Antonio Sagredo, Elegia viola per Annita

Tracciava un cerchio che non quadrava degli universi 
i confini, i pensieri musicali e le note razionali 
accatastati nei cortili.
Il compasso della mia mente era mutilato 
agli angoli nel febbraio dei roghi e delle streghe, 
e sorrise per i presagi a malincuore. 
Non sapevo nulla di vessilli e marosi spenti!

In binario andamento e improvvisato avanzavano 
danzando un violino, una chitarra e un flauto.

E partiamo verso Citera, e lasciamo in disparte 
il pianto a farsi pietra. Voltai le spalle al tramonto 
ossuto che non riuscii a bere in una tazza… 
nel suo fondo si dimenavano i sentieri dei lamenti 
biforcuti, come lingue di rettili in fuga …  
gramigne e ortiche mi invitavano ai festini dei tormenti 
prima delle ore antelucane… 
il telefono nero non fu più muto alle radici 
e il colore del Nulla  nel quadro 
chiuse un’epoca… schizzavo un ritratto 
al pianto che occhi non aveva… 

L’avanguardia delle lagrime spalancò il cancello 
prima delle mani ingessate e distrasse il pennello 
dalla sua arte ultraterrena, ma l’ostinazione 
della candela alla fiamma fatua non era  visibile 
e si sgonfiava il ventre giallastro, disidratato 
come una vela in panne… 
e non sai se respiro o sospiro è il mantice… 


 -   e la marea che starnazza sulle lamie e deforma i volti
 -   e i fari che non sanno rallegrare le grida dei naufraghi
 -   e i cipressi che crollano come guerrieri lontani 
dalle proprie ombre e, in ginocchio, sono gelosi 
dello sguardo di putti alati…
un cristo invano si sbroda in lagrime tra le luminarie 
e l’incenso per l’estrema unzione, 
l’apocalissi dietro il vicolo s’accende una lanterna rossa, 
e le ombre danzano, danzano e sono maschere. 
Già il fardo dai binari è sulle spalle e ricolma fino
a luna piena la pancia di legno del bastimento.


La soglia come una lingua lavica dettava frasi latine,
il vento rabbioso latrava gelido sulle vetrate variopinte,
ma dalla latrina alla tomba il passo è ovale e lieve come neve
e i singhiozzi, in una chiesetta sconsacrata, fra le tue mani
come una culla una madonna fosforescente ho deposto.

Il volto era incurvato sulla chiavica 
di mostri tufacei e angelici che la finzione 
sapevano più della tragedia in atto sul nero legno 
e aveva ragione, John, quando la fisica 
era la meta d’ogni poeta 
e che il piacere delle ossa liberate dall’anima 
è imitare la carne primigenia e, sfatare sul palco 
ogni inganno, sotto uno stendardo bianco 
al vento, era un viaggio senza ritorno verso Citera. 


Le maschere non si somigliano più, gridò.


E strizzava a sangue il rosario e l’occhiolino 
coi suoi denti untuosi la Morte murata 
che non conosce amore gravido del Nulla.
E la Dama del boia ingravida e carezza
e finge il pianto dei  gradini in corsa, 
e a scatti sorride l’umida dentiera 
per una rotta serratura che s’inchiavarda, 
come una marionetta sulla  scena. 


Ed era sublime e dura quella, come Marcela nel suo tango,
ma l’ombra ricorda al corpo un tip tap sotto i lampioni.


E non era eterna quella Sorte infantile che cantai, 
e, quando visitai intestini e aruspici dei sembianti 
in sonno, luminosi vampiri mi restituirono gli occhi, 
come se sulla scena i gesti e le parole 
dalla fossa  dettassero mistiche visioni.


