Rileggiamo l’opera: l’albero della vita – sassi d’arte

L’albero della vita, mosaico, 1118 c.a 

Roma, San Clemente, abside della basilica superiore

*

A Roma, nei pressi del Colosseo, lungo la strada che sale gradualmente verso San Giovanni in Laterano, si trova una basilica intitolata a San Clemente I Papa, terzo successore di Pietro al soglio pontificio. L’opera architettonica risalente al IV secolo fu ampiamente devastata dai Normanni nel 1084; nel 1110, durante una fase particolarmente acuta della lotta alle investiture, allorché le nomine vennero nuovamente proibite, Papa Pasquale II ordinò che la chiesa fosse ricostruita sulle rovine della chiesa interrate della basilica precedente. Come se si trattasse di esorcizzare l’antico potere della Chiesa contro l’Impero, per la ricca decorazione interna della basilica ci si orientò verso reperti formali tratti dalle chiese paleocristiane; anzi, nel nuovo impianto furono integrati programmaticamente parecchi arredi della costruzione più antica (soprattutto suppellettili che vi erano state aggiunte nel V e nel VI secolo).

Anche un’opera nuova, che oggi eclissa tutto il resto, evoca sotto un certo aspetto l’arte paleocristiana. Parliamo del mosaico dell’abside, la cui composizione è dominata dalla croce. Il suo carattere fenomenico, che si manifesta mediante un meraviglioso tono di azzurro, richiama alla mente l’arte dello smalto. Maria e San Giovanni stanno ai lati della croce, ai cui piedi sgorgano i quattro fiumi del paradiso, ai quali si abbeverano i cervi. Scorgiamo, poi, la fenice, l’uccello fantastico che simboleggia l’immortalità. Dodici colombe bianche, che incarnano gli apostoli, occupano le assi verticale e trasversale della croce. In una nicchia ricavata dietro l’emblema della passione, è inserito un vero frammento della croce insieme ad altre reliquie (il mosaico assume perciò la funzione di stauroteca, reliquiario destinato ai frammenti della croce di Cristo). Sopra la croce si apre la volta celeste stellata, da cui scende la mano benedicente di Dio.

La decorazione vegetale fatta di incantevoli tralci di acanto ritorti, che riempie il catino absidale, rimanda al paradiso e identifica la croce come “l’albero della vita”; al contempo, l’intreccio dei tralci intorno al legno della croce regala vita e nutrimento a uomini e donne di ogni professione, anzi a ogni creatura. Tra le figure spiccano quattro personaggi vestiti semplicemente di bianco e nero, che rappresentano i padri della Chiesa latina, i santi Agostino, Gerolamo, Gregorio e Ambrogio. Il fregio sottostante, con l’Agnello dell’Apocalisse, ricorda nuovamente la Gerusalemme celeste e, poiché sopra l’arco di trionfo sono raffigurati i santi Pietro, Clemente, Paolo e Lorenzo e i profeti Geremia e Isaia, la resa visiva della redenzione include in sé anche la storia della Chiesa. In sintesi, il programma iconografico esaltava idealmente il Papa (sostenendo le pretese universalistiche della chiesa cattolica), il quale, in carne e ossa, sedeva in trono giù nell’abside.

Non a caso un simile messaggio era espresso a livello stilistico mediante il richiamo a modelli antichi. Gli artefici dell’opera ricordavano bene l'”impressionismo” che caratterizzava i mosaici romani del V secolo, quelli in Santa Pudenziana o in Santa Maria Maggiore e, come allora, accentuarono l’incarnato o il panneggio con strisce di tessere da mosaico di marmo bianco, circondate da frammenti di vetro neri e grigi (secondo l’antica tecnica romana).

Nei mosaici dei luoghi antichi paleocristiani comparivano anche scene di genere; le ritroviamo in San Clemente, arricchite con uccelli acquatici come quelli raffigurati un tempo lungo il bordo della cupola di Santa Costanza, con foglie di vite e grappoli d’uva disseminati qua e là e putti sgambettanti.

