Compagnia Petranuradanza, Fisiognomica – lettura di Angela Greco (sassi d’arte)

L’Ass.Cult. Megakles Ballet di Lentini (SR), in arte con la Compagnia Petranuradanza, lo scorso 26 ottobre ha presentato a Molfetta (BA), nell’ambito di “ResExtensa Calling” – evento che ha visto esibirsi in due giorni cinque compagnie di danza italiane presso il teatro della Cittadella degli Artisti – la performance Fisiognomica, coreografie di Salvatore Romania e Laura Odierna, danzatori Salvatore Romania, Francesco Bax, Claudia Bertuccelli e Valeria Ferrante, produzione 2019, un omaggio a Leonardo da Vinci, inserito nelle celebrazioni per i cinquecento anni dalla morte del genio italiano, su musiche di Frédéric Chopin e Alessio Di Dio.

“In Fisiognomica – si legge sullo stampato curato dalla Compagnia stessa – il coreografo ispira la propria ricerca sulla passione di Leonardo per lo studio dei moti dell’animo umano”, ricordando che il vinciano è considerato il fondatore della fisiognomica moderna e che “nelle sue opere l’espressione dei volti, i gesti e le posizioni del corpo sono la conseguenza visibile dei moti dell’animo”.

L’evocativa nominazione della Compagnia, petranura, che in dialetto siciliano significa “pietra nuda”, con riferimento all’attività vulcanica etnea, creatrice e rigeneratrice di nuova materia e, quindi, metaforicamente di nuovo suolo su cui edificare-riedificare persona e arte, centra perfettamente anche questo lavoro dedicato a Leonardo, maestro ineguagliato della rappresentazione anatomica derivata da studio approfondito e meticoloso di ogni singolo dettaglio; parimenti, il coreografo e i danzatori di Fisiognomica, hanno scavato ‘fino all’osso’, proprio come avrebbe fatto il genio toscano nella realtà, le possibilità del proprio corpo-volto per dare al pubblico la precisa espressione dell’interiorità, del nascosto alla vista, del lato oscuro celato dalle convenzioni-convinzioni, ma che pure l’essere umano, nonostante l’addomesticamento operato dalla convivenza sociale e civile, possiede ancora nascosto nel magma della sua origine. E dalla performance è emerso un ritratto dell’uomo contemporaneo realistico e accurato, spoglio di eufemismi e edulcorazioni, vero nella difficile condizione di dolore-cattiveria che lo ha caratterizzato nell’ultimo secolo.

Fisiognomica ha tratteggiato sul volto dei danzatori le maschere anatomiche di Leonardo con precisone d’immagine e consapevolezza che l’espressione esteriore altro non è che specchio di quella interiore. Ed ecco, allora, muoversi sul palco quattro figure vaganti apparentemente senza meta, rincorrendosi, addossandosi, scontrandosi, fondendosi in movimenti sincopati, in proiezioni informi illuminate da momenti caravaggeschi, dove luce e ombra, sullo stesso piano, delimitavano fermo-immagini chiari, dove il buio rimanente sulla scena non era esclusione, ma ampliamento nell’evocazione. Perché l’Uomo è sì, quel che si vede, ma anche e si potrebbe osare affermare soprattutto, la sua ombra, il sui doppio nell’oscurità.

Sulle note di Chopin e di Di Dio, la compagnia Petranuradanza ha coinvolto gli spettatori soprattutto, ma non solo, nei silenzi figurativi della scena, dove ogni danzatore, fermando il proprio corpo nella luce, ha concentrato tutta l’espressività fisica nella plasticità di pose culminanti nei tratti del viso, straziati da una interiorità che non ha lasciato scampo nella sua crudeltà.

La tensione emotiva sottolineata dalla staticità di alcuni momenti ha chiamato in causa oltre a Leonardo e alle sue tavole anatomiche, oltre a Caravaggio e alle sue identificative luci, anche un altro genio dell’arte italiana, Michelangelo Buonarroti, evocando la forza dei suoi Prigioni non finiti, figure di schiavi estratte solo in parte dalla pietra e che conservano inalterato il dramma della genesi, nell’atto del distacco dalla fonte originaria, esaltando in maniera superba l’etimologia del nome stesso della Compagnia e oltrepassando il concetto profano che i più hanno di danza per approdare a quello più esatto di performance artistica, qual è stata quella presentata in questo ottobre 2019.

Fisiognomica ha, di fatto, preso le mosse dall’omaggio al genio di Vinci per poi procedere in autonomia verso la definizione contemporanea dell’arte tersicorea, che non è meramente nei movimenti dissimili dalla danza dei decenni scorsi, quanto piuttosto nel trattare il concetto di contemporaneità con riferimento al tempo che viviamo: ecco, allora, che contemporanea è la rappresentazione della condizione dell’uomo odierno alle prese con l’atroce e sempre vivo contrasto tra bene e male, tra luci ed ombre di se stesso, tra emotività istintiva e aggressività necessaria alla sopravvivenza in un mondo che offre sempre meno spazi al bello. Così, anche la Danza come tutta l’Arte, si fa testimone e voce della realtà, con la speranza, mai vana, che si possa dare un’alternativa alla nuova decadenza che si sta vivendo più o meno consapevolmente.

Riallacciando legami con i grandi del passato, monito ed insegnamento, nel silenzio soave di quelle ricadute lievi di piedi sulle tavole del palcoscenico che, con immensa grazia, hanno celato allo spettatore tutto il duro lavoro da cui sono derivate, Fisiognomica consegna nella sua utile originalità un importante spaccato societario e umano su cui riflettere. [Angela Greco AnGre]

Una serata con…Rita da Cascia, di Angela Greco

Ha avuto luogo, nelle date del 21 e 22 maggio 2019, nella splendida cornice del Villaggio di Sant’Agostino, nel cuore di viuzze del centro storico della città di Martina Franca (TA), la rappresentazione “artistica” – è il caso di definirla in questi termini – di “Rita…figlia…Madre…Santa”, realizzata in occasione della festa di Santa Rita, dalla Compagnia “Le Quinte”, con la regia di Pasquale Nessa. Una rappresentazione teatrale, che ha coinvolto attori, narratori e due ballerini, che ha riproposto, a un pubblico numeroso e partecipe, nonostante la temperatura autunnale, alcuni episodi della vita di Margherita Lotti, per tutti santa Rita, religiosa italiana definita “santa delle cose impossibili”, dalla sua comparsa sulla scena pubblica nella medievale Roccaporena, fino alla sua morte in odore di santità, avvenuta agli inizi del Rinascimento, a Cascia.

Un percorso particolare e dettagliato, quello scelto dal regista, incentrato parallelamente sulla umanità e sulla santità di questa volitiva donna, figlia del suo tempo in ogni atto e incrollabile nella fiducia in Dio, ambientato nel chiostro dell’antico ex convento delle suore Agostiniane (ordine a cui appartenne anche la santa), dove – come scrive la Priora della Comunità di S. Rita in Cascia a mezzo lettera – “oltre a far conoscere S. Rita e il suo messaggio con il vostro spettacolo, desiderate far rivivere la spiritualità agostiniana in un Monastero dove per tre secoli hanno abitato le nostre Consorelle di vita contemplativa, in Valle d’Itria.”

Il Convento delle Monache Romite Agostiniane sorse nel XVII secolo per volontà dell’arcivescovo Tommaso Caracciolo. Il convento, che si ispirava alla regola di Sant’Agostino, accoglieva le figlie dei ceti più abbienti di Martina Franca. La possente struttura ruota attorno a un chiostro con due pozzi di forma ottagonale ed è ingentilita sul terrazzo da una balaustra traforata decorata con statue di angeli e fiaccoloni (dal sito villaggiodisantagostino.it); in questa location, sfruttando la naturale fisionomia del luogo, abbellito solo da piccoli fuochi, oggetti posati sullo sfondo per dare vita ad una quotidianità che ha sottolineato ogni atto, un crocifisso “sospeso” e un tavolo-altare-catafalco funebre, Pasquale Nessa con sensibile occhio ha ambientato uno spettacolo originale, soprattutto nell’uso di tutti e  tre i livelli disponibili del fabbricato principale (piano di calpestio e due piani di edificio) per la messa in scena della vita della santa umbra, adoperando le finestre poste sotto gli archi, come nicchie berniniane per l’uscita ad oc di alcuni personaggi, come ad esempio la figura di Dio, muta e ieratica dalla sua posizione sopraelevata o, della morte stessa, nello specifico quella del marito di Rita, accaduta al secondo piano dell’edificio e che ha costretto gli astanti, guardando verso l’alto, a comprendere che vi è un destino superiore rispetto alla volontà umana. Dettagli, perfettamente incastonati nella naturale scenografia, che hanno segnato la professionalità e la passione del regista, il quale ha evitato costruzioni ad arte, evidenziando in tal modo l’armonia coi luoghi vissuti nella recita.

La compagnia “Le Quinte”, composta da elementi di età differente, lavorando con coesione e rispetto reciproco, ha reso al pubblico una drammatizzazione onesta e professionale, nella quale è risultato quasi indistinguibile estrarre la parte di punta rispetto a tutto il gruppo; tutti, dalla giovane interprete di una santa Rita all’inizio del suo cammino, fino a colei che ha interpretato Rita sul letto di morte, passando dai genitori, al marito, alle consorelle della santa e persino dalla figura originale e caratteristica del sacrestano-giardiniere, interpretato da un riccioluto giovane che si esprimeva con un credibilissimo accento umbro-marchigiano, hanno offerto al pubblico un’ora e mezza intensa, intrisa di misticismo e realismo, sacralità e forza, nel rispetto dell’agiografia ufficiale della santa di Cascia e del contesto sacro in cui ha avuto luogo la rappresentazione, senza mai forzare la mano in favore di episodi di facile presa sul pubblico, ma, semplicemente, lasciandosi docilmente guidare dagli episodi tramandati dalla storia e dalla Chiesa, in un crescendo drammatico, funzionale alla più grande gioia a cui Dio predispone l’uomo fin dai primi atti della vita a cui lo relega.

Un momento di grande suggestione e di particolare interesse è stato quello della notte scura dell’anima di Rita, inevitabile prova a cui è sottoposto il genere umano, rappresentato in danza: la lotta tra la giovane donna e il Tentatore, resa in scena da due danzatori professionisti (Francesco Bax e Francesca Sibilio), che non si sono risparmiati nell’espressione potentemente fisica del contrasto acerrimo tra Bene e Male, con movimenti tecnici dal forte impatto sul pubblico e la bellezza etera di un’arte, che al meglio è riuscita ad esprimere l’estenuante morsa fisica a cui è stata sottoposta anche questa santa, sottolineati da musiche scelte con cura, ausiliarie di un coinvolgimento emotivo che non ha risparmiato qualche lacrima nel pubblico, mettendo in luce la capacità empatica del lavoro di Pasquale Nessa.

La serata si è conclusa con la rappresentazione degli ultimi istanti di vita terrena di santa Rita, la “santa delle cose impossibili”, che, in un monologo diluito in più riprese, ha riassunto una lunga e densