Magi da completare nel giro di due anni. Leonardo studiò approfonditamente la composizione, lasciando vari disegni preparatori; il pittore, però, nell’estate del 1482, partiva per Milano, lasciando l’opera incompiuta. Quindici anni dopo, certi ormai dell’inadempienza di Leonardo, i religiosi si rivolsero a Filippino Lippi per ottenere una pala di analogo soggetto, pure agli Uffizi. L’Adorazione di Leonardo, nel frattempo, era rimasta allo stato di abbozzo in casa Amerigo de’ Benci, dove la vide Vasari. Nel 1601 sfigurava nelle raccolte di don Antonio de’ Medici e, dopo la morte di suo figlio Giulio, nel 1670 approdò alle Gallerie fiorentine. Nel 1681 andò perduta la cornice cinquecentesca con dorature, probabilmente in occasione dello spostamento della tavola alla villa di Castello e nel 1794 tornò definitivamente al museo.

L’opera incompiuta si presenta oggi come un grandioso abbozzo a monocromo, che permette di conoscere approfonditamente la tecnica usata da Leonardo nella realizzazione delle opere. Secondo la tradizione fiorentina, il maestro preparava innanzitutto un disegno accurato, usando però il meno possibile linee nette per i contorni. Questo contrastava con la posizione allora dominante a Firenze del predominio della linea di contorno, come confine preciso dell’oggetto rappresentato: come si sa, infatti, Leonardo preferiva usare contorni sfumati, suggerendo una certa continuità tra gli oggetti e lo spazio che li circonda, attraverso la circolazione dell’aria che nella realtà impedisce una visione nitida delle cose.

A partire dal disegno, Leonardo procedeva poi “rinforzando gli scuri”, stendendo una base scura, dove necessario, a base di bistro, di tinta marrone rossastra e di nero, lasciando invece visibile la preparazione chiara di fondo sui soggetti più illuminati. Una serie di velature e vernici, oggi molto ossidate, imprimevano la situazione luminosa e servivano ad amalgamare tutta la composizione. Su questa preparazione il pittore avrebbe poi steso i colori. Tra le figure più avanzate spiccano quelle di destra, alle quali manca solo il colore.

Del dipinto esistono alcune radiografie realizzate da A. Vermehren, pubblicate nel 1954 da P. Sampaolesi e oggi appartenenti agli eredi Vermehren; la Pala è stata restaurata tra il 2011 e la fine di marzo 2017, quando è tornata nuovamente visibile. Il restauro è avvenuto a cura dell’Opificio delle pietre dure di Firenze, che ha anche ripristinato le parti danneggiate. L’Adorazione è stata sottoposta a un’articolata serie di indagini diagnostiche non invasive, per capire a fondo lo stato di conservazione del supporto ligneo (le cui dimensioni sono stato modificate nel tempo) e della superficie pittorica preliminare che Leonardo aveva iniziato a comporre; i risultati di queste indagini hanno consentito di avere una più chiara ed approfondita visione sia della tecnica artistica, sia dei problemi conservativi dell’opera.

Al di sopra dei primi strati disegnativi e pittorici, si sono nel tempo sovrapposte molte stesure non originali di vernice, vernice pigmentata, colla, patinature, ed anche qualche limitato ritocco. Il ritiro di questi materiali stava provocando una trazione della superficie, con il rischio di piccoli strappi di materia pittorica. La completezza del disegno sotto giacente è stato acquisito con tecnologia infrarosso di ultima generazione. Altra problematica è stata la conservazione del supporto, costituito da dieci assi di pioppo non eccelso. Nel tempo, tale supporto ha teso ad incurvarsi, ma, incontrando il contrasto rigido della traversa centrale, si è aperto con una serie di pericolose fenditure, che arrivano subito al di sotto degli strati pittorici e che, in alcune zone, hanno già prodotto rotture sulla superficie. Tale fenomeno è ancora in atto e la pittura sui due lati di ogni fenditura, sottoposta a un processo di compressione, a lungo andare potrebbe causare delle cadute di colore.

