
Tu non conosci il Sud, le case di calce
da cui uscivamo al sole come numeri
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Da vivo, Calogero, implorò anche il più piccolo riconoscimento per la sua poesia, cui aveva sacrificato tutto, anche la vita, destituendola di anno in anno sempre più di ogni valore, di ogni dignità, di importanza. La poesia fu l’unica aspirazione di Calogero, i riconoscimenti che essa avrebbe potuto dargli, il massimo da chiedere alla vita. Per la poesia Calogero ha consumato tutto, il suo fisico, il suo cuore, il suo intelletto, fino alla menomazione e alla follia.
(G.Tedeschi, estratto da Lorenzo Calogero Opere poetiche Vol.I a cura di Roberto Lerici e Giuseppe Tedeschi – leggi qui tutta la Premessa)
Non lacrima più una luna, di Lorenzo Calogero
e forse non è più un caso
lontanando nei brevi aliti
in continua mesta discesa
dentro un’idea.
da Come in dittici, da Poeti italiani del secondo Novecento , Oscar Mondadori
“A Sinisgalli si deve la «scoperta» di Lorenzo Calogero, il quale, dopo vari infruttuosi tentativi di pubblicare su qualche rivista, dà alle stampe a proprie spese due libri di poesia, che consegna personalmente allo stesso Sinisgalli che allora (fine anni ’50 del secolo scorso) lavorava a Roma dove Calogero lo va a trovare per chiedergli una prefazione al successivo volume Come in dittici. […] La poesia di Lorenzo Calogero è la poesia di un isolato: fisicamente e culturalmente confinato nella lontana provincia calabra di Melicuccà. […] L’immobilità linguistica della poesia di Calogero è, in una certa misura, il riflesso estetico dell’arretratezza economica e culturale del Sud (degli anni ’60, non specificato nel testo n.d.r.) ma, paradossalmente, questo è anche il suo punto di forza e di massima originalità. L’isolamento fisico e geografico della poesia di Calogero, relegato a fare il medico condotto nella provincia di Reggio Calabria, è anche il marchio di garanzia della sua qualità letteraria. E’ l’isolamento di un poeta intimamente refrattario alle lusinghe delle poetiche apparentemente più innovative e spregiudicate che stavano a ridosso della modernità.
(G.Linguaglossa, L’area pre-sperimentale in Dalla lirica al discorso poetico, EdiLet, 2011)
da Le sonagliere dei mirti vanno verso il porto, di Gino Rago
Ettore senza scudo quasi a cibare i corvi.
Astianatte nella Pietas di braccia senza carne.
Andromaca. Né più moglie né madre.
Ecuba ora perde la parola. Non emette
un’onda la sua voce. Le rimane solo il gesto.
Il linguaggio dei segni volge sulle schiave
e a sé soltanto dice: «Nella terra di quali uomini
sono giunta? Sono selvaggi, senza giustizia,
o nella mente serbano e nei gesti
anche un esile rispetto degli dèi?».
“La Federazione Unitaria Italiana Scrittori (FUIS), nel quadro della attivita’ di promozione oltre a quella di rappresentanza e consulenziale, ha ospitato lo scorso 16 aprile 2015 la presentazione, presso la sede romana di piazza Augusto Imperatore, della Antologia «Il rumore delle parole. Poeti del Sud» (2015), per i tipi di EdiLet, a cura di Giorgio Linguaglossa. Sono intervenuti il curatore della Antologia e la poetessa romana Letizia Leone.
Linguaglossa ha illustrato l’opera precisando che l’Antologia non può ritenersi ultimata ed esaustiva in questa prima edizione. La particolarità, secondo Linguaglossa, dei Poeti del Sud, rispetto, per esempio, alla cosiddetta Scuola lombarda o ad altri indirizzi, risiede nella varietà degli stili.
