Pisanello (Pisa, ante 1395 – Napoli, 1455 circa), San Giorgio e la principessa, affresco, 1433-1438 circa.
Antonio di Puccio Pisano, meglio noto come Pisanello (Pisa, ante 1395 – Napoli, 1455 circa), realizzò San Giorgio e la principessa con la tecnica dell’affresco tra il 1433-1438.
Di dimensioni intere pari a cm 223 x 620, l’affresco, che doveva far parte di un ciclo oramai andato perduto, è stato riportato su tela ed ubicato, insieme alla corrispettiva sinopia, nella cappella Giusti della chiesa di Sant’Anastasia, nel centro storico di Verona. Il Pisanello realizzò questa famosa ed importantissima opera sulla parete esterna di un’altra cappella, situata nel transetto destro della stessa chiesa, assegnata alla famiglia Pellegrini e descritta con vera enfasi ne “Le Vite” dal Vasari (1568): “Et per dirlo in una parola non si può senza infinita meraviglia, anzi stupore contemplare questa opera fatta con disegno con grazia, e con giudizio straordinario”.
Dunque, l’affresco di San Giorgio e la principessa è la sola opera superstite dell’assai più vasto impianto pittorico decorante la cappella Pellegrini, come si evince dalla dettagliata descrizione vasariana. A complicare le cose, intorno alla fine dell’Ottocento, a causa d’una grande infiltrazione d’acqua piovana, anche il dipinto del Pisanello subì gravi danneggiamenti (soprattutto la zona del drago in agguato), tanto che si decise di staccarlo dalla parete e di trasferirlo su telaio per essere sottoposto a restauro.
L’opera costituisce una delle espressioni più alte dell’arte di Pisanello e ha come soggetto San Giorgio, mentre, dopo aver riverito la principessa, si appresta a risalire a cavallo per correre a sconfiggere il drago. Il santo appare splendidamente rappresentato nei suoi preziosi abiti cavallereschi, con un piede già nella staffa e la mano sinistra nell’atto di reggersi alla sella prima di spiccare il balzo per salire a cavallo. È da notare come la meticolosa e quasi ossessiva ricerca del particolare contribuisca a conferire alla scena una dimensione irreale e senza tempo. La tetra presenza dei due impiccati sullo sfondo finisce per perdere ogni drammaticità, come se si trattasse di pupazzi anziché uomini (nelle rappresentazioni non solo pittoriche, ma soprattutto nella vita reale di quei tempi, spesso facevano parte del paesaggio figure e visioni macabre lasciate in vista, come monito per la popolazione).
Il fiabesco svettare delle architetture tardo-gotiche che appaiono all’orizzonte, contro un cielo blu intenso, perde qualsiasi intento realistico e si trasforma in un gioco di linee e colori; lo stesso avviene anche con gli animali, la cui meticolosa realizzazione sembra farli emergere da un trattato di zoologia. Nessuno, prima di Puccio Pisano era giunto ad un’analisi del mondo naturale così accurata, come testimonia la sua vastissima produzione grafica. Famosi sono, infatti, i suoi studi-disegno dal vero di personaggi e animali, tra i migliori dell’epoca, superati solo sul finire del XV secolo dall’occhio indagatore di Leonardo da Vinci e successivamente di Albrecht Dürer.
L’elegante profilo del volto della principessa si ricollega con l’attività medaglista che Pisanello svolgeva parallelamente a quella di pittore, derivante da un vivace disegno dal vero realizzato a penna e inchiostro su una traccia preparata a matita; ciò che più colpisce è la fluidità della linea di contorno, che dalla fronte giunge al naso, descrivendo morbide curve che richiamano la lettera “S”. Questa linea non è realistica ma conferisce al profilo un’espressione intensa e pensosa di serenità, mentre la complicata acconciatura, che sembra ispirarsi alla moda delle ricche dame del tempo, al contempo si trasforma in un irreale turbante con funzione decorativa.
È in questo continuo contraddittorio rapporto, tra osservazione minuziosa degli elementi singoli e fiabesca irrealtà delle visioni d’insieme, che si concretizza l’arte di Pisanello.
Masaccio, Madonna col bambino (Madonna Casini, Madonna del solletico)
1426 – 1427, tempera su tavola, cm 24,5 x 18,2 – Galleria degli Uffizi, Firenze
*
Questa delicata e preziosa Madonna, che Roberto Longhi nel 1950 attribuisce a Masaccio e definisce poeticamente “del solletico”, era stata chiusa per secoli in collezioni private. Saccheggiata dai nazisti, recuperata nel 1947 da Rodolfo Siviero, rubata nel 1971 e ritrovata nel1973, fu assegnata nel 1988 dallo Stato a Firenze. Ordinata dal cardinale di origine senese Antonio Casini (1380 circa-1439), il cui stemma (uno scudo con sei stelle rosse in campo giallo), sormontato dal cappello cardinalizio, compare sul verso della tavola, è databile nel 1426-1427, dopo la nomina di Casini a cardinale il 24 maggio 1426. Cronologia che calza bene con le affinità stilistiche con altre opere dello stesso autore, quali il Desco da parto e il Polittico di Pisa.
Il volto della Madonna, più sottile rispetto a quello matronale della Madonna pisana, anche per la grande differenza di formato, ha lineamenti ed espressione simili. Il riferimento a Masaccio non trova tutti concordi, ma è molto probabile non solo per la tipologia del Bambino, ma anche per la vivacità e la spregiudicatezza del gesto della Madonna, che accarezza e fa il solletico – abbozzato come benedizione si tramuta in un cenno giocoso – al neonato in fasce, che a sua volta allontana la mano della madre. Un’umanità tipica di Masaccio e, naturalmente, della sua bottega, che lavorava sui suoi disegni. Un’ aria delicata, quasi tardogotica, avvolge le due figure, stagliate su prezioso fondo dorato, le fasce eleganti, il carnicino di seta trasparente, su cui spicca una collanina messa di traverso (particolare arguto), la bordatura preziosa del manto della Madonna.