Quale sogno in vita è reale se la neve è davvero lieve
e ovale nel debutto? 
E il montaggio degli arti nella tarlata rovina 
delle quinte è caduto giù e pure la voce degli avanzi 
reclama una vittoria di macerie e trucioli … 
un solo passo avanti per l’occhio di bue, e lo sfacelo 
è dei trionfi dei legnosi suoni e delle gesta epicuree.


… e si risveglia e rifiorisce dalle ceneri del Nulla 
una forma vaga di risurrezione… 
umana mai sapremo, ma al nuovo giorno almeno 
ci ridestiamo da defunti. 


E ci ridestiamo dalle ossa senza speranza… 
una fatica del sangue l’erezione… 
aveva ragione Thomas: nella Morte non c’è vita sessuale!



Nelle nerastre pozze di via dei Coronari miravo le fameliche zoccole che vomitavano frasi latine, ancora! – e celebrando i fasti dei ceri danzavano un bughi bughi… 
e ancheggiando squittivano a squarciagola pure gli angeli 
e i corali dalle strepitose finestre: Citera, Citera Citera! 


“Avevate ragione, Lazzaro, si risorge solo per finta, altrimenti è terribile  il viaggio verso l’ignoto! Non esiste ritorno! Lazzaro, Io non ritornerò! Lazzaro, non ti arrendere, rientra, perDio! Avevate ragione, Lazzaro, si risorge solo per finta, non vi dirò nulla!”.


E dalle canne degli organi velati sgorgavano note scapigliate, 
e luride variopinte lucciole, e sensuale era il frastuono 
di un tango che rauco modulava le parole e gli occhi assordanti
di Carlos Gavito, il tanguero che balla il silenzio e la morte.
                            

Divina e secolare Carmencita, il tango è un poesia triste che si balla.
… e non ti fare sedurre: non esiste ritorno!
Lazzaro, la vita che tu cerchi non la potrai trovare altrove.



E la marina dove Annita mi portava vestito bene
di domenica dal lontano suburbio cappuccino 
lungo  tutta l’Appia etilica e fetida… 
e Lucio era con noi… 
e coi trucioli ancora in tasca  discuteva 
coi portuali gravidi d’oriente 
e per i fardi  gonfio era  il ventre dei bastimenti.  


La camera è l’esistenza ardente che con noi la sorte si divide.


*

Antonio Sagredo
Roma, 20-22 marzo 2021

Il sasso nello stagno di AnGre ringrazia l’Autore per aver voluto condividere qui questi versi scritti in memoria della madre scomparsa negli scorsi giorni.