(tratto e adattato dal volume Romanico, Taschen Ed. – immagini dal web)

 

Riproponiamo: Arazzo di Bayeux – sassi d’arte

1070 c.a. – otto strisce di lino allineate e ricamate (tessuto moiré), altezza tra cm 45,7 e cm 53,6 e larghezza m 68,38 – Bayeux, Centre Guillaume la Conquérant.

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L’arazzo di Bayeux, noto anche con il nome di arazzo della regina Matilde e anticamente come Telle du Conquest, è un tessuto ricamato (non un vero e proprio arazzo, a dispetto del nome corrente), realizzato in Normandia o in Inghilterra nella seconda metà dell’XI secolo, che descrive per immagini gli avvenimenti chiave relativi alla conquista normanna dell’Inghilterra del 1066, culminanti con la battaglia di Hastings e circa la metà delle immagini rappresenta fatti precedenti l’invasione stessa.
 
Benché apparentemente favorevole a Guglielmo il Conquistatore al punto da essere considerato talvolta un’opera di propaganda, in realtà la sua finalità è l’affermazione della legittimità del dominio normanno in Inghilterra. L’arazzo si prefigge come obiettivo di creare una convivenza pacifica tra normanni ed anglosassoni: ne è la prova il fatto che, a differenza di altre fonti (le “Gesta Guillelmi” e il “Carmen de Hastingae Proelio”), l’arazzo vede sotto una luce positiva Aroldo, elogiato per la sua vicinanza e intimità con il santo e re Edoardo, per il suo status aristocratico e signorile e per il suo valore, riconosciuto dallo stesso Guglielmo. Esso è l’espressione di settori del regno anglo-normanno, che cercano di elaborare il trauma conseguente all’invasione, di sanare i conflitti e di avviare un’integrazione tra normanni e inglesi.
 
L’arazzo di Bayeux ha un valore documentario inestimabile per la conoscenza della Normandia e dell’Inghilterra dell’XI secolo. Costituito da otto strisce di lino per una lunghezza totale di 68,30 metri, era conservato sino alla fine del XVIII secolo nella collezione della Cattedrale di Bayeux, mentre attualmente è esposto al pubblico nel Centre Guillaume-le-Conquérant sempre di Bayeux. Nel 2007 l’UNESCO lo ha inserito nel Registro della Memoria del mondo. Non è chiaro chi sia stato il committente né la località di manifattura dell’arazzo; recentemente si è affermata con una certa sicurezza l’ipotesi che l’arazzo sia stato prodotto negli anni 70-80 del secolo XI a Canterbury, nell’abbazia di Sant’Agostino, commissionato da Oddone. In una seconda tesi si nega, invece, la presenza di Oddone, lasciando l’ideazione dell’opera esclusivamente ai monaci dell’abbazia, ma la sua frequente e forte presenza sull’arazzo rimarrebbe tuttavia a prova del contrario. Due studiosi, tuttavia, relativizzano la capacità di condizionamento di Oddone, finanziatore, indicando i monaci quali creatori indipendenti dell’opera. Ciò potrebbe spiegare l’orientamento ideologico “neutrale” dell’arazzo e la sfiducia che l’arazzo mostra verso i nobili laici, incapaci di siglare una pace definitiva e duratura, e anche la presenza di numerosi personaggi minori, essendo questi appartenenti al circolo dei benefattori dell’abbazia di Sant’Agostino. 
 
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L’arazzo illustra l’invasione dell’Inghilterra da parte di Guglielmo, ma la realtà che veramente offre l’opera è, però, un’altra: una narrazione neutrale delle vicende, anche quella del giuramento, essendo lo scopo di questo la convivenza tra due diversi popoli. Ne è la dimostrazione la “parità” riservata ai morti di Hastings, essendo impossibile comprendere a quale schieramento i morti fanno parte. Il vero messaggio, oltre all’invito a superare assieme il trauma dell’invasione, è quello di critica e sfiducia verso il mondo laico-aristocratico, portatore di morte ed instabilità. In ogni caso, essendo opera di religiosi, i morti eguali tra loro possono rappresentare una generica critica verso la guerra, negatrice della più basilare pietà cristiana.
 