È evidente che in questa scelta di fine decorazione gioca un ruolo fondamentale la committenza del cardinale. Vescovo di Siena dal 1409 a11426, elevato alla porpora cardinalizia da Martino V, Antonio Casini fu un sottile giurista, in contatto con i maggiori umanisti, ricordato nelle Vite di Vespasiano da Bisticci.
[Maurizia Tazartes in Masaccio, I grandi maestri dell’arte, Skira]
Andrea Mantegna, Giuditta con la testa di Oloferne
disegno, Gabinetto dei disegni e delle stampe degli Uffizi (Penna, acquarellature marroni, biacca su carta bianca molto scurita. cm 39 x 25,8)
*
All’epoca era considerato un grandissimo. Poi passò in una sorta di oblio, quando la core per la quale lavorò assiduamente, quella dei Gonzaga di Mantova, fu relegata in un angolino della storia tra il 1630 e il 1707. Mantegna era nato figlio di falegname alle porte di Padova e aveva intrapreso la carriera di pittore quando questo mestiere era ancora considerato solo un mestiere. Dalle Vite di Vasari, pubblicate cent’anni dopo l’esecuzione delle opere maggiori, si apprende che la bottega padovana di Francesco Squarcione fu una sorta di laboratorio per una intera generazione di artigiani, che stavano diventando protagonisti della pittura del primo Rinascimento. In quel luogo ci si esercitava in «cose di gesso formate da statue antiche, et in quadri di pitture, che in tela si fece venire di diversi luoghi, e particolarmente di Toscana e di Roma». La bottega dello Squarcione, che lo adotta come figlio solo per pagarlo meno e con il quale finirà in causa, è una centrale artigianale che segue da vicino le passioni umanistiche e intellettuali dell’epoca. Ma è pure il luogo dove si applicano tutte le ricette recenti della prospettiva inventate nella Firenze del Brunelleschi. per Mantegna, quindi, l’impianto compositivo dei dipinti deve d’ora in poi guardare all’infinito e l’infinito diventa, così, il paesaggio esterno, la luce.
Il culmine del percorso pittorico avverrà nella decorazione della Camera degli Sposi a Mantova (leggi quie qui in questo blog), mentre la tensione prospettica raggiungerà il massimo della sua forza iconografica nella composizione del Cristo morto che dipinge dieci anni dopo (leggi qui). Quest’attenzione prospettica di Mantegna non è solo dovuta alla visione scientifica che si sviluppa nei suoi anni,ma anche alla potente corrente estetica, che vede nella copia dell’antico il passo necessario per la scoperta della plasticità, quella copia che genera i piccoli capolavori delle grisailles a riproduzione dei bassorilievi del passato (il grisaille, grisaglia in italiano, o monocromo indica varie tecniche nella pittura; la parola è un prestito dal francese grisaille, che a sua volta proviene da gris -“grigio”- inteso come metodo per rendere le sfumature di grigio. In generale indica una decorazione o una pittura fatta a monocromo).
Giuditta, nella Bibbia, è l’eroina del libro che porta il suo nome; il libro, conservato in greco, è escluso dal canone ebraico, mentre è accettato da quello cattolico. Giovane e ricca vedova di Betulia, Giuditta, quando ormai la città, giunta allo stremo delle sue forze, sta per arrendersi a Oloferne, generale di Nabucodonosor, che l’assedia da tempo, passa – accompagnata da una schiava e splendidamente abbigliata – nel campo nemico, dove è ben accolta dallo stesso Oloferne colpito dalla sua bellezza. Ma, una notte, mentre il generale giace nella sua tenda oppresso dal vino, Giuditta gli taglia la testa e la porta, involta in un panno, nella città. I cittadini sono tanto rincuorati che fanno una sortita, sconfiggendo gli Assiri sconvolti dalla morte del generale. È tuttora discusso il fondamento storico di tale racconto, il cui testo originale (ebraico e aramaico) è andato perduto e del quale esistono altre recensioni più tarde; anche gli esegeti cattolici non nascondono le difficoltà molto notevoli di conciliarne i dati con la storia del periodo, ma il tempo ha conferito interesse a questa storia fuori dall’ordinario, nella quale è una donna a salvare il suo popolo con carattere e decisioni tragiche da sempre appannaggio degli uomini; storia che ha da sempre appassionato gli artisti, attraversando senza soluzioni di continuità tutte le grandi epoche pittoriche e non solo.
Nei lavori di Andrea Mantegna Giuditta è rappresentata con forme aggraziate; il peso del corpo è scaricato su una sola gamba, secondo quel che, in arte, è definito “chiasmo”, (ovvero una tecnica compositiva, che consiste nella disposizione della figura umana secondo un particolare ritmo che ricorda l’andamento della lettera χ), che conferisce alla figura un andamento sinuoso sottolineato dal panneggio degli abiti. Oloferne è del tutto assente dalla scena tranne nelle versioni in cui la donna esce dalla tenda con la testa in mano.
Oltre al disegno conservato presso il Gabinetto dei disegni e delle stampe degli Uffizi, con il titolo di “Giuditta” si rinviene, tra le opere dell’artista padovano, anche un dipinto tempera a colla e oro su tela di lino (65×31 cm) databile al 1495-1500 circa e conservato nel Montreal Museum of Fine Arts in Canada. L’opera fa parte di quella produzione di grisaglie che caratterizzò diverse opere del maestro mantovano negli ultimi anni dalla sua carriera, dal 1495 circa fino alla morte. Tali opere rivaleggiavano con la scultura ed erano molto apprezzate nell’ambiente della corte, anche per la scarsità di grandi scultori attivi a corte e la difficoltà di procurarsi il marmo, che doveva essere importato da territori vicini con un certo esborso economico. La tavola fa coppia con quella di Didone nello stesso museo, di misure pressoché identiche, e con due tavole alla National Gallery di Londra (Tuccia e Sofonisba), con le quali formavano il gruppo delle Donne esemplari dell’antichità. Citate tutte e quattro nell’inventario port mortem dei beni dell’ultimo duca di Mantova Carlo Federico Gonzaga nel 1542, passarono poi nelle collezioni del maresciallo Schulenburg, venendo citate in un inventario del 1738. Alcune incertezze nella ricostruzione storica sono date dalle misure che non combaciano, né con questa coppia né con quella di Montréal. Le due tavolette canadesi vennero battute a un’asta di Christie’s il 13 aprile 1775, quando vennero separate dalle altre due, entrando nelle raccolte londinesi di John Taylor, per essere vendute, in seguito, nel 1912. Dopo un paio di passaggi di proprietà vennero infine acquistate dal museo di Montréal. Sul retro della Giuditta esiste anche una scritta di collezione, visibile con riflettografia, che riporta And.a Mantegnia. P[inxit].
