
Tracciava un cerchio che non quadrava degli universi i confini, i pensieri musicali e le note razionali accatastati nei cortili. Il compasso della mia mente era mutilato agli angoli nel febbraio dei roghi e delle streghe, e sorrise per i presagi a malincuore. Non sapevo nulla di vessilli e marosi spenti! In binario andamento e improvvisato avanzavano danzando un violino, una chitarra e un flauto. E partiamo verso Citera, e lasciamo in disparte il pianto a farsi pietra. Voltai le spalle al tramonto ossuto che non riuscii a bere in una tazza… nel suo fondo si dimenavano i sentieri dei lamenti biforcuti, come lingue di rettili in fuga … gramigne e ortiche mi invitavano ai festini dei tormenti prima delle ore antelucane… il telefono nero non fu più muto alle radici e il colore del Nulla nel quadro chiuse un’epoca… schizzavo un ritratto al pianto che occhi non aveva… L’avanguardia delle lagrime spalancò il cancello prima delle mani ingessate e distrasse il pennello dalla sua arte ultraterrena, ma l’ostinazione della candela alla fiamma fatua non era visibile e si sgonfiava il ventre giallastro, disidratato come una vela in panne… e non sai se respiro o sospiro è il mantice… - e la marea che starnazza sulle lamie e deforma i volti - e i fari che non sanno rallegrare le grida dei naufraghi - e i cipressi che crollano come guerrieri lontani dalle proprie ombre e, in ginocchio, sono gelosi dello sguardo di putti alati… un cristo invano si sbroda in lagrime tra le luminarie e l’incenso per l’estrema unzione, l’apocalissi dietro il vicolo s’accende una lanterna rossa, e le ombre danzano, danzano e sono maschere. Già il fardo dai binari è sulle spalle e ricolma fino a luna piena la pancia di legno del bastimento. La soglia come una lingua lavica dettava frasi latine, il vento rabbioso latrava gelido sulle vetrate variopinte, ma dalla latrina alla tomba il passo è ovale e lieve come neve e i singhiozzi, in una chiesetta sconsacrata, fra le tue mani come una culla una madonna fosforescente ho deposto. Il volto era incurvato sulla chiavica di mostri tufacei e angelici che la finzione sapevano più della tragedia in atto sul nero legno e aveva ragione, John, quando la fisica era la meta d’ogni poeta e che il piacere delle ossa liberate dall’anima è imitare la carne primigenia e, sfatare sul palco ogni inganno, sotto uno stendardo bianco al vento, era un viaggio senza ritorno verso Citera. Le maschere non si somigliano più, gridò. E strizzava a sangue il rosario e l’occhiolino coi suoi denti untuosi la Morte murata che non conosce amore gravido del Nulla. E la Dama del boia ingravida e carezza e finge il pianto dei gradini in corsa, e a scatti sorride l’umida dentiera per una rotta serratura che s’inchiavarda, come una marionetta sulla scena. Ed era sublime e dura quella, come Marcela nel suo tango, ma l’ombra ricorda al corpo un tip tap sotto i lampioni. E non era eterna quella Sorte infantile che cantai, e, quando visitai intestini e aruspici dei sembianti in sonno, luminosi vampiri mi restituirono gli occhi, come se sulla scena i gesti e le parole dalla fossa dettassero mistiche visioni. Quale sogno in vita è reale se la neve è davvero lieve e ovale nel debutto? E il montaggio degli arti nella tarlata rovina delle quinte è caduto giù e pure la voce degli avanzi reclama una vittoria di macerie e trucioli … un solo passo avanti per l’occhio di bue, e lo sfacelo è dei trionfi dei legnosi suoni e delle gesta epicuree. … e si risveglia e rifiorisce dalle ceneri del Nulla una forma vaga di risurrezione… umana mai sapremo, ma al nuovo giorno almeno ci ridestiamo da defunti. E ci ridestiamo dalle ossa senza speranza… una fatica del sangue l’erezione… aveva ragione Thomas: nella Morte non c’è vita sessuale! Nelle nerastre pozze di via dei Coronari miravo le fameliche zoccole che vomitavano frasi latine, ancora! – e celebrando i fasti dei ceri danzavano un bughi bughi… e ancheggiando squittivano a squarciagola pure gli angeli e i corali dalle strepitose finestre: Citera, Citera Citera! “Avevate ragione, Lazzaro, si risorge solo per finta, altrimenti è terribile il viaggio verso l’ignoto! Non esiste ritorno! Lazzaro, Io non ritornerò! Lazzaro, non ti arrendere, rientra, perDio! Avevate ragione, Lazzaro, si risorge solo per finta, non vi dirò nulla!”. E dalle canne degli organi velati sgorgavano note scapigliate, e luride variopinte lucciole, e sensuale era il frastuono di un tango che rauco modulava le parole e gli occhi assordanti di Carlos Gavito, il tanguero che balla il silenzio e la morte. Divina e secolare Carmencita, il tango è un poesia triste che si balla. … e non ti fare sedurre: non esiste ritorno! Lazzaro, la vita che tu cerchi non la potrai trovare altrove. E la marina dove Annita mi portava vestito bene di domenica dal lontano suburbio cappuccino lungo tutta l’Appia etilica e fetida… e Lucio era con noi… e coi trucioli ancora in tasca discuteva coi portuali gravidi d’oriente e per i fardi gonfio era il ventre dei bastimenti. La camera è l’esistenza ardente che con noi la sorte si divide. * Antonio Sagredo Roma, 20-22 marzo 2021
Il sasso nello stagno di AnGre ringrazia l’Autore per aver voluto condividere qui questi versi scritti in memoria della madre scomparsa negli scorsi giorni.