Proposte dagli autori: Antonio Sagredo, tre poesie

Antonio Sagredo, tre poesie
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Lecce-Praga-Roma
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Come è strano questo maggio, oggi,
dopo che Riccardo ha scritto la sua tragedia.
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La mia strada fu come la tua: un fuga,
un’intuizione verso un suicido altrui.
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Il broccato di mogano della tua fronte
è più che un crepuscolo d’altri tempi,
e avrai capito che un verso assetato di assoluto
è la solitudine di uno straniero tra le ombre.
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Ma non cerchiamo l’astratto, ma un concreto di sangue,
come suoni di cinabro tra gli androni
bianchi e odorosi di una città barocca.
Città mia, mi si ripete tante volte lo stesso sogno,
e mi aggiro spaventato tra palazzi e viuzze d’oro!
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Non è una visione, non è un assalto dei Turchi:
temo la devastazione del futuro e dell’oscuro risultato.
Non ho amici, non ho ragazze a cui affidare la mia dolcezza,
che possano intrecciare con violenza una corona di speranza,
ma un ricordo saraceno è quanto mi rimane dalla storia
e io non posso, non posso numerare le sue pietre nere,
di questo cristo crocefisso ad un crocicchio!
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Sono il figlio bastardo della luce verde della mia città,
amaro e acre…
gridano e fiammeggiano gli ateismi di Cesare Vanini,
perché la luce sia una eterna festa pagana
o una miseria teatrale alla Odin Theatret!
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Roma, 23 /5/1976
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Passato leccese
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Lo sapevo, lo presentivo, lo sapevo.
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La città scampanava di fiori le chiese,
i bambini ronzavano attorno i campanili.
Il noviziato arrossiva sotto il chiostro barocco,
i limoni scotevano l’aria dal torpore di sangue
scivolato dal turchese!
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Magnifico il poeta dai balconi squillanti
imbandierati di garofani…
il gelo dei gigli salutavano madonne vogliose
i santi Cosimo e Damiano giocavano a carte
e nel destino i tarocchi assegnavano gli ex-voto.
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Ma l’aria si fondeva nel verde nome della mia città,
ingiallita di pietra la sua nudità in un sole invertito.
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Un triste basiliano malediceva Vanini: un Cesare – in fiamme!
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Col rosario spezzato si lagnava presso i crocicchi,
dove lumicini aguzzi zebravano la nera devota,
imponendo un segno di croce che l’ubriaco scatarrava.
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Le giravolte mi torcevano il collo:
un imbelle martirio!
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Roma, 14 ottobre 1976
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………………………………………..a Dino Campana
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La pàtina di pietra che mi copre il sesso
s’è levata dallo specchio in ammirazione
e col trucco di una oscura riflessione
i serafini uccisi sono in lagrime.
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Gli uccelli del parco discutono sul concerto:
dite, è possibile espellere un fagotto?
I violini hanno le note ferite sulle corde,
le cicatrici dell’armonia non sono fortunate.
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Che il gatto lecchi il pelo nella notte
a me poco importa della mia lirica:
Berna orfica io amo
e l’urlo rosato della mia città.
.
Cartapesta antica, sapore di colla,
giravolte, crocicchi i miei pensieri.
Nelle nicchie sogno Madonne e Puttane,
occhi turchini, rossastri sudori, cariatidi sdentate.
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Gli applausi della pietra sono eterni
come me e il mio destino innamorato…
e sono ottuso, e non amo che i tarocchi,
nemmeno l’epica salverà la mia vita!
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Černošice, 27 maggio 1979

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Ringraziando l’Autore per queste proposte giunte in mail invitiamo alla lettura di altri suoi lavori al seguente link: leggi qui.

Antonio Sagredo: nato a Brindisi, il 29 novembre 1945 (pseudonimo Alberto Di Paola), ha vissuto a Lecce e dal 1968 a Roma, dove  risiede. Ha pubblicato le sue poesie in Spagna: Testuggini (Tortugas) Lola editorial 1992, Zaragoza; e Poemas, Lola editorial 2001, Zaragoza; e inoltre in diverse riviste: «Malvis» (n.1) e «Turia» (n.17), 1995, Zaragoza. La Prima Legione (da Legioni, 1989) in Gradiva, ed.Yale Italia Poetry, USA, 2002; e in Il Teatro delle idee, Roma, 2008, la poesia Omaggio al pittore Turi Sottile. Come articoli o saggi in La Zagaglia:  Recensione critica ad un poeta salentino, 1968, Lecce (A.Di Paola); in Rivista di Psicologia Analitica, 1984,(pseud. Baio della Porta):  Leone Tolstoj – le memorie di un folle. (una provocazione ai benpensanti di allora, russi e non); in «Il caffè illustrato», n. 11, marzo-aprile 2003: A. M. Ripellino e il Teatro degli Skomorochi, 1971-74. (A.Di Paola) (una carrellata di quella stupenda stagione teatrale). Ha curato (con diversi pseudonimi) traduzioni di poesie e poemi di poeti slavi: Il poema: Tumuli di  Josef Kostohryz , pubblicato in «L’ozio», ed. Amadeus, 1990; trad. A. Di Paola e Kateřina Zoufalová; i poemi:  Edison (in L’ozio,…., 1987, trad. A. Di Paola), e Il becchino assoluto (in «L’ozio», 1988) di Vitězlav Nezval;  (trad. A. Di Paola e K. Zoufalová). Traduzioni di poesie scelte di Katerina Rudčenkova, di Zbyněk Hejda, Ladislav Novák, di Jiří Kolař, e altri in varie riviste italiane e ceche. Recentemente nella rivista «Poesia» (settembre 2013, n. 285), per la prima volta in Italia a un vasto pubblico di lettori: Otokar Březina- La vittoriosa solitudine del canto (lettera di Ot. Brezina a Antonio Sagredo),  trad. A. Di Paola e K. Zoufalová.