[tratto e adattato da I capolavori dell’arte a cura di Philippe Daverio – prima parte – , Enciclopedia Treccani on-line – storia di Giuditta – e da Wikipedia].
Andrea Mantegna, Giuditta con la testa di Oloferne
disegno, Gabinetto dei disegni e delle stampe degli Uffizi (Penna, acquarellature marroni, biacca su carta bianca molto scurita. cm 39 x 25,8)
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All’epoca era considerato un grandissimo. Poi passò in una sorta di oblio, quando la core per la quale lavorò assiduamente, quella dei Gonzaga di Mantova, fu relegata in un angolino della storia tra il 1630 e il 1707. Mantegna era nato figlio di falegname alle porte di Padova e aveva intrapreso la carriera di pittore quando questo mestiere era ancora considerato solo un mestiere. Dalle Vite di Vasari, pubblicate cent’anni dopo l’esecuzione delle opere maggiori, si apprende che la bottega padovana di Francesco Squarcione fu una sorta di laboratorio per una intera generazione di artigiani, che stavano diventando protagonisti della pittura del primo Rinascimento. In quel luogo ci si esercitava in «cose di gesso formate da statue antiche, et in quadri di pitture, che in tela si fece venire di diversi luoghi, e particolarmente di Toscana e di Roma». La bottega dello Squarcione, che lo adotta come figlio solo per pagarlo meno e con il quale finirà in causa, è una centrale artigianale che segue da vicino le passioni umanistiche e intellettuali dell’epoca. Ma è pure il luogo dove si applicano tutte le ricette recenti della prospettiva inventate nella Firenze del Brunelleschi. per Mantegna, quindi, l’impianto compositivo dei dipinti deve d’ora in poi guardare all’infinito e l’infinito diventa, così, il paesaggio esterno, la luce.
Il culmine del percorso pittorico avverrà nella decorazione della Camera degli Sposi a Mantova (leggi quie qui in questo blog), mentre la tensione prospettica raggiungerà il massimo della sua forza iconografica nella composizione del Cristo morto che dipinge dieci anni dopo (leggi qui). Quest’attenzione prospettica di Mantegna non è solo dovuta alla visione scientifica che si sviluppa nei suoi anni,ma anche alla potente corrente estetica, che vede nella copia dell’antico il passo necessario per la scoperta della plasticità, quella copia che genera i piccoli capolavori delle grisailles a riproduzione dei bassorilievi del passato (il grisaille, grisaglia in italiano, o monocromo indica varie tecniche nella pittura; la parola è un prestito dal francese grisaille, che a sua volta proviene da gris -“grigio”- inteso come metodo per rendere le sfumature di grigio. In generale indica una decorazione o una pittura fatta a monocromo).
Giuditta, nella Bibbia, è l’eroina del libro che porta il suo nome; il libro, conservato in greco, è escluso dal canone ebraico, mentre è accettato da quello cattolico. Giovane e ricca vedova di Betulia, Giuditta, quando ormai la città, giunta allo stremo delle sue forze, sta per arrendersi a Oloferne, generale di Nabucodonosor, che l’assedia da tempo, passa – accompagnata da una schiava e splendidamente abbigliata – nel campo nemico, dove è ben accolta dallo stesso Oloferne colpito dalla sua bellezza. Ma, una notte, mentre il generale giace nella sua tenda oppresso dal vino, Giuditta gli taglia la testa e la porta, involta in un panno, nella città. I cittadini sono tanto rincuorati che fanno una sortita, sconfiggendo gli Assiri sconvolti dalla morte del generale. È tuttora discusso il fondamento storico di tale racconto, il cui testo originale (ebraico e aramaico) è andato perduto e del quale esistono altre recensioni più tarde; anche gli esegeti cattolici non nascondono le difficoltà molto notevoli di conciliarne i dati con la storia del periodo, ma il tempo ha conferito interesse a questa storia fuori dall’ordinario, nella quale è una donna a salvare il suo popolo con carattere e decisioni tragiche da sempre appannaggio degli uomini; storia che ha da sempre appassionato gli artisti, attraversando senza soluzioni di continuità tutte le grandi epoche pittoriche e non solo.
Nei lavori di Andrea Mantegna Giuditta è rappresentata con forme aggraziate; il peso del corpo è scaricato su una sola gamba, secondo quel che, in arte, è definito “chiasmo”, (ovvero una tecnica compositiva, che consiste nella disposizione della figura umana secondo un particolare ritmo che ricorda l’andamento della lettera χ), che conferisce alla figura un andamento sinuoso sottolineato dal panneggio degli abiti. Oloferne è del tutto assente dalla scena tranne nelle versioni in cui la donna esce dalla tenda con la testa in mano.
Oltre al disegno conservato presso il Gabinetto dei disegni e delle stampe degli Uffizi, con il titolo di “Giuditta” si rinviene, tra le opere dell’artista padovano, anche un dipinto tempera a colla e oro su tela di lino (65×31 cm) databile al 1495-1500 circa e conservato nel Montreal Museum of Fine Arts in Canada. L’opera fa parte di quella produzione di grisaglie che caratterizzò diverse opere del maestro mantovano negli ultimi anni dalla sua carriera, dal 1495 circa fino alla morte. Tali opere rivaleggiavano con la scultura ed erano molto apprezzate nell’ambiente della corte, anche per la scarsità di grandi scultori attivi a corte e la difficoltà di procurarsi il marmo, che doveva essere importato da territori vicini con un certo esborso economico. La tavola fa coppia con quella di Didone nello stesso museo, di misure pressoché identiche, e con due tavole alla National Gallery di Londra (Tuccia e Sofonisba), con le quali formavano il gruppo delle Donne esemplari dell’antichità. Citate tutte e quattro nell’inventario port mortem dei beni dell’ultimo duca di Mantova Carlo Federico Gonzaga nel 1542, passarono poi nelle collezioni del maresciallo Schulenburg, venendo citate in un inventario del 1738. Alcune incertezze nella ricostruzione storica sono date dalle misure che non combaciano, né con questa coppia né con quella di Montréal. Le due tavolette canadesi vennero battute a un’asta di Christie’s il 13 aprile 1775, quando vennero separate dalle altre due, entrando nelle raccolte londinesi di John Taylor, per essere vendute, in seguito, nel 1912. Dopo un paio di passaggi di proprietà vennero infine acquistate dal museo di Montréal. Sul retro della Giuditta esiste anche una scritta di collezione, visibile con riflettografia, che riporta And.a Mantegnia. P[inxit].