L’arazzo di Bayeux è una pregevole testimonianza dell’arte romanica ma, soprattutto, è uno dei documenti più grandiosi della storia europea. Un testo latino continuo e un fregio costituito da 58 quadri ricamati, i quali, con poche eccezioni, sono narrati nella corretta sequenza storica e ognuno dei protagonisti compare più volte nel corso dell’opera; malgrado gli anonimi artisti non abbiano cercato in alcun modo di raffigurarli con l’esattezza del ritratto, essi restano comunque identificabili. I ricami dell’arazzo non miravano solo alla rappresentazione epica di una battaglia epocale, non erano solo un manifesto politico, ma rispondevano anche alla necessità di soddisfare il bisogno di svago e intrattenimento. Le bordure poste sopra e sotto le scene della vicenda principale hanno in parte una funzione puramente decorativa, in parte raffigurano leggende, narrano episodi secondari o anticipano eventi futuri. Verso la fine del ciclo, nella scena in cui imperversa la battaglia di Hastings, la striscia lungo il margine inferiore raffigura schiere di arcieri, soldati morti e feriti e la deportazione di cadaveri, il tutto reso con un naturalismo che infrange le regole del tempo.
 
Il principio di una narrazione per immagini, che si svolge come un fregio, era conosciuto fin dall’antichità – un esempio è fornito dai bassorilievi della colonna di Traiano – e l’arazzo di Bayeux segue questo principio narrativo, tanto che l'”azione” che caratterizza le scene raffigurate ha fatto sì che esso venisse spesso paragonato ad un film o a una striscia a fumetti. Il colore non naturalistico eppure omogeneo, le figure spesso molto allungate, agili come insetti e dalla vivida gestualità, suscitano una intensa e potente impressione generale.
 
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La tesa drammaturgia dell’insieme fa dell’arazzo un capolavoro di fantasia creativa. La sua impostazione grafica, è articolata in azioni concatenate, che vedono in scena un totale di 126 personaggi diversi; ogni scena è corredata di un breve commento in lingua latina. L’arazzo risulta amputato della parte finale, di lunghezza stimata intorno ai 90–200 cm, nella quale probabilmente si raffigurava l’incoronazione di Guglielmo. Contiene la raffigurazione di 626 persone, 202 cavalli e muli, 505 animali di altro genere, 37 edifici, 49 alberi. In totale 1515 soggetti forniscono una miniera di informazioni visive sull’XI secolo: per la storia navale, ad esempio, si apprende dalla forma delle vele che le navi utilizzate erano di tipo vichingo; per l’oplologia (studio delle armi), si apprende, invece, che le armi usate da ambo le parti erano di origine scandinava; per l’araldica si registra il primo uso in battaglia di insegne allo scopo di distinguere amico da nemico. Non si è conservata nessun’altra opera d’arte figurativa medievale che offra una simile ricostruzione opulenta della storia più recente – le poche altre opere tessili di epoca romanica, per esempio l’arazzo di Gerona, sono dedicate e temi religiosi – e questo particolare induce a chiedersi a quale luogo questo arazzo di Bayeux fosse destinato: forse veniva appesa in cattedrale per una determinata festività o, secondo una ipotesi più convincente, si pensa che l’arazzo fosse utilizzato originariamente per ornare il salone di un palazzo vescovile, sia a Bayeux, sia in una qualsiasi altra località dell’Inghilterra meridionale.
 
(Tratto e adattato dal volume Romanico, di Norbert Wolf edito da Taschen e da Wikipedia; immagini dal web)

Arazzo di Bayeux – sassi d’arte

1070 c.a. – otto strisce di lino allineate e ricamate (tessuto moiré), altezza tra cm 45,7 e cm 53,6 e larghezza m 68,38 – Bayeux, Centre Guillaume la Conquérant.

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L’arazzo di Bayeux, noto anche con il nome di arazzo della regina Matilde e anticamente come Telle du Conquest, è un tessuto ricamato (non un vero e proprio arazzo, a dispetto del nome corrente), realizzato in Normandia o in Inghilterra nella seconda metà dell’XI secolo, che descrive per immagini gli avvenimenti chiave relativi alla conquista normanna dell’Inghilterra del 1066, culminanti con la battaglia di Hastings e circa la metà delle immagini rappresenta fatti precedenti l’invasione stessa.
 
Benché apparentemente favorevole a Guglielmo il Conquistatore al punto da essere considerato talvolta un’opera di propaganda, in realtà la sua finalità è l’affermazione della legittimità del dominio normanno in Inghilterra. L’arazzo si prefigge come obiettivo di creare una convivenza pacifica tra normanni ed anglosassoni: ne è la prova il fatto che, a differenza di altre fonti (le “Gesta Guillelmi” e il “Carmen de Hastingae Proelio”), l’arazzo vede sotto una luce positiva Aroldo, elogiato per la sua vicinanza e intimità con il santo e re Edoardo, per il suo status aristocratico e signorile e per il suo valore, riconosciuto dallo stesso Guglielmo. Esso è l’espressione di settori del regno anglo-normanno, che cercano di elaborare il trauma conseguente all’invasione, di sanare i conflitti e di avviare un’integrazione tra normanni e inglesi.
 
L’arazzo di Bayeux ha un valore documentario inestimabile per la conoscenza della Normandia e dell’Inghilterra dell’XI secolo. Costituito da otto strisce di lino per una lunghezza totale di 68,30 metri, era conservato sino alla fine del XVIII secolo nella collezione della Cattedrale di Bayeux, mentre attualmente è esposto al pubblico nel Centre Guillaume-le-Conquérant sempre di Bayeux. Nel 2007 l’UNESCO lo ha inserito nel Registro della Memoria del mondo. Non è chiaro chi sia stato il committente né la località di manifattura dell’arazzo; recentemente si è affermata con una certa sicurezza l’ipotesi che l’arazzo sia stato prodotto negli anni 70-80 del secolo XI a Canterbury, nell’abbazia di Sant’Agostino, commissionato da Oddone. In una seconda tesi si nega, invece, la presenza di Oddone, lasciando l’ideazione dell’opera esclusivamente ai monaci dell’abbazia, ma la sua frequente e forte presenza sull’arazzo rimarrebbe tuttavia a prova del contrario. Due studiosi, tuttavia, relativizzano la capacità di condizionamento di Oddone, finanziatore, indicando i monaci quali creatori indipendenti dell’opera. Ciò potrebbe spiegare l’orientamento ideologico “neutrale” dell’arazzo e la sfiducia che l’arazzo mostra verso i nobili laici, incapaci di siglare una pace definitiva e duratura, e anche la presenza di numerosi personaggi minori, essendo questi appartenenti al circolo dei benefattori dell’abbazia di Sant’Agostino. 
 
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L’arazzo illustra l’invasione dell’Inghilterra da parte di Guglielmo, ma la realtà che veramente offre l’opera è, però, un’altra: una narrazione neutrale delle vicende, anche quella del giuramento, essendo lo scopo di questo la convivenza tra due diversi popoli. Ne è la dimostrazione la “parità” riservata ai morti di Hastings, essendo impossibile comprendere a quale schieramento i morti fanno parte. Il vero messaggio, oltre all’invito a superare assieme il trauma dell’invasione, è quello di critica e sfiducia verso il mondo laico-aristocratico, portatore di morte ed instabilità. In ogni caso, essendo opera di religiosi, i morti eguali tra loro possono rappresentare una generica critica verso la guerra, negatrice della più basilare pietà cristiana.
 