Di recente pubblicazione per GSE Edizioni, Capricci (2016), poesie, con saggio introduttivo sull’autore a cura di Donato di Stasi.

– immagine d’apertura: opera di Emilio Tadini –

due poesie di Antonio Sagredo: “Requiem per Carmelo Bene” e “regressione salentina”

carmelo
Carmelo Bene

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due poesie di Antonio Sagredo

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REQUIEM PER CARMELO BENE

(a C.B., in punto di morte,
ore 21,09 del 16 marzo 2002)

 

Mi nutrirono di lacrime i nitriti dopo il crepuscolo
quando l’Immortalità si fermò alla stazione del Nulla,
nella notte che una maschera e la gloria uscirono di senno
si mutò in rantolo di carne, come il Verbo, il tuo sguardo.
 .
Fu l’abbecedario di una malattia moresca
a tradurre la lucciola libertina in notte eretica,
i nerastri cantici dei tuoi occhi in raccapricci di cera,
il pianto equino di un bambino nella cripta.
 .
Smoccola il cielo, ossa!
 .
Ti sei bardato della Grazia del vischio,
come pelle di Magenta è la tua Voce.
La gorgiera del tempo si sfarina…
Nei padiglioni il tuo furore tracima cenere,
come se la morte fosse altrove…
dove i dèmoni hanno smarrito l’anima!
dove gli dei hanno ceduto il corpo!
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Vermicino,  19 marzo 2002

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Vittorio Bodini

 

con un gelato di corvi in mano
a vittorio, a carmelo e a me stesso

 

REGRESSIONE SALENTINA

Con un gelato  di corvi in mano
torchiavo con le dita il grumo dolciastro di un mosto,
sul capo mi ronzava una corona di gerani spennacchiati.
Crollavano lacrime di cartapesta dai balconi-cipolle,
giù, come vischiosi incensi.
.
Squamata da luci antelucane l’ombra asfittica
piombata come una bara, scantonava
per la città falsa e cortese su  un carro funebre.
 .
Nella calura la nera lingua colava gelida pece!
 .
Schioccavano i nastri viola un grecoro di squillanti:  EHI! EHI!
come un applauso spagnolo!
 .
Ma dai padiglioni tracimava il tuo pus epatico, bavoso…
risonava un  verde rossastro strisciante di ramarro,
le bende, come banderuole scosse dal favonio, tra quei letti infetti…
 .
e brillava… l’afa!
 .
Scampanava al capezzale delle mie Legioni
quel  verbo cristiano e scellerato che in esilio,
invano, affossò – il Canto!
 .
Ma noi brindavamo –  io, tu e l’attore – con un  nero primitivo,
i calici svuotati come dopo ogni risurrezione,
perché la morte fosse onorata dal suo delirio!
.

 Vermicino,   11 marzo – 4 aprile  2008

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* * * 

Notizia ed altri versi del medesimo Autore:

su Il sasso nello stagno di AnGre, QUI 

in Critica di Giorgio Linguaglossa, QUI.