[tratto e adattato da I capolavori dell’arte a cura di Philippe Daverio – prima parte – , Enciclopedia Treccani on-line – storia di Giuditta – e da Wikipedia].
Masaccio, Madonna col bambino (Madonna Casini, Madonna del solletico)
1426 – 1427, tempera su tavola, cm 24,5 x 18,2 – Galleria degli Uffizi, Firenze
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Questa delicata e preziosa Madonna, che Roberto Longhi nel 1950 attribuisce a Masaccio e definisce poeticamente “del solletico”, era stata chiusa per secoli in collezioni private. Saccheggiata dai nazisti, recuperata nel 1947 da Rodolfo Siviero, rubata nel 1971 e ritrovata nel1973, fu assegnata nel 1988 dallo Stato a Firenze. Ordinata dal cardinale di origine senese Antonio Casini (1380 circa-1439), il cui stemma (uno scudo con sei stelle rosse in campo giallo), sormontato dal cappello cardinalizio, compare sul verso della tavola, è databile nel 1426-1427, dopo la nomina di Casini a cardinale il 24 maggio 1426. Cronologia che calza bene con le affinità stilistiche con altre opere dello stesso autore, quali il Desco da parto e il Polittico di Pisa.
Il volto della Madonna, più sottile rispetto a quello matronale della Madonna pisana, anche per la grande differenza di formato, ha lineamenti ed espressione simili. Il riferimento a Masaccio non trova tutti concordi, ma è molto probabile non solo per la tipologia del Bambino, ma anche per la vivacità e la spregiudicatezza del gesto della Madonna, che accarezza e fa il solletico – abbozzato come benedizione si tramuta in un cenno giocoso – al neonato in fasce, che a sua volta allontana la mano della madre. Un’umanità tipica di Masaccio e, naturalmente, della sua bottega, che lavorava sui suoi disegni. Un’ aria delicata, quasi tardogotica, avvolge le due figure, stagliate su prezioso fondo dorato, le fasce eleganti, il carnicino di seta trasparente, su cui spicca una collanina messa di traverso (particolare arguto), la bordatura preziosa del manto della Madonna.
È evidente che in questa scelta di fine decorazione gioca un ruolo fondamentale la committenza del cardinale. Vescovo di Siena dal 1409 a11426, elevato alla porpora cardinalizia da Martino V, Antonio Casini fu un sottile giurista, in contatto con i maggiori umanisti, ricordato nelle Vite di Vespasiano da Bisticci.
[Maurizia Tazartes in Masaccio, I grandi maestri dell’arte, Skira]
Piero della Francesca, Battaglia di ponte Milvio, 1452-1466 (nell’immagine: Vittoria di Costantino su Massenzio a ponte Milvio, dalla Leggenda della Vera Croce)
affresco, dimensioni totali, cm 322 x 764, Arezzo, San Francesco
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Sul registro inferiore della parete destra dell’affresco – eseguito nella Cappella Bacci, all’interno della Chiesa di San Francesco ad Arezzo, nell’ambito dl ciclo della Leggenda della Vera Croce – Piero di Benedetto de’ Franceschi, noto come Piero della Francesca (Borgo Sansepolcro, 12 settembre 1416/1417 circa – 12 ottobre 1492)rievoca la Battaglia di Ponte Milvio, dove Costantino, nel segno e con la protezione della Croce, sconfigge Massenzio. Guardando l’opera, sulla sinistra si nota l’esercito romano, contraddistinto dall’aquila imperiale sulla bandiera gialla, che avanza deciso contro quello in fuga di Massenzio. Siamo nel 312 dopo Cristo e l’anno successivo Costantino emanerà il famoso editto che porta il suo nome, con il quale dichiarerà il Cristianesimo religione libera, mettendo fine alle persecuzioni contro di esso.
Lo scontro tra Costantino e Massenzio, avvenuto in prossimità del celebre ponte romano, è immaginato come un inseguimento di truppe miracolosamente ordinato, che dà luogo ad una sontuosa cavalcata. Questo senso di calma e di misura, che caratterizza persino lo scontro militare, è insito nella natura stessa della pittura pierfrancescana, nella quale le maglie ferree della prospettiva bloccano ogni forma di dinamismo e di moto impetuoso, riportando ogni evento ad una calma solenne.
In questo murale di Piero è diffusa la limpida e serena luce di una giornata primaverile, con il fiume che discende lento tra i casolari appenninici; nel volto di profilo di Costantino (al centro dell’immagine d’apertura) che tiene in mano la croce, capace di vincere il nemico senza colpo ferire, è ben riconoscibile l’effige dell’imperatore d’Oriente Giovanni VIII Paleologo, che nelle giornate in cui Piero dipingeva ad Arezzo vedeva la propria antica capitale, Costantinopoli, occupata dalle truppe di Maometto II.
Tra le personalità più emblematiche del Rinascimento italiano, Piero della Francesca fu un esponente della seconda generazione di pittori-umanisti. Le sue opere sono mirabilmente sospese tra arte, geometria e complesso sistema di lettura a più livelli, dove confluiscono complesse questioni teologiche, filosofiche e d’attualità. Riuscì ad armonizzare, nella vita quanto nelle opere, i valori intellettuali e spirituali del suo tempo, condensando molteplici influssi e mediando tra tradizione e modernità, tra religiosità e nuove affermazioni dell’Umanesimo, tra razionalità ed estetica.