L’arazzo di Bayeux è una pregevole testimonianza dell’arte romanica ma, soprattutto, è uno dei documenti più grandiosi della storia europea. Un testo latino continuo e un fregio costituito da 58 quadri ricamati, i quali, con poche eccezioni, sono narrati nella corretta sequenza storica e ognuno dei protagonisti compare più volte nel corso dell’opera; malgrado gli anonimi artisti non abbiano cercato in alcun modo di raffigurarli con l’esattezza del ritratto, essi restano comunque identificabili. I ricami dell’arazzo non miravano solo alla rappresentazione epica di una battaglia epocale, non erano solo un manifesto politico, ma rispondevano anche alla necessità di soddisfare il bisogno di svago e intrattenimento. Le bordure poste sopra e sotto le scene della vicenda principale hanno in parte una funzione puramente decorativa, in parte raffigurano leggende, narrano episodi secondari o anticipano eventi futuri. Verso la fine del ciclo, nella scena in cui imperversa la battaglia di Hastings, la striscia lungo il margine inferiore raffigura schiere di arcieri, soldati morti e feriti e la deportazione di cadaveri, il tutto reso con un naturalismo che infrange le regole del tempo.
 
Il principio di una narrazione per immagini, che si svolge come un fregio, era conosciuto fin dall’antichità – un esempio è fornito dai bassorilievi della colonna di Traiano – e l’arazzo di Bayeux segue questo principio narrativo, tanto che l'”azione” che caratterizza le scene raffigurate ha fatto sì che esso venisse spesso paragonato ad un film o a una striscia a fumetti. Il colore non naturalistico eppure omogeneo, le figure spesso molto allungate, agili come insetti e dalla vivida gestualità, suscitano una intensa e potente impressione generale.
 
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La tesa drammaturgia dell’insieme fa dell’arazzo un capolavoro di fantasia creativa. La sua impostazione grafica, è articolata in azioni concatenate, che vedono in scena un totale di 126 personaggi diversi; ogni scena è corredata di un breve commento in lingua latina. L’arazzo risulta amputato della parte finale, di lunghezza stimata intorno ai 90–200 cm, nella quale probabilmente si raffigurava l’incoronazione di Guglielmo. Contiene la raffigurazione di 626 persone, 202 cavalli e muli, 505 animali di altro genere, 37 edifici, 49 alberi. In totale 1515 soggetti forniscono una miniera di informazioni visive sull’XI secolo: per la storia navale, ad esempio, si apprende dalla forma delle vele che le navi utilizzate erano di tipo vichingo; per l’oplologia (studio delle armi), si apprende, invece, che le armi usate da ambo le parti erano di origine scandinava; per l’araldica si registra il primo uso in battaglia di insegne allo scopo di distinguere amico da nemico. Non si è conservata nessun’altra opera d’arte figurativa medievale che offra una simile ricostruzione opulenta della storia più recente – le poche altre opere tessili di epoca romanica, per esempio l’arazzo di Gerona, sono dedicate e temi religiosi – e questo particolare induce a chiedersi a quale luogo questo arazzo di Bayeux fosse destinato: forse veniva appesa in cattedrale per una determinata festività o, secondo una ipotesi più convincente, si pensa che l’arazzo fosse utilizzato originariamente per ornare il salone di un palazzo vescovile, sia a Bayeux, sia in una qualsiasi altra località dell’Inghilterra meridionale.
 