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Sagredo-1971
Antonio Sagredo in una foto del 1971

 

Antonio Sagredo, “Accattone d’amore”, dalla raccolta inedita Poesie mostruose – con un commento di Giorgio Linguaglossa

Antonio sagredo teatro politecnico-1974
Antonio Sagredo, Teatro Politecnico, 1974

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“Accattone d’amore” di Antonio Sagredo 

(dalla raccolta inedita “Poesie mostruose”)

Dai moli irriverenti io vidi il sorgere di visioni eterogenee e specchi invitare

gli occhi ad un incubo speculare, le orbite marcire alla deriva e i pensieri

non incisi su tavole d’argilla… e tutto era smarrito fra quei  corpi in disuso,

come in un arsenale desolato avanzi di epoche mai nate e intatte.

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 Non avevo che fiumi di madreperla da mirare e quel morire degli oceani

avvitarsi in ciambelle sfatte nei tramonti inaciditi, e come una marionetta

d’altri tempi, senza nervi e rauche parole,  fra merletti delle torri saracene

sognavo invano navigli e vele biancoavane… un orientale esistere non c’è più.

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 Nostra Signora del Lutto rifiutò il sacrificio dell’agnello e crocefisse l’innocente

leopardo. Lei che era tutto il Canto  non divise la mia nascita con le parole beate

e il sapere di tutta la materia oscura vomitò sulla scena i gesti e l’ombra generò                              

un’assenza d’aurore per la scosciata Europa. Celebravo dei roghi la mia assenza

.

in fiamme e tu  giocavi ai miracoli sui patiboli, e non avevi nemmeno un gesto per me 

fra spazi scellerati e infernali amori… non volevo abbandonare il paradiso al suo destino,  

temevo delle mie lacrime il suo benestare al riso e il calibrato furore delle mie mani

sui gradini di un sacrario. Accattone d’amore!

 .

Il delirio di una gorgiera di rose fu una vigilia pagana,  un assemblea plenaria,

un arazzo floreale ibernato dal gelo delle mie visioni… pregavo la soglia

di un qualsiasi cottolengo per negare alla santità dei miei atti un sigillo

o un sacrificio l’attesa fra risa e singhiozzi… andiamo a morire da Poeti, allegramente!

 . 

Dai padiglioni ascoltavo le suppliche di Chinoneri, i singulti e gli sbocchi di sangue

crollare  sul volto tumefatto della Supplica – Ti ho sentito piangere dalla camera

dove non ci sei… raccoglievo i tuoi resti, confondevo le trame e le scene. Citera

m’aspettava con tutte quelle maschere che si somigliano, l’accidia che  cantava la sua

.

ofidica tranquillità, le note di Federico dissolversi sulle strade di Varsavia.

Dal ponte delle mie legioni gli antichi versi svanire con gli scabrosi epitaffi

del mio sublime recitar cantando un miserere o un Te deum come un severo Farinelli

fra turrite troie  e rosse lanterne. Affilare a dismisura la soglia come una lama nella mia gola?

.

La Morte ho spremuto come un limone di primavera, in fiore! … sangue catramoso

come succo di mirtillo dalle croci, barocca mistica depravazione, alziamo i calici,

sui patiboli ! Asciugati la maschera con le lacrime! E io che mi lasciavo andare

sul Ponte delle Lamentazioni, consumato, iniziato ai ricordi come alla morte di una Poesia mostruosa.

.

Inedito, Roma, 31 ottobre 2015 (dall’ora quarta alla sesta)