La sua opera fece da cerniera tra la prospettiva geometrica brunelleschiana, la plasticità di Masaccio, la luce altissima che schiarisce le ombre e intride i colori di Beato Angelico e Domenico Veneziano, la descrizione precisa e attenta alla realtà dei fiamminghi. Altre caratteristiche fondamentali della sua espressione sono la semplificazione geometrica sia delle composizioni che dei volumi, l’immobilità cerimoniale dei gesti, l’attenzione alla verità umana. La sua produzione artistica, caratterizzata dall’estremo rigore della ricerca prospettica, dalla plastica monumentalità delle figure, dall’uso in funzione espressiva della luce, influenzò nel profondo la pittura rinascimentale dell’Italia settentrionale e, in particolare, le scuole ferrarese e veneta.
fonti varie dal web e da I capolavori dell’arte ed.Corriere della Sera
Piero della Francesca, presunto autoritratto dalla Leggenda della vera Croce (elab.dig. AnGre)
Approfondimento: Fondazione | Piero della Francesca – leggi qui
La Cappella Bessarione sorge presso la Basilica dei SS.Apostoli in Roma. Casualmente rinvenuta nel 1959, a seguito di alcuni lavori di ristrutturazione dell’attiguo Palazzo Colonna, quando ebbi modo di vederla per la prima volta, circa tre anni fa, in una di quelle visite culturali a cui spesso partecipo, ne rimasi profondamente affascinato dalla bellezza e dai rimandi storici degli affreschi, comunque rimaneggiati, che si svelavano da quel luogo rimasto nascosto e perduto dalle successive costruzioni (altare di S. Antonio (1650), che Carlo Rainaldi addossò all’abside della cappella stessa, e costruzione dell’attuale Cappella Odescalchi (1719-23) di Ludovico Rusconi Sassi).
La cappella funebre del Cardinal Bessarione, dedicata alla Madonna e ai santi Michele, Giovanni Battista ed Eugenia, rappresenta uno dei luoghi più importanti per la storia della pittura del ‘400 a Roma. Gli affreschi furono eseguiti tra il 1464 e il 1468 da Antoniazzo Romano (Antonio Aquili) con la collaborazione di Melozzo da Forlì e realizzati per l’illustre umanista e cardinale da cui prende il nome la cappella stessa. Dalle descrizioni antiche sappiamo che il ciclo pittorico, cominciando dal basso, doveva comprendere le storie di Giovanni Battista (oggi perdute) e dell’arcangelo Michele (due, visibili), per culminare in alto con la presentazione dell’uomo a Cristo trionfatore circondato dalle nove schiere angeliche (solo in parte conservate). A tale riguardo, si fa notare che nella foto d’apertura, in alto, al centro, è possibile apprezzare la parte rimanente proprio del manto del Cristo.
Particolarmente importante per il valore simbolico, storico e teologico è il grande affresco centrale dedicato a due celebri episodi legati alle apparizioni dell’Arcangelo Michele in due importanti luoghi del culto micaelico: a sinistra, è rappresentata l’apparizione dell’Arcangelo nelle sembianze di un toro presso la città di Siponto, nel Gargano; si riconosce la città con le sue mura e il paesaggio montuoso con la grotta di Monte Sant’Angelo sul Gargano dove, all’epoca di papa Gelasio I (V secolo), sarebbe apparso l’Arcangelo nelle sembianza di un toro, che miracolosamente respinse le frecce scagliate dagli arcieri e questa scena la si attribuisce ad Antoniazzo con l’intervento di Melozzo per la figura del toro e dell’arciere in abito viola sulla destra della composizione. A destra, invece, è affrescato il sogno di S. Auberto a Mont Saint Michel, nel golfo di Saint Malo in Bretagna.
Quella di destra è una scena storica di più complessa lettura. La sottostante didascalia APPARITI O EIUSDEM IN MONTE TUMBA permette di ricondurre la pittura alla leggenda francese di S. Michele e alla sua apparizione in sogno a S. Auberto, vescovo di Avranches, rappresentato benedicente in sontuosi paramenti sacri al centro di una processione di dignitari. Aprono la processione, raffigurati in primo piano ed attribuiti alla mano di Melozzo da Forli, due prelati a capo scoperto e di spalle, vestiti con piviali d’oro arabescati, mentre sulla destra, si osservano due gruppi di sei frati francescani e cinque monaci basiliani orientali in abito nero. Sullo sfondo, l’insenatura marina con tre imbarcazioni; sulla destra, una collinetta, dall’alto della quale un toro legato ad un albero, che simboleggia lo stesso Arcangelo Michele, assiste alla scena, esortando gli astanti a fondare il monastero. Questa scena viene collocata sulla spiaggia di Mont Saint Michel per la presenza delle conchiglie visibili sulla spiaggia stessa, raggiungibile dalla costa a piedi solo durante la bassa marea.
Ultimamente ho trovato un rimando alla storia narrata da questi affreschi, leggendo il libro “L’enigma di Piero” di Silvia Ronchey, grazie al quale, pur nell’adattamento narrativo, ho ricollegato il momento storico a questi affreschi. La scrittrice, analizzando l’opera “La flagellazione” di Piero della Francesca, svela (dalla quarta di copertina): la teoria seducente che emerge da questa lettura, il genio politico dell’ultimo grande bizantino, Bessarione, rimanda a quell’11 settembre immensamente più devastante, sigillo dello scontro di civiltà fra cristianesimo e islam, che fu la caduta di Costantinopoli in mano ai turchi nel 1453. In questo contesto, la Flagellazione di Piero rappresenta il manifesto politico di un progetto maturato nell’Italia della metà del Quattrocento, l’estremo tentativo di salvare la culla della nostra civiltà, Bisanzio, garantendo la sopravvivenza in Occidente …mediante un’ultima crociata mai realizzata! (ndr).
[testo e fotografie di Giorgio Chiantini]
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Approfondimento tratto sito dedicato alla Cappella Bessarione in Roma.
Nel registro superiore è riapparso dopo il restauro una parte delle nove schiere angeliche, che circondavano la figura del Cristo trionfante, di cui non resta, purtroppo, nulla. Anche il coro degli angeli, ispirato non solo teologicamente alla tradizione medievale, viene attribuito ad Antoniazzo Romano e bottega in collaborazione con Melozzo da Forli. In alto si conserva un frammento superstite del manto di Cristo eseguito dallo stesso Antoniazzo e sebbene l’incarico risulti affidato a quest’ultimo, è indubbia la partecipazione ai lavori della sua bottega. Nell’insieme, il ciclo risulta artisticamente composito e la mano del maestro può chiaramente individuarsi solo nei personaggi posti in primo piano nella scena di destra. In queste opere Antoniazzo si rivela pittore versatile, influenzato nella perfetta sintesi di luce, forma e colore dal grande Piero della Francesca senza esasperarne la ricerca di prospettiva.
Da notare lo scarto qualitativo e le differenze di esecuzione tra le due scene e il coro sovrastante: si passa dai magnifici ritratti della scena di destra, riconducibili alla cultura di Piero della Francesca e Benozzo Gozzoli, ad una mano più lineare e dinamica nella scena di sinistra, ai fondi di paesaggio dallo stile semplice ed ingenuo, ma ricco di suggestione ed infine lo stile, ancora influenzato dal gotico internazionale, di alcuni angeli della calotta (quelli di profilo e con la chioma a riccioli).
La scena sembra rimandare al tentativo politico perseguito in quegli anni da Bessarione in accordo con papa Pio II Piccolomini, di coinvolgere Luigi Xl, re di Francia e all’epoca monarca dello stato più ricco e militarmente potente, in un’ultima crociata, che di fatto però non fu realizzata, per liberare Costantinopoli caduta in mano ottomana nel 1453 e per riunire in tal modo la chiesa latina e greca (rappresentate nella loro unità sull’affresco dalla presenza dei basiliani e dei francescani). Nella speranza di ottenerne l’appoggio, significativamente si attribuiscono al vescovo S. Auberto le sembianze del monarca francese. Di fatto, solo quest’ultimo per il dotto cardinale era in grado dì poter difendere la cristianità e liberare il toro, ossia S. Michele, rappresentato legato a causa dell’immobilismo della Francia. Tra il corteo dei partecipanti alla processione è possibile riconoscere due importanti personaggi dell’epoca di Bessarione: Francesco Maria Della Rovere, futuro papa Sisto IV, identificato nella figura alle spalle del santo vescovo, vestito dì rosso porpora, ed il ritratto del nipote dello stesso, Giuliano Della Rovere, futuro papa Giulio II, in abiti viola.
Fondamentale per la comprensione del ciclo pittorico è la personalità del suo committente, Giovanni Bessarione. Il monaco basiliano, nato a Trebisonda nell’odierna Turchia 1403 e morto a Ravenna nel 1472, viene a ragione considerata una delle figure chiave del Rinascimento italiano: illustre prelato e protagonista della scena politica contemporanea, fu soprattutto un importante umanista filo-platonico e uomo di cultura, la cui casa divenne presto un centro dell’umanesimo rinascimentale, luogo d’incontro tra letterati e studiosi. Famoso è il suo impegno per l’unificazione della chiesa orientale con la chiesa dì Roma (Concilio dì Ferrara-Firenze, 1438, e Concilio dì Mantova, 1459) e la sua incessante azione diplomatica, tesa alla creazione dì una lega offensiva per liberare Costantinopoli e difendere tutto l’oriente dall’espansionismo turco. Impresa, che non trovò tuttavia l’adesione dei Principi europei, i quali all’epoca consideravano troppo rischioso l’intervento, non più sostenuto dagli ideali religiosi delle prime crociate.L’ultima delusione in ordine dì tempo fu per Bessarione proprio il rifiuto da parte del potente monarca francese Luigi Xl di aderire all’impresa, alla realizzazione della quale aveva dedicato tempo ed energie. In questo senso, il ciclo pittorico della cappella funebre può considerarsi una sorta di testamento spirituale a cui il cardinale affida le personali convinzioni religiose e le speranze di un nuovo assetto religioso e politico del mondo contemporaneo.
a sinistra, affresco originale staccato e conservato nella basilica; a destra, copia ricollocata nel luogo originale all’interno della cappella. La qualità non elevata dell’immagine è dovuta all’assenza di flash, ce ne scusiamo.
Beato Angelico, Annunciazione, Museo Diocesano di Cortona (AR)
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L’artista – Giovanni da Fiesole, al secolo Guido di Pietro nacque a Vicchio nel Mugello in provincia di Firenze nel 1395; frate domenicano, detto il Beato Angelico o Fra’ Angelico, fu effettivamente beatificato da papa Giovanni Paolo II nel 1982, anche se, già dopo la sua morte, era stato chiamato Beato Angelico sia per l’emozionante religiosità di tutte le sue opere, che per le sue personali doti di umanità e umiltà. Lavorò a Roma, ad Orvieto, ma soprattutto a Firenze (leggi qui), dove, nel convento di San Marco, tuttora si possono visitare le celle dei confratelli da lui affrescate con motivi religiosi tratti dal Nuovo Testamento. Morì a Roma il 18 febbraio 1455.
L’opera –Entrando nel piccolo museo diocesano di Cortona, si ha immediatamente la sensazione di trovarsi dentro un piccolo forziere tra gemme preziose; qui sono conservati molti capolavori di artisti come Pietro Lorenzetti, Luca Signorelli, tra i più noti, insieme ai cartoni di una Via Crucis di Gino Severini oltre, appunto, all’opera del Beato Angelico, di cui tra questi righi voglio condividere l’emozione proprio del momento in cui mi sono trovato di fronte ad una delle più belle tavole della pittura italiana “L’Annunciazione del Beato Angelico” o cosiddetta “Annunciazione di Cortona”.
Una storia, quella dell’Annunciazione, tra le più rappresentate nella storia dell’arte, non solo italiana. Beato Angelico vi si cimentò più volte e la pala quadrata di Cortona, attualmente conservata nel locale Museo diocesano, è il primo grande capolavoro dell’artista toscano; databile con molta probabilità al 1430, è frutto di una commissione giunta al frate pittore da un mercante di tessuti.