(Tratto e adattato dal volume Romanico, di Norbert Wolf edito da Taschen e da Wikipedia; immagini dal web)

Pittore di Cluny, Cristo nella mandorla – sassi d’arte

Pittore di Cluny, Cristo nella mandorla, primo terzo del XII secolo

pittura murale (tecnica mista), altezza 4 m ca. – Berzé-la-Ville, cappella dello Château des Moines, abside

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Gli affreschi più significativi della Borgogna si trovano nella cappella di Château des Moines a Berzé-la-Ville, nel luogo in cui si racconta che il committente, l’abate Ugo, (Ugo di Cluny,  1049-1109) si ritirò per meditare in solitudine sulle “cose ultime”. I resti degli affreschi nella navata, risalenti al tardo XII secolo, per loro natura si legano alle regioni artistiche a nord della Loira. La decorazione dell’abside, di qualità maggiore per tecnica, valori cromatici, iconografia e stile, non ha invece pari non solo in Francia, ma nella pittura murale romanica nel suo insieme. Si trovano parallelismi solo con i codici miniati della fine dell’XI secolo e dell’inizio del XII secolo provenienti da Cluny.

Cristo, potente signore dell’universo, side in trono nel catino absidale. A destra, il braccio di questa grandiosa apparizione divina sporge oltre il limite luminoso rappresentato dalla mandorla per tendere il rotolo della Legge a Pietro, che si trova con gli altri apostoli e quattro santi.Al di là del suo significato religioso, il soggetto del dipinto è stato interpretato come espressione simbolica dell’atto di fondazione del convento, come raffigurazione della “traditio legis” (consegna della Legge), dunque un omaggio a Cluny, fedele al papato, al pontefice romano.

Queste pitture rappresentano un importante paradigma delle opere che decoravano l’abbazia di Cluny, oggi quasi interamente distrutte. Si tratta di un unicum in Francia, tanto quanto la fila di santi, in parte riconducibili alla Chiesa orientale, effigiati nelle mezze figure del basamento. La datazione degli affreschi è incerta; l’ipotesi più accreditata ancora oggi, che li fa risalire al primo terzo del XII secolo, trova conferma nell’influenza che i dipinti esercitarono sulle famose sculture del maestro Gislebertus ad Autun (artista romanico borgognone del XII secolo, rinnovò l’iconografia tradizionale realizzando figure con proporzioni alterate e tratti fisionomici deformi in modo da rendere più dinamica la composizione, intorno al 1130 collaborò alle opere e alla decorazione della Cattedrale di Saint-Lazare ad Autun, come attesta la presenza, rarissima, sul portale occidentale, della firma: Gislebertus hoc opus fecit, documentando una sua posizione di grande prestigio).

L’artista attivo nella dependance borgognona di Cluny si è rifatto senz’altro anche a modelli bizantini; l'”importazione di forme bizantine” procedette per vaie strade e a livelli differenti. In linea di massima, si trattò di un adattamento del  odo bizantino di trattare il panneggio derivato da modelli antichi, noto già da qualche tempo in Occidente, soprattutto in Italia. E Cluny era il crogiolo perfetto, dato che l’abbazia intratteneva numerosi contatti con i conventi benedettini italiani, soprattutto con Montecassino. A questo si aggiungevano le missioni diplomatiche a Roma, accompagnate anche dal trasferimento di esempi artistici ( non a caso, è possibile rilevare affinità artistiche tra le pitture di Berzé e quelle nella basilica inferiore di San Clemente a Roma). Inoltre, l’abbazia di Farfa nel Lazio era una filiazione di Cluny e mezza Europa era attraversata da uno scambio vivace e continuo di manoscritti. Può darsi dunque che artisti di origine e formazione diversa fossero confluiti nell’abbazia di Cluny. Se tutto ciò non autorizza a parlare esplicitamente di “arte benedettina” universale, si può comunque affermare che Cluny era un centro internazionale di importanza incomparabile nell’Europa di allora, in cui convergevano le correnti artistiche più eterogenee, che venivano fuse in una sintesi grandiosa.