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Antonio Sagredo (pseudonimo Alberto Di Paola), è nato a Brindisi nel novembre del 1945; vissuto a Lecce, e dal 1968 a Roma dove  risiede. Ha pubblicato le sue poesie in Spagna: Testuggini (Tortugas) Lola editorial 1992, Zaragoza; e Poemas, Lola editorial 2001, Zaragoza; e inoltre in diverse riviste: «Malvis» (n.1) e «Turia» (n.17), 1995, Zaragoza.Antonio Sagredo copLa Prima Legione (da Legioni, 1989) in Gradiva, ed.Yale Italia Poetry, USA, 2002; e in Il Teatro delle idee, Roma, 2008, la poesia Omaggio al pittore Turi Sottile. Come articoli o saggi in La Zagaglia:  Recensione critica ad un poeta salentino, 1968, Lecce (A. Di Paola); in Rivista di Psicologia Analitica, 1984, (pseud. Baio della Porta):  Leone Tolstoj – le memorie di un folle. (una provocazione ai benpensanti di allora, russi e non); in «Il caffè illustrato», n. 11, marzo-aprile 2003: A. M. Ripellino e il Teatro degli Skomorochi, 1971-74. (A.   Di Paola) (una carrellata di quella stupenda stagione teatrale). Ha curato (con diversi pseudonimi) traduzioni di poesie e poemi di poeti slavi: Il poema :Tumuli di  Josef Kostohryz , pubblicato in «L’ozio», ed. Amadeus, 1990; trad. Antonio Di Paola e Kateřina Zoufalová; i poemi:  Edison (in L’ozio,…., 1987, trad. Antonio Di Paola), e Il becchino assoluto (in «L’ozio», 1988) di Vitězlav Nezval;  (trad. Antonio Di Paola e K. Zoufalová). Traduzioni di poesie scelte di Katerina Rudčenkova, di Zbyněk Hejda, Ladislav Novák, di Jiří Kolař, e altri in varie riviste italiane e ceche.
Recentemente nella rivista «Poesia» (settembre 2013, n. 285), per la prima volta in Italia a un vasto pubblico di lettori: Otokar Březina La vittoriosa solitudine del canto (lettera di Otokar Brezina a Antonio Sagredo),  trad. A. Di Paola e K. Zoufalová. È  uscita, per Chelsea Editions di New York, l’antologia in inglese con testo a fronte (immagine qui accanto), Poems di Antonio Sagredo.
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Commento di Giorgio Linguaglossa

La poesia di Antonio Sagredo è un atto irriducibile che si inserisce nel mondo. Un atto che per incarnarsi deve pescare nelle profondità dell’Estraneo in quanto «le maschere si somigliano». La sua è una poesia che si assenta da questo e quello, dagli oggetti storici, sembra quasi vivere in un limbo a-storico. Come ho scritto altre volte, l’impiego degli aggettivi (mai dimostrativi o qualificativi di una sostanza) è volto a stravolgere e a sconvolgere la sostanzialità e la stanzialità del discorso linguistico. Sarà bene dire subito che la poesia di Sagredo non è poesia pura, non riposa sull’atto poetico in sé, non abbandona mai i significati particolari delle parole nemmeno quando alza il diapason della significatività fino agli orli dell’incomprensibile e dell’indicibile.

In questa poesia ci sono due citazioni della più grande poetessa italiana degli anni Settanta, Helle Busacca, tratte da I quanti del suicidio (1972), dove la poetessa siciliana parla con un morto, con il fratello «aldo» morto suicida perché indotto al suicidio dal «sistema Italia». Il più grande atto d’accusa di un poeta alla sua patria. E, in qualche modo Sagredo, con le sue finzioni sceniche, il suo armamentario di maschere e di clown e le miriadi di citazioni dotte e indotte, costituisce anche lui un atto d’accusa, ma non contro il «sistema Italia» ma contro il «vuoto» che aleggia in agguato appena un millimetro dopo la comparsa delle parole.
Scrive Octavio Paz ne L’arco e la lira: «Un’opera poetica pura non potrebbe esser fatta di parole e sarebbe, letteralmente, indicibile. Nello stesso tempo un’opera poetica che non lottasse contro la natura delle parole, obbligandole ad andare oltre se stesse e oltre i loro significati relativi, un’opera poetica che non cercasse di far loro dire l’indicibile, risulterebbe una semplice manipolazione verbale. Ciò che caratterizza un’opera poetica è la sua necessaria dipendenza dalla parola tanto quanto la sua battaglia per trascenderla».