Entrato nella sala che la ospita accanto ad altre bellissime opere, sono stato irresistibilmente attratto da questo dipinto. I colori brillanti e le zone dorate trattati con maestria introducono al plastico racconto in immagini catalizzando il visitatore e donandogli uno spettacolo unico. Sulla tavola dipinta si sta svolgendo un colloquio: «Ti saluto, o piena di grazia, il Signore è con te». Così l’arcangelo Gabriele si presenta a quella ragazza «umile e alta più che creatura», come la descrive Dante al termine del suo viaggio, nei versi del XXXIII canto del “Paradiso” e Maria risponde “sì” all’inatteso annuncio della sua maternità divina: «Ecce ancilla Domini, fiat mihi secundum verbum tuum» (Ecco la serva del Signore, mi accada secondo la tua parola).
Il sacro racconto è ambientato in un arioso loggiato rinascimentale, immerso in un giardino recintato, che simboleggia la purezza e la castità della Vergine Maria, che è seduta nel porticato; sullo sfondo si apre una parete con archi, sotto uno dei quali si trova l’apertura che dà accesso alle stanze interne, dove si vede il baldacchino appena scostato di un letto a cassone; il soffitto è coperto da uno squisito cielo stellato, mentre il pavimento è di marmo. Maria ascolta e risponde all’Arcangelo, provvidenzialmente rovesciando con il suo obbediente assenso l’antica disobbedienza di Adamo ed Eva, la cui cacciata dall’Eden è raffigurata nell’immagine piccola in alto a sinistra. Il dialogo fra l’Arcangelo e Maria, iscritto sulla tavola in lettere d’oro, è simile a un fumetto, con le parole che fluiscono dalle bocche dei protagonisti, dove le lettere pronunciate dall’Arcangelo procedono da sinistra verso destra, mentre quelle di Maria procedono in modo innaturale capovolte e leggibili da destra verso sinistra.
Oltre che con le parole, l’Arcangelo si esprime anche con gesti altamente eloquenti: con la destra indica la Vergine, fissandola, e con la sinistra indica il cielo e la colomba che raffigura lo Spirito Santo, intendendo il mittente del messaggio che reca; è vestito con una straordinaria veste rosa decorata da numerosi ricami d’oro e inserti di pietre preziose con tinte brillanti e delicate ed anche le ali sono trattate con finissime velature di luce e colore ad esaltarne il virtuoso brillio.
Maria è raffigurata come una ricca dama seduta su un trono coperto da un sontuoso drappo dorato, avvolta nel tradizionale mantello azzurro e con un libro appoggiato su un ginocchio, tipico richiamo alle Scritture; la Madonna, a differenza delle Annunciazioni trecentesche, non si ritrae, ma, anzi, sottomettendosi con un cenno di inchino e con le braccia incrociate al petto, accetta il suo incarico, come sottolinea anche la figura del profeta a monocromo che si sporge, con un cartiglio, dal medaglione sopra il capitello centrale, mentre sulla Vergine vola già la colomba dello Spirito Santo.
Nel giardino circostante si trovano una serie di piante disegnate con estrema precisione calligrafica, secondo l’attenzione ai dettagli minuti, tipica più del gotico internazionale che del Rinascimento. Tra le numerose specie si riconoscono alcune piante simboliche, come le rose bianche, simbolo di purezza, le rose rosse, simbolo della passione di Cristo, e la palma, albero che simboleggia la gloria dopo la morte e il martirio, poiché fiorisce solo dopo aver perso tutte le fronde ed essere, all’apparenza, morto.
Con la pala si conserva anche la predella originale (foto qui sopra), posta alla base del dipinto, in larga parte ritenuta autografa del maestro. Vi sono raffigurate cinque scene della vita della Vergine e in corrispondenza dei pilastrini laterali della cornice, due scene della Leggenda di san Domenico (la prima e l’ultima nella foto qui sopra). Le scene delle storie di Maria in sequenza da sinistra a destra illustrano: Lo sposalizio della Vergine, la Visitazione, l’adorazione dei Magi, la presentazione di Gesù al tempio e la morte della Vergine (clicca sull’immagine per ingrandire).
Il frate domenicano cercò di saldare i nuovi principi rinascimentali, come la costruzione prospettica e l’attenzione alla figura umana, con i vecchi valori medievali, quali la funzione didattica dell’arte e il valore mistico della luce che indicava, secondo le dottrine teologiche, la luce terrena come riflesso di quella divina, testimone dell’ordine e della razionalità del disegno di Dio, disegno che pervade interamente il racconto dell’opera.
Nota: Nel museo, al centro della stanza che accoglie il dipinto è posta una consolle interattiva consultabile dal visitatore; nella memoria di questo “tavolo da lavoro” sono immagazzinate le opere in mostra in modo che si possa accedere, in modo abbastanza intuitivo, alle immagini; queste possono essere ingrandite per osservare particolari che ad occhio nudo non potrebbero essere apprezzati, fornendo spiegazioni e curiosità molto esaustive delle opere. In una di queste ricerche ho appreso, ad esempio, come la parte dorata stesa sul dipinto mettesse in evidenza le pieghe degli abiti e come queste zone venissero trattate con uno strumento che evidenziava sulla superficie i ricami d’oro. (Giorgio Chiantini)
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– Immagini tratte dal sito Italian Ways, Le Vie della Bellezza –
Beato Angelico (1395 circa – 1455), Annunciazione (1442 – 1443)
affresco, cm 230 x 321 – Firenze, Museo di San Marco
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Questa Annunciazione, affrescata nel corridoio che conduce alle celle dei frati domenicani nel convento di San Marco a Firenze, è una delle sette versioni conosciute realizzate da Beato Angelico, appartenente lui stesso all’ordine mendicante dei frati predicatori.
A partire dal 1436 Cosimo de’ Medici aveva fatto costruire dall’architetto Michelozzo di Bartolomeo, allievo di Brunelleschi e collaboratore di Donatello, il convento di San Marco con la biblioteca. Il convento accolse nelle celle e nei luoghi di passaggio, corridoi e scale, gli affreschi di Beato Angelico, destinati ad accompagnare i religiosi nelle loro meditazioni. Il pittore riuscì, con la grazia del suo tratto e la raffinatezza cromatica della sua pittura, ad armonizzare i nuovi valori del Rinascimento con un profondo sentimento religioso, divenendo il perfetto interprete della spiritualità domenicana.