Nel delineare i lineamenti geostorici della poesia italiana e nel tracciare i vari periodi di «egemonia letteraria» fra Milano, Firenze, Roma che nel corso del Novecento si sono succeduti, il curatore dell’antologia ha notato come nel Sud operino poeti vitali che si muovono secondo modalità non concordate, libere da interessi editoriali o di uffici stampa. È una poesia che non si rende immediatamente «riconoscibile» e dove ciascun poeta ha una sua precisa «identità stilistica».
Oggi il Sud si è smarcato dal periferico, evidenza il dinamismo fra centro e periferia anche se questo movimento tellurico era stato già intravisto con chiarezza da Pasolini per il quale la periferia romana sfociava nel terzo mondo. Nello stesso tempo, ha continuato Letizia Leone, ci sono autori come Albino Pierro che non vogliono centralizzarsi, altri fanno, anche a Nord, del dialetto la propria isola nel rifondare la propria stilistica. Se siamo nella post-storia, nell’epoca dello svuotamento ideologico, forse è lecito parlare di post-meridionalismo, per questi poeti, lontani dalle poetiche del vissuto, dal mito di una poesia che abita il mito o di quella che ricerca una impossibile innocenza perduta.
In questo contesto storico che dista anni luce dalla linea meridionale degli anni Cinquanta, sia Letizia Leone che Linguaglossa si sono soffermati sul rapporto tra scrittura e il territorio, individuando la forza di questi Autori nell’aver digerito lo scandalo della storia, quello dell’essere poeta oggi, di non sapere più a chi si rivolga la scrittura poetica.
(a firma A.F. tratto da Per una Carta Poetica del Sud, Manifesto del Poest-Meridionalismo su L’Ombra delle Parole Rivista, aprile 2015)
Collage (Poesia fatta di stracci), di Gino Rago
Non c’è niente di più opaco
della trasparenza totale.
Il corpo è colore e odore.
I sospiri delle onde richiamano il vento:
ora sboccio. Una rosa tra le dita.
Prendila.
Mi accorgo solo ora che l’artrite deforma le mani.
Tutto cominciò con una caduta.
Spremere fuori il mistero…
Ti muovi viva nel tuo stesso corpo.
Ma nuvolaglie increspano
le visioni razionali.
(…)
Ritirarsi? Sì.
Ritirarsi
Ma dalle forme consunte del poetico.
E rifarsi un vestito.
(…)
Un abito tutto nuovo di parole
per la festa e per il quotidiano.
Confezionarsi un vestito nuovo
Nell’atelier di stracci. E’ nuova la poesia
fatta con gli stracci.
(agosto 2017)
“Vedi caro Gino Rago,
io che conosco la tua poesia fin dalle prime pubblicazioni degli anni novanta, mi meraviglia, e non poco, constatare come la tua poesia, a contatto con la «nuova ontologia estetica» sia cambiata, ne ha avuto una accelerazione verticale. La tua poesia degli anni novanta scontava il generale immobilismo e il ristagno della poesia del Sud intervenuto dopo il post-ermetismo, diciamo così, dopo Sinisgalli e Lorenzo Calogero. Dopo questi due poeti la poesia del Sud si arresta e fa le veci della poesia del Centro e del Nord, diventa una poesia di un paese coloniale e colonizzato. Fenomeno questo del tutto naturale vista l’arretratezza della economia del Sud dipendente da quella del Nord.”
(G.Linguaglossa, 10 luglio 2017, commento).