L’intervento di pulitura ha riguardato l’eliminazione dei vari materiali sovrapposti nei secoli, tramite un leggero, graduale e differenziato assottigliamento. La superficie pittorica risulta libera dal pericoloso effetto di strappo dei materiali accumulatisi sopra, mentre le parti disegnate e ombreggiate da Leonardo emergono finalmente leggibili in maniera chiara. È soprattutto nella parte alta che la nuova lettura dell’opera si afferma prepotente, rivelando un accenno sottilissimo del colore del cielo e rendendo percepibili a occhio nudo (anziché solo in infrarosso) le figure dei lavoratori intenti alla ricostruzione del Tempio, elemento iconologico di grande importanza, così come la zuffa di cavalli e figure umane sulla destra.

La presenza di queste tracce di velatura di colore locale, già evidenziata dalle prime indagini diagnostiche, è forse all’origine della patinatura con la quale, nei secoli passati, le si erano volute occultare, forse per conferire all’insieme l’effetto non di un non finito, ma di un voluto monocromo. Questa delicata pulitura ha consentito anche di penetrare sempre più nel modo di lavorare di Leonardo, confermando l’interpretazione iniziale circa le differenti fasi e materiali, arricchendola di nuovi elementi, esempi ed anche di interessanti problemi interpretativi. Come si rileva ovunque, molta materia aggiunta è stata ancora lasciata, in base alla impostazione teorica e tecnica della pulitura propria dell’Opificio delle pietre dure di Firenze, sia come livello di sicurezza, sia come “patina” della storia trascorsa.

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Da un punto di vista compositivo Leonardo fece sue le innovazioni impostate da Sandro Botticelli nell’Adorazione dei Magi di Santa Maria Novella (1475 circa), ponendo la Sacra Famiglia al centro e i Magi alla base di un’ideale piramide, che ha come vertice la figura di Maria. La forma pressoché quadrata della tavola gli permise, infatti, di organizzare la composizione lungo le direttrici diagonali, con il centro nel punto di incontro, dov’è la testa della Vergine. La figura di Maria, collocata in posizione leggermente arretrata, accenna un movimento rotatorio, con le gambe orientate a sinistra e il busto, nonché il volto, verso il Bambino, a destra. Il corteo, inoltre, fu disposto a semicerchio dietro alla Vergine, lasciando uno spazio vuoto, di forma più o meno circolare, nell’ideale centro dello spazio, dove si trova una roccia con un albero. Il leggero moto della Vergine sembra così propagarsi per cerchi concentrici, come un’onda generata dalla rivelazione divina. Il risultato è una scena estremamente moderna e dinamica, dove solo le figure in primo piano sono relativamente statiche, con uno studio intenso dei moti dell’animo e delle manifestazioni “corporee”.

Lo sfondo è diviso in due parti dai due alberi: il primo, un alloro simbolo di trionfo sulla morte (resurrezione) e il secondo, una palma, simbolo della passione di Cristo; alberi, che dirigono lo sguardo dello spettatore in profondità, dove si trovano alcune architetture in rovina (il Tempio di Gerusalemme), rimando tradizionale al declino dell’Ebraismo e del Paganesimo (quest’ultimo, che non ha ancora ricevuto la lieta Novella, è sottolineato pure dalla lotta convulsa dei cavalli in secondo piano), da cui si originò la religione cristiana. A destra si trova una zuffa di soggetti armati, uomini disarcionati e cavalli che s’impennano – simbolo della follia degli uomini, che non hanno ancora ricevuto il messaggio cristiano – e un abbozzo di rocce svettanti tipiche del paesaggio leonardesco. Secondo alcuni esperti inoltre, il fanciullo all’estrema destra del quadro, che guarda verso l’esterno, potrebbe essere un autoritratto giovanile di Leonardo; più probabilmente è da mettere in relazione con l’uomo che medita sul lato opposto, come invito a riflettere sul mistero dell’Incarnazione.

Nel complesso, la composizione ricchissima ma unitaria e grandiosa, la varietà delle interazioni tra le figure, la complessità luminosa, l’intensità delle espressioni e dei moti dell’animo, fanno del dipinto di Leonardo un caposaldo artistico, in anticipo di due decenni rispetto alla cultura figurativa vigente, modello per numerosi maestri, come ancora il Raffaello della Trasfigurazione (1518-1520).