L’Annunciazione si trova in cima alla rampa di accesso al dormitorio, in modo da essere vista da chi entra. Secondo un antico cerimoniale che ricorda l’iconografia bizantina, Maria e l’arcangelo Gabriele si scambiano il saluto incrociando le braccia sul petto. Malgrado la solennità delle loro pose, la scena appare intima e familiare. Beato Angelico ambienta l’episodio sacro sotto un porticato assai simile ad un chiostro, così da dare ai frati l’impressione che il miracolo si stesse svolgendo dentro il convento. Il pittore separa l’evento divino dal giardino fiorito che lo circonda, chiuso da una palizzata in legno oltre il quale si apre un bosco; egli traccia il confine tra due simboli: la Visitazione della Vergine e il Paradiso perduto e il peccato originale dall’altro.
Il senso di profondità della scena è dato soprattutto dalla successione delle arcate, mentre l’attenta osservazione del mondo circostante che caratterizza l’arte di Beato Angelico traspare nel sottile realismo della struttura architettonica – con i tiranti di ferro che rafforzano le colonne -, che rende “tangibile” la vicinanza dello spettatore all’evento sacro. (clicca sulle immagini per ingrandirle)
[tratto da “I capolavori dell’arte – Beato Angelico, Annunciazione”, edizione speciale per il Corriere della Sera]
In questi giorni i media hanno dato risalto al nome di Puccio Pisano detto Pisanello a causa di una sua opera trafugata, insieme a molte altre, la sera del 19 novembre scorso dal museo di Castelvecchio a Verona; si tratta de La Madonna della quaglia, un’opera giovanile dell’artista, una variopinta rappresentazione della madre di Cristo su una tavola dorata, che ha colpito profondamente gli spettatori per la particolare bellezza, unita al grande rammarico di saperla perduta.
L’occasione, seppur infausta, ci ha portato a parlare di Pisanello, proponendo una delle poche opere sopravvissute e giunte a noi, considerata a giudizio unanime il suo capolavoro: San Giorgio e la principessa.
Antonio di Puccio Pisano, meglio noto come Pisanello (Pisa, ante 1395 – Napoli, 1455 circa), realizzò San Giorgio e la principessa con la tecnica dell’affresco tra il 1433-1438.
Di dimensioni intere pari a cm 223 x 620, l’affresco, che doveva far parte di un ciclo oramai andato perduto, è stato riportato su tela ed ubicato, insieme alla corrispettiva sinopia, nella cappella Giusti della chiesa di Sant’Anastasia, nel centro storico di Verona. Il Pisanello realizzò questa famosa ed importantissima opera sulla parete esterna di un’altra cappella, situata nel transetto destro della stessa chiesa, assegnata alla famiglia Pellegrini e descritta con vera enfasi ne “Le Vite” dal Vasari (1568): “Et per dirlo in una parola non si può senza infinita meraviglia, anzi stupore contemplare questa opera fatta con disegno con grazia, e con giudizio straordinario”.
Dunque, l’affresco di San Giorgio e la principessa è la sola opera superstite dell’assai più vasto impianto pittorico decorante la cappella Pellegrini, come si evince dalla dettagliata descrizione vasariana. A complicare le cose, intorno alla fine dell’Ottocento, a causa d’una grande infiltrazione d’acqua piovana, anche il dipinto del Pisanello subì gravi danneggiamenti (soprattutto la zona del drago in agguato), tanto che si decise di staccarlo dalla parete e di trasferirlo su telaio per essere sottoposto a restauro.
L’opera costituisce una delle espressioni più alte dell’arte di Pisanello e ha come soggetto San Giorgio, mentre, dopo aver riverito la principessa, si appresta a risalire a cavallo per correre a sconfiggere il drago. Il santo appare splendidamente rappresentato nei suoi preziosi abiti cavallereschi, con un piede già nella staffa e la mano sinistra nell’atto di reggersi alla sella prima di spiccare il balzo per salire a cavallo. È da notare come la meticolosa e quasi ossessiva ricerca del particolare contribuisca a conferire alla scena una dimensione irreale e senza tempo. La tetra presenza dei due impiccati sullo sfondo finisce per perdere ogni drammaticità, come se si trattasse di pupazzi anziché uomini (nelle rappresentazioni non solo pittoriche, ma soprattutto nella vita reale di quei tempi, spesso facevano parte del paesaggio figure e visioni macabre lasciate in vista, come monito per la popolazione).
Il fiabesco svettare delle architetture tardo-gotiche che appaiono all’orizzonte, contro un cielo blu intenso, perde qualsiasi intento realistico e si trasforma in un gioco di linee e colori; lo stesso avviene anche con gli animali, la cui meticolosa realizzazione sembra farli emergere da un trattato di zoologia. Nessuno, prima di Puccio Pisano era giunto ad un’analisi del mondo naturale così accurata, come testimonia la sua vastissima produzione grafica. Famosi sono, infatti, i suoi studi-disegno dal vero di personaggi e animali, tra i migliori dell’epoca, superati solo sul finire del XV secolo dall’occhio indagatore di Leonardo da Vinci e successivamente di Albrecht Dürer.
L’elegante profilo del volto della principessa si ricollega con l’attività medaglista che Pisanello svolgeva parallelamente a quella di pittore, derivante da un vivace disegno dal vero realizzato a penna e inchiostro su una traccia preparata a matita; ciò che più colpisce è la fluidità della linea di contorno, che dalla fronte giunge al naso, descrivendo morbide curve che richiamano la lettera “S”. Questa linea non è realistica ma conferisce al profilo un’espressione intensa e pensosa di serenità, mentre la complicata acconciatura, che sembra ispirarsi alla moda delle ricche dame del tempo, al contempo si trasforma in un irreale turbante con funzione decorativa.
È in questo continuo contraddittorio rapporto, tra osservazione minuziosa degli elementi singoli e fiabesca irrealtà delle visioni d’insieme, che si concretizza l’arte di Pisanello.