(fonti: “Romanico”, edito da Taschen; Wikipedia, per le notizie sul maestro Gislebertus)

L’albero della vita – sassi d’arte

L’albero della vita, mosaico, 1118 c.a 

Roma, San Clemente, abside della basilica superiore

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A Roma, nei pressi del Colosseo, lungo la strada che sale gradualmente verso San Giovanni in Laterano, si trova una basilica intitolata a San Clemente I Papa, terzo successore di Pietro al soglio pontificio. L’opera architettonica risalente al IV secolo fu ampiamente devastata dai Normanni nel 1084; nel 1110, durante una fase particolarmente acuta della lotta alle investiture, allorché le nomine vennero nuovamente proibite, Papa Pasquale II ordinò che la chiesa fosse ricostruita sulle rovine della chiesa interrate della basilica precedente. Come se si trattasse di esorcizzare l’antico potere della Chiesa contro l’Impero, per la ricca decorazione interna della basilica ci si orientò verso reperti formali tratti dalle chiese paleocristiane; anzi, nel nuovo impianto furono integrati programmaticamente parecchi arredi della costruzione più antica (soprattutto suppellettili che vi erano state aggiunte nel V e nel VI secolo).

Anche un’opera nuova, che oggi eclissa tutto il resto, evoca sotto un certo aspetto l’arte paleocristiana. Parliamo del mosaico dell’abside, la cui composizione è dominata dalla croce. Il suo carattere fenomenico, che si manifesta mediante un meraviglioso tono di azzurro, richiama alla mente l’arte dello smalto. Maria e San Giovanni stanno ai lati della croce, ai cui piedi sgorgano i quattro fiumi del paradiso, ai quali si abbeverano i cervi. Scorgiamo, poi, la fenice, l’uccello fantastico che simboleggia l’immortalità. Dodici colombe bianche, che incarnano gli apostoli, occupano le assi verticale e trasversale della croce. In una nicchia ricavata dietro l’emblema della passione, è inserito un vero frammento della croce insieme ad altre reliquie (il mosaico assume perciò la funzione di stauroteca, reliquiario destinato ai frammenti della croce di Cristo). Sopra la croce si apre la volta celeste stellata, da cui scende la mano benedicente di Dio.

La decorazione vegetale fatta di incantevoli tralci di acanto ritorti, che riempie il catino absidale, rimanda al paradiso e identifica la croce come “l’albero della vita”; al contempo, l’intreccio dei tralci intorno al legno della croce regala vita e nutrimento a uomini e donne di ogni professione, anzi a ogni creatura. Tra le figure spiccano quattro personaggi vestiti semplicemente di bianco e nero, che rappresentano i padri della Chiesa latina, i santi Agostino, Gerolamo, Gregorio e Ambrogio. Il fregio sottostante, con l’Agnello dell’Apocalisse, ricorda nuovamente la Gerusalemme celeste e, poiché sopra l’arco di trionfo sono raffigurati i santi Pietro, Clemente, Paolo e Lorenzo e i profeti Geremia e Isaia, la resa visiva della redenzione include in sé anche la storia della Chiesa. In sintesi, il programma iconografico esaltava idealmente il Papa (sostenendo le pretese universalistiche della chiesa cattolica), il quale, in carne e ossa, sedeva in trono giù nell’abside.

Non a caso un simile messaggio era espresso a livello stilistico mediante il richiamo a modelli antichi. Gli artefici dell’opera ricordavano bene l'”impressionismo” che caratterizzava i mosaici romani del V secolo, quelli in Santa Pudenziana o in Santa Maria Maggiore e, come allora, accentuarono l’incarnato o il panneggio con strisce di tessere da mosaico di marmo bianco, circondate da frammenti di vetro neri e grigi (secondo l’antica tecnica romana).

Nei mosaici dei luoghi antichi paleocristiani comparivano anche scene di genere; le ritroviamo in San Clemente, arricchite con uccelli acquatici come quelli raffigurati un tempo lungo il bordo della cupola di Santa Costanza, con foglie di vite e grappoli d’uva disseminati qua e là e putti sgambettanti.

(tratto e adattato dal volume Romanico, Taschen Ed. – immagini dal web)