(tratto e adattato da Wikipedia)

Rileggiamo l’opera: la Madonna del solletico

Masaccio,_Madonna-del-Solletico

Masaccio, Madonna col bambino (Madonna Casini, Madonna del solletico)

1426 – 1427, tempera su tavola, cm 24,5 x 18,2 – Galleria degli Uffizi, Firenze

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Questa delicata e preziosa Madonna, che Roberto Longhi nel 1950 attribuisce a Masaccio e definisce poeticamente “del solletico”, era stata chiusa per secoli in collezioni private. Saccheggiata dai nazisti, recuperata nel 1947 da Rodolfo Siviero, rubata nel 1971 e ritrovata nel1973, fu assegnata nel 1988 dallo Stato a Firenze. Ordinata dal cardinale di origine senese Antonio Casini (1380 circa-1439), il cui stemma (uno scudo con sei stelle rosse in campo giallo), sormontato dal cappello cardinalizio, compare sul verso della tavola, è databile nel 1426-1427, dopo la nomina di Casini a cardinale il 24 maggio 1426. Cronologia che calza bene con le affinità stilistiche con altre opere dello stesso autore, quali il Desco da parto e il Polittico di Pisa.

Il volto della Madonna, più sottile rispetto a quello matronale della Madonna pisana, anche per la grande differenza di formato, ha lineamenti ed espressione simili. Il riferimento a Masaccio non trova tutti concordi, ma è molto probabile non solo per la tipologia del Bambino, ma anche per la vivacità e la spregiudicatezza del gesto della Madonna, che accarezza e fa il solletico – abbozzato come benedizione si tramuta in un cenno giocoso – al neonato in fasce, che a sua volta allontana la mano della madre. Un’umanità tipica di Masaccio e, naturalmente, della sua bottega, che lavorava sui suoi disegni. Un’ aria delicata, quasi tardogotica, avvolge le due figure, stagliate su prezioso fondo dorato, le fasce eleganti, il carnicino di seta trasparente, su cui spicca una collanina messa di traverso (particolare arguto), la bordatura preziosa del manto della Madonna.

È evidente che in questa scelta di fine decorazione gioca un ruolo fondamentale la committenza del cardinale. Vescovo di Siena dal 1409 a11426, elevato alla porpora cardinalizia da Martino V, Antonio Casini fu un sottile giurista, in contatto con i maggiori umanisti, ricordato nelle Vite di Vespasiano da Bisticci.

[Maurizia Tazartes in Masaccio, I grandi maestri dell’arte, Skira]

Rileggiamo l’opera: Da dove veniamo? Cosa siamo? Dove andiamo? – sassi d’arte

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Paul Gauguin, Da dove veniamo? Cosa siamo? Dove andiamo?

(1897 – 1898) olio su tela, cm 139 x 374 – Boston, Boston Museum of Art

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Testamento artistico e spirituale dell’artista, la tela è una sintesi dei temi della sua pittura e della sua visione del mondo. Prima di affrontare il dipinto vero e proprio, esegue vari disegni. Lavora quindi giorno e notte, febbrilmente per oltre un mese e a luglio spedisce il quadro a Parigi. Il dipinto impressiona i critici per le soluzioni stilistiche e il profondo simbolismo.

L’opera può essere interpretata come una metafora della vita, dall’infanzia alla vecchiaia, ma anche una meditazione sul suo senso, un confronto tra la natura e la ragione, rappresentata dalle due donne in atteggiamento pensoso. Le figure sono disposte nel paesaggio con un andamento che ricorda i fregi antichi e i grandi cicli di affreschi dei palazzi rinascimentali. Gauguin le riprende da dipinti precedenti, ma conferisce loro un significato differente. La presenza dell’idolo blu e degli animali è stata variamente interpretata, in particolare “lo strano uccello bianco con una lucertola tra le zampe, che sta a significare la vanità tra le parole”.

Benché egli tenda a precisare che “è buttata giù di getto, in punta di pennello”, la tela compendia di fatto una serie di elementi già trattati separatamente in diversi dipinti, che vengono così a costituire altrettanti abbozzi di un’unica creazione protrattasi per parecchi anni e infine concretizzata in questa complessa e  imponente composizione. [Elena Ragusa]

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Paul Gauguin - Autoritratto con cappello (1893-1894)
Paul Gauguin – Autoritratto con cappello (1893-1894)

tratto dal saggio “Il primitivo moderno” di Vittorio Sgarbi: “Gauguin ha cercato nell’arte non solo una ragione estetica, ma anche una ragione esistenziale. Partito a fianco degli impressionisti, Gauguin al culmine della maturità, decide di rifugiarsi o di ritrovarsi in una zona lontana dal mondo “evoluto”, a Tahiti, interrompendo i rapporti con la propria civiltà. Nessuno prima di lui aveva cercato nella vita quotidiana, non più soltanto nell’arte, l'”evasione” con una scelta tanto radicale nelle sue conseguenze pratiche.

E’ l’esito estremo di una visione romantica nel rapporto tra arte e società che interpreta la prima come coscienza necessariamente critica, eversiva dalla seconda. Con Gauguin l’artista diventa perfetto intellettuale, libero pensatore, profeta di un mondo migliore nel nome dello spirito e del bello. Ma Gauguin non è stato un iniziatore solo in questo senso, essendo le sue scelte di vita profondamente legate a quelle estetiche. Per primo intuisce che le ricerche di Van Gogh, di Cézanne e di tutti gli artisti più avanzati sono tanto progredite in quanto vanno verso una riduzione della forma alla sua essenza espressiva, il cosiddetto “primitivo”.

[…] Ricominciare vuol dire allora tornare alle origini della civiltà, quando mito, simbolo e filosofia si concretizzavano nei significati dell’opera artistica e Gauguin è stato il primo, come ha scritto René Huyghe, “a prendere coscienza della necessità di una rottura, perché potesse nascere un mondo moderno; il primo a sfuggire alla tradizione latina, disseccata, ossificata, moribonda, per ritrovare tra leggende barbare, le divinità primitive, l’impeto originario. Mentre l’arte occidentale aveva come proprio perno il noto, egli vi ha sostiutito l’ignoto…ha intuito le terre sommerse dell’anima, le loro intatte potenze in cui la civiltà decrepita e raffinata potrebbe ritemprarsi” (da Gauguin, I grandi maestri dell’arte – Skira)

Rileggiamo l’opera: Vergine Maria col Bambino e undici angeli – sassi d’arte

Maestro del dittico Wilton, Vergine Maria col Bambino e undici angeli (1395 ca.)

tempera su tavola, cm 45,7 x 29,2 – Londra, National Gallery

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Sebbene la sua identità non sia nota, si ritiene che il cosiddetto Maestro del Dittico di Wilton fosse inglese. Esponente del “Gotico internazionale”, operò alla corte inglese, probabilmente tra il 1380 e il 1395. Il suo nome si riferisce a un dittico un tempo conservato alla Wilton House, residenza del conte di Pembroke. Finora non è stato possibile individuare altre opere di questo artista, il cui lavoro si distingua per la delicatezza dei colori, il minuzioso progetto decorativo e la predilezione per una riuscita ornamentale del disegno.

Nella tavola sinistra compaiono Riccardo II d’Inghilterra (inginocchiato) con i suoi santi protettori, re Edoardo, Edmondo dell’Inghilterra orientale e Giovanni Battista; questi ultimi intercedono per lui presso la Vergine Maria (tavola destra),che reca in braccio il Bambino ed è circondata da undici angeli. Questa tipologia di dittico dovette distinguersi per la sua modernità e l’accentuazione del carattere cortese: il re compare quasi sullo stesso piano della Madonna con il Bambino, alla quale è rivolta la preghiera dei santi intercessori. Il quadro aveva quindi un intento devozionale e al tempo stesso celebrativo della persona del re. La riproduzione fotografica può trasmettere soltanto un’idea imperfetta della precisione miniaturistica di quest’opera e della sua qualità pittorica. Ad esempio, un’osservazione ravvicinata che sulla sfera sovrastante il vessillo recato dall’angelo sono dipinte le isole britanniche con un castello bianco; i fiori ai piedi della Madonna rivelano un’eccezionale ricchezza di particolari; lo stesso può dirsi dei piccoli cervi raffigurati sulle vesti degli angeli e dei motivi che spiccano sui broccati degli abiti di corte, ricchi di drappeggi e decorazione in parte dipinte e in parte addirittura incise o punzonate.

Pur essendo probabilmente inglese, il pittore conosceva bene l’arte delle corti francesi e gli era ugualmente nota la tipologia boema delle “Belle Madonne”:d’altra parte, lo stesso Riccardo II aveva sposato in prime nozze una principessa boema. Caratterizzano quest’opera del “gotico cortese” -giustamente noto anche come “gotico internazionale” – anche i motivi , ispirati all’arte italiana, della riduzione prospettica delle proporzioni; in quanto prova di abilità del pittore, essi ne dimostrano tutto il talento e la maestria.

(tratto da “Gotico”, Ed.Taschen)