La domanda nasce spontanea: allora i poeti – non solo del Sud -“”migliorano”” soltanto appartenendo all’ennesima congrega \ caso letterario \ movimento \ casta \ gruppo di amici \ chiamatelo come ve pare, proposto in nome di qualcosa, che non sappiamo se essere il modernismo o le manie personalistiche di affermazione, da sempre agognato? (e si badi che questo mio dire non è riferito al fare gruppo per scambio-crescita di idee). E per avere un momento di visibilità nella “stagnazione spirituale” in corso è necessario tagliare le pietre della forma voluta per dimostrare che quella forma esiste in natura, come dice il mio amico Flavio Almerighi (di cui riporto sotto un inedito sull’argomento)? Occorre coercizzare tutti i contesti, piegandoli alle proprie idee, per avvalorare qualcosa che si è deciso essere importante e necessaria, gettando alle ortiche tutto quello che non rientra nel cerchio magico per qualcosa, appunto, che se è vera, – e speriamo sia ancora consentito il dubbio – solo il tempo potrà dimostrarlo? Diamine, io se credo in qualcosa non faccio opera di proselitismo, martellamento, demolizione mirata, porta a porta e mistificazione, ma, semplicemente, perseguo in silenzio la mia strada. I cambiamenti non si studiano a tavolino, non si creano “ad arte”, semplicemente accadono, avvengono. E si finisca una buona volta di usare la retorica del nascondersi sotto l’abituccio dismesso della modestia, della noncuranza, del tono basso per non destare scalpore, della finta dimenticanza dell’Ego e del disinteresse per l’argomento stesso per poi glorificarsi a vicenda. Di “scarpari” (nel mio dialetto significa “calzolai”) ne abbiamo sì bisogno, ma di quelli veri, che sappiano prima di cosa ha bisogno ogni piede e poi come si aggiusta una scarpa, tenendo i chiodini a zittirli tra le labbra e martellando solo sulla superficie interessata, non ovunque!
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E prima che qualche buon massone…ehm buontempone venga a fare storie qui, avvisiamo tutti i “noeauti”, antichi Argonauti che hanno pero il vello, ma non altro – e pure quelli che hanno aperto nuovi blog solo per avere un nickname – oggi persi per altre scialuppe bucate, che questo articolo, che tratta per la prima e ultima volta di NOE in questa sede, non ha nessun fine celebrativo, né pubblicitario per nessuno, né tanto meno è un attacco personale; qui non ci contrapponiamo a nulla e a nessuno, ma cerchiamo soltanto di esprimere il nostro dissenso verso qualcosa che secondo noi sta creando qualche danno alla Poesia, supportata da una voce che sfrutta la sua storia letteraria e che oggi abbraccia quei modi di fare da anni contrastati. Con buona pace di sciamani, sufi, sofisti, musicisti, trapezisti, analisti, qualsivoglia ‘isti e disquisizioni psico-socio-filosofico-antropo/logiche e illogiche e di tutto quello che Poesia non è.
Prendete e leggetene tutto, come un semplice confronto di fatti e persone.
Ai posteri l’ardua sentenza e ai postumi del caldo, il resto. Io, intanto, speriamo che me la cavo. Buona Poesia con la maiuscola, si spera, a tutti! (AnGre)
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balliamo un surf senza futuro, di Flavio Almerighi
a due sole scuole di pensiero
chi uno e dieci, è giusto ci sia
un po’ di finta opposizione.
fu una corsa interminabile,
anche adesso sotto le finestre,
tutti a rincalzare coperte,
in cerca di prove indubbie
finì che ci trovammo tutti
pieni di burocrati e pensionati
balliamo un surf senza futuro
(In apertura: Michelangelo Pistoletto, Venere degli stracci: esempio italiano di Pop Art. Il termine “Pop Art” indica un movimento artistico d’avanguardia sviluppatosi intorno al 1955 parallelamente in Gran Bretagna e negli Stati Uniti d’America, come reazione alla pittura degli Espressionisti Astratti. Arte che, dietro immagini apparentemente grottesche, lasciava intuire le contraddizioni dell’Uomo moderno, vittima della società; un’arte di massa, i cui quadri spesso erano riproduzioni in serie di oggetti su tela o in scultura sempre, però, icone sociali, oggetti, appunto, e materiali del quotidiano elevati a manifestazione artistica. La Pop Art, ebbe il ruolo di mettere in evidenza sfrontatamente la mercificazione dell’Uomo, l’ossessivo martellamento mediatico e il consumismo eletto a sistema di vita, fondando la propria comprensibilità su soggetti noti e riconoscibili.)