
Tratto da Hebenon, rivista internazionale di letteratura fondata e diretta da Roberto Bertoldo -che si ringrazia – Anno X N.5 della Terza Serie – Novembre 2005
Marco Ercolani, L’ordine insorto – seconda parte
SOFFRIRE DI MERAVIGLIA
1. Il poeta non è solo un uomo che «soffre di meraviglie», come scrive Nanni Cagnone. Non sarebbe possibile la primitiva estasi dell’atto poetico senza una vigilanza sofferta e ostinata delle ragioni del testo, senza una tensione formale contemporanea alla tensione della trance. A sorvegliare lo stupore ingenuo del poeta è un atto critico decisivo, l’osservazione delle leggi, fluide ma rigorose, create sempre dalle parole. All’interno di questo sguardo lo stupore può, in un successivo momento, invadere le parole, come se fosse un sentimento originale ed estatico, e scompaginarne l’architettura. In questo gioco di vero e di falso – vera/falsa poesia ingenua, vera/falsa tensione formale – la poesia si forma come in una terra di nessuno: «un paese drizzato all’insù, / pieno di crepe / con radici volanti…» (Celan).
Se è vero, come scrive Giuseppe Zuccarino, che ogni poesia autentica modifica la lingua in cui viene scritta e che ogni esperienza poetica è fondamentalmente un’esperienza dell’impossibile, è altrettanto vero che la poesia è una forma di allarme permanente contro i codici dell’interpretazione linguistica. Si crede che certe parole abbiano certi suoni e certi sensi, e invece, nell’alchimia di un testo poetico, tutto è cambiato, tutto è stupefacente, e approda a una leggibilità nuova, complessa e semplice insieme. Non un viaggio senza ritorno, come certe esperienze solo sperimentali che vorrebbero cancellare con la presunzione dell’originalità le energie dell’origine, ma un viaggio con ritorno, che permette di ridescrivere il mondo in modo nuovo e getta il linguaggio in uno stato di pena, di ansia, che non pacifica ma incrina e commuove.
2. Ogni poeta è sempre un nuovo Orfeo che incanta e persuade e vorrebbe rinominare il mondo con le parole, ma, contemporaneamente, è l’albàtro baudelairiano che cammina goffamente sul ponte della nave: il tentativo impossibile del volo, che non aveva bisogno di parole ma solo di intensi slanci e di grande apertura alare, si ridefinisce nell’andatura traballante sulla barca, nell’usare le logore parole, i vecchi remi. «Folle volo», come impulso, ma, nell’artificio, «concreto vacillare».
3. Vedere la poesia.
Come finestra, riflette e rinnova il paesaggio esterno.
Come specchio, riflette e deforma il paesaggio interno.
Come scudo, è sistema di difese dal mondo, rete di analogie che sospendono la verità delle cose in una trama di finzioni.
Come schermo, riflette una scena dove accade qualcosa da descrivere.
Come muro, è la fine, necessaria, nel silenzio, delle parole.
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Definire la poesia.
Poesia è salute (Wallace Stevens).
La poesia non è una fontana che zampilla; invece è una spugna, che assorbe e si lascia impregnare (Boris Pasternàk).
Il poeta è medium posseduto da voci (Marina Cvetaeva).
Prima che la parola venga trovata e sbocci, deve portare su di sé un grave peso. Questo mette il dire poetico in stato di necessità (Martin Heidegger).
La poesia è un edificio che sta per crollare (Charles Baudelaire).
Poesia non è quello che ti appaga ma quello che ti lascia sgomento nel fuoco di un passo estremo verso l’irraggiungibile (Sohravardi).
Poesia è la forma suprema dell’uso emozionale della lingua (Giorgio Seferis).
La poesia parte molto di più dalla necessità di parola che dalla parola già formata (Rainer Maria Rilke).
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4. Nella poesia si discute di una percezione non allineata e non conforme. Questo scompiglio percettivo evita che il mondo ci assalga con le percezioni note e ci richiuda in sigle, codici, gabbie. Nasce una «visione interna» delle cose. La condizione del poeta, il suo aistanomai, il suo personale «percepire», la sua estetica, è testimoniare questa invasione: non percepire ad occhi aperti ma tra sonno e veglia, in stato di sonnambulismo, quando certe figure appaiono sotto le palpebre e c’è il bisogno di trovare delle parole una loro sommaria rappresentazione, una loro imperfetta trascrizione.
Elias Canetti, ne La provincia dell’uomo, scrive: «Un capello, letteralmente, un capello, che stia dove non deve essere, può separare l’ordine dal disordine. Tutto ciò che non è al suo posto, là dove si trova, è nemico […] Nell’ordine c’è qualcosa di micidiale: nulla deve vivere che non gli sia consentito». Ma a quest’ordine se ne può contrapporre un altro, ignoto e non patologico, se ancora Canetti scrive: «Pericolosi i pensatori che non hanno respirato abbastanza». E ribadisce: «Andare per paesi in cui non si possa imparare la lingua» perché «Ogni parola pronunciata è falsa. Ogni parola scritta è falsa. Ogni parola è falsa. Ma cosa c’è senza la parola?».
5. La poesia non ha nulla di descrittivo e di acquiescente, non ha né intenti di analisi né necessità di sintesi. È uno stato di meraviglia, arriva quando si sta in una semifuga da se stessi, non ci si controlla, non si sa se dormire o svegliarsi, e da questo stato nasce un bisogno di parole, come una nuova pelle. La poesia è, può essere, solo una «tempesta in un bicchiere». Ma, conosciuta la tempesta, bisogna osservare bene il bicchiere e misurare il liquido che lo colma: occorre fare attenzione al testo e tornare normali, ma come chi è normale perché ha visto qualcosa di straordinario, perché è stato, deleuzianamente, veggente.
Se la poesia è, fin dall’inizio, un venire a patti col silenzio, il silenzio però genera ogni volta nuove parole, nuove visioni. Occorre dire tutto sempre per la prima volta, con parole diverse, preparandosi alla prossima volta.
Sinisgalli parla della poesia secondo le leggi della cristallografia e Mandel’stam la definisce una «nuova fisica delle parole». Ma si potrebbe aggiungere: la parola poetica è una prova estrema dello scrivere umano. Non conta la scaltrezza della tecnica. Il poiein è uno stato di necessità e trasforma il linguaggio di cui si serve in una parola nuova, capace di «far sollevare la testa dal foglio» (Barthes), di obbligare il lettore a sospendere il giudizio per la meraviglia. Ma l’azzardo da giocare è più sugli eventi imprevedibili della sintassi che sulla profetica potenza della parola. I primi riverberano, la seconda brilla isolata. Come scrive Thomas Stearn Eliot: «Il significato è la trappola in cui il significante ti racchiude perché tu, placato dalla quiete del senso, ne assorba con orrore tutto il suono».
6. «Volevo salvare la calda vita (il pathos) dalla gelida vicenda del giorno e così ho tolto vita alla mia poesia, imprigionandola in se stessa. Ho evitato ciò che poteva avere un effetto devastante su di essa, perché avevo paura: dovevo invece usarlo come materiale indispensabile, senza il quale il mio animo interiore non potrà mai manifestarsi integralmente. Io devo accogliere queste cose in me e usarle come ombra contro la mia luce, per riprodurle come toni subordinati in mezzo ai quali emerga tanto più vivo il tono della mia anima. Devo apprendere il rapporto vivente della poesia, l’alternanza reciproca dei toni, la tensione fra pathos e precisione…» (Friedrich Hölderlin).
«La forma viene dal contenuto come il calore dal fuoco. La forma è l’organo, e il contenuto la funzione che lo crea. La metafora è l’oggetto estetico elementare…L’uomo trascorre la vita «volendo essere altro»… L’unica maniera in cui per una cosa è possibile «esserne un’altra» è la metafora – l’essere-come o il quasi-essere. Il che ci rivela inaspettatamente che l’uomo ha un destino metaforico, che l’uomo è metafora esistenziale». (José Ortega y Gasset).
«Il navigatore in difficoltà getta nelle acque dell’oceano una bottiglia sigillata con il proprio nome e il racconto della propria sventura. Molti anni dopo, vagando per le dune, io ritrovo nella sabbia questa bottiglia, leggo la lettera, conosco la data dell’evento e le ultime volontà dell’annegato. Ho il diritto di farlo. Non ho aperto una lettera altrui. Il foglio sigillato era indirizzato a chiunque avesse trovato la bottiglia. L’ho trovata io, dunque sono io il misterioso destinatario…» (Osip Mandel’stam).
«Il ritmo è reversibile e ripetibile: in questo consiste la sua gioia. Appena il peccato e il delitto entrano nella regione dell’arte, cessano all’istante di essere peccato e delitto. In questa regione regnano l’incessante riscatto e redenzione del fatto. In essa il fatto cambia la sua figura, conquista la sua facoltà, perduta col peccato originale, di ripetersi in sé e di rinascere, consegue finalmente l’espiazione, nota a questa e a quell’ombra, condannate ogni notte a ripetere il delitto commesso una volta, che in questo modo riscatta se stesso e con il suo dolore oltrepassa il livello dell’umana punibilità. Ciò che il ritmo ha abbracciato diventa immortale e sfugge inconsapevolmente alle leggi terrene». (Boleslaw Lesmiàn)
7. Scrive Rimbaud: «Per voi che amate nello scrittore l’assenza di facoltà descrittive o istruttive, per voi distacco questi pochi, atroci fogli del mio taccuino di dannato». Le sue parole non sono diverse da quelle che pronuncia Eliot quando scrive «una nuova opera d’arte è creata è qualcosa che avviene simultaneamente a tutte le opere d’arte che l’hanno preceduta. I monumenti esistenti formano fra di loro un ordine ideale che viene modificato dall’introduzione di un’opera d’arte veramente nuova. L’ordine esistente è completo prima dell’avvento del nuovo; perché l’ordine persista dopo l’intervento della novità, tutto l’ordine precedente deve essere alterato, sia pure in misura minima». Il «taccuino di dannato» delle prose rimbaudiane e le strutture compositive della Waste Land si assomigliano.
8. Il gioco della negazione, nell’arte poetica, accentua, ritarda, confonde, sospende l’evidenza lineare della concatenazione dei significati, perché risplenda un’arte della fluttuazione del senso. Così le parole si librano in uno spazio complesso e discontinuo, che non ha un solo centro di gravità, e tracciano nel linguaggio figure e gesti che vanno al di là dei loro precisi significati. L’esitazione del senso genera un’inquietudine di metamorfosi. L’uniformità melodica limita, la varietà polifonica dilata. Ma la polifonia, pur restando ambigua e colma di risonanze, non rinuncia alla sua misteriosa esattezza, come la testa diabolica e serpentina di Medusa alla fine si risolve nello specchio preciso di Perseo.
9. I poeti restano inattuali, mai contemporanei. Non importa che la poesia si definisca narrativa, mitopoietica, orfica, minimalista, ma che sorprenda come una nuova galassia composta dalle stelle più semplici. «Ci sono poeti buoni, poeti pessimi e poeti tout court: questa è la peggiore delle razze» – scriveva Lev Lunc, giovane scrittore del gruppo dei Serapionidi, nei primi anni venti, in Russia. Ancora oggi ha ragione: una buona poesia è quella che impedisce di leggere oltre, costringendoci a prendere confidenza con quella nuova, inaspettata, terribile visione del mondo, espressa con i mattoni di un comune alfabeto.
10. Interrogarsi su prosa e poesia, oggi, non appare né legittimo né decisivo. Si può ipotizzare che l’oggetto poesia, più svincolato dalla gravità del senso e più fedele alle fascinazioni del suono, viaggi verso una sua smarrita, errante indicibilità. Si può ipotizzare che la prosa, meno attratta dalla musicalità della lingua, sia funzionale alle strategie della narrazione o della riflessione. Che la poesia sia veloce, intuitiva, e la prosa lenta, riflessiva. Ma i due linguaggi si incrociano e si confrontano sempre. La tensione della narrazione, nel racconto, e la tensione della sintassi, nella poesia, ci inducono a riflettere dentro un pensiero obliquo, sonnambulo nell’ispirazione, lucido nella determinazione. Roger Caillois aveva ragione quando, contestando i dogmi surrealisti, ci indicava che ogni immagine non deve essere improbabile o bizzarra, tanto per sorprendere o affascinare, ma semplicemente giusta, appropriata al testo a cui serve. Quel testo, in poesia come in prosa, funzionerà proprio per quella giustizia, per l’esattezza con cui un pensiero, sonnambulo, ritaglia, da un vortice di immagini, quella che persuaderà il lettore.
11. La poesia non è solo maestria tecnica, vibrazione musicale, ingegneria sintattica o lessicale, ma la «ri-creazione» di un modo di leggere il mondo, la volontà di rifondarlo a partire da parole comuni e già usate migliaia di volte, creando un universo alternativo abitato solo dalla sensibilità della propria percezione. In questo senso la poesia è sasso gettato offensivamente contro il mondo-stagno, atto di insulto contro un’armonia mortale. Piegare le parole a funzioni altre, smuovere la sintassi da regole note, imporre concatenazioni, assonanze, allitterazioni inconsuete, è un esercizio di ad-versione, sovversione, combattimento (della propria metafora) contro l’esistenza (non metaforica) che ci vorrebbe ingabbiare e definire. Chi fa il poeta vive solo con «le sue domande» – che possono non essere originali o travolgenti ma sono sue. Le scelte di verbi, nomi, pronomi, aggettivi, sono sì scelte musicali e stilistiche, ma nel senso che quella musica e quello stile è la perseveranza del proprio esserci. Secondo Durrenmatt: «Arte è […] perseveranza che non lascia la presa, slancio primordiale che vede nel mondo qualcosa da riscoprire e riconquistare ogni volta da capo. Perché solo la possibilità di guadagnare o perdere il mondo in ogni momento fa della vita una grazia o una maledizione e non un’esistenza puramente necessaria».
12. La poesia è, per ogni poeta, chiave di accesso al proprio mondo interiore, password non clonabile. Tutto è possibile, all’interno di essa: ribellismo, titanismo, ripiegamento autistico, malinconia sublime, poesia civile. Il poeta nasce in un mondo traboccante di parole già dette da altri prima di lui. Si muove in questo mare magnum, in questa giungla verbale, e per farlo usa una piccola lama, un coltellino, uno stilus. Sceglie ciò che gli piace, butta via ciò che non gli piace. Si ritaglia una strada. Tanto non è solo a parlare. La parola passa attraverso di lui per diventare il suo modo – deforme, sproporzionato, eccentrico – di essere nel mondo, rispecchiato nella parola che legge e che scrive. Traversato da questo sentimento rivoltoso, ha il mondo «in gran dispitto», vorrebbe cambiarlo e non può. L’arte gli offre qualche strumento, qualche fragile illusione, per la sua impresa chimerica: meraviglie, soprassalti, consonanze, dissonanze, aritmie. Si impegna, usa la parola. Qualcosa lo commuove e gli toglie il respiro, forse l’amore dell’infinito, forse l’orrore dell’infinito. Cerca di descrivere tutto questo ma la sua parola resta mozza, inadeguata, sospesa. Si ingegna, affina i meccanismi, cerca di leggere tutti i libri e imparare tutte le strategie, e solo alla fine si arrende al «cocente vuoto del testo» che Celan ci indica. Solo allora il poeta scrive, sapendo che presto verrà meno, lui, non le sue parole, e che non sarà possibile niente di determinato e di chiaro, come non si può pensare niente di determinato e di chiaro di fronte alla morte. Solo allora scrive con maggiore fermezza e felicità, proprio a partire da questo sicuro e fulgido fallimento.
Se Nabokov chiamava zamanstvo la capacità della lingua di persuadere e incantare grazie alle sue raffinate e ingannevoli strategie, è difficile non considerare che ogni testo, in quanto frammento, cancella ogni zamanstvo, distrugge tutte le strategie e tutti gli inganni, si disinteressa della tecnica e del risultato, oltrepassa gli strumenti, è come quella scena, nel cinema, che il regista non voleva e che è stata creata, per caso, da un movimento di gru, da un’intuizione dell’attrezzista, dalla smorfia di un’attrice, da un fondale falso. È perfetta, ma per caso. Tutto, in sostanza, è caos. Ma, se non lavoriamo ostinatamente a qualche soluzione del caos, se non fingiamo di essere buoni demiurghi, rinunceremo a priori all’efficacia di un testo, alla sua necessità poetica.
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Libri consultati:
Ingeborg Bachmann, Non conosco mondo migliore, Parma, Guanda, 2004.
René Char, Oeuvres complètes, Paris, Gallimard, 1983.
Paul Celan, Poesie, Milano, I Meridiani Mondadori, 1998,
Marina Cvetaeva, Il poeta e il tempo, Milano, Adelphi, 1984.
Emily Dickinson, Poesie, Milano, Mondadori, 1995
Jacques Dupin, Le corps clarvoyant, Paris, Gallimard, 1999.
Osip Mandel’stam, La quarta prosa, Bari, De Donato, 1967.
Henri Michaux, Oeuvres complètes, II, Paris, Bibliothèque de la Pléiade, Gallimard, 2001.
Pedro Salinas, Antologia poetica, Milano, Accademia Sansoni,1972.
Leonardo Sinisgalli, Furor Mathematicus, Silva, Milano, 1967.
Giuseppe Ungaretti, Vita d’un uomo, Milano, Mondadori, 1968.
Cesare Viviani, Poesie 1967-2002, Milano, Mondadori, 2003.
Maria Zambrano, Il sogno creatore, Milano, Bruno Mondadori, 2002.
— immagine d’apertura: Henri Rousseau, Il sogno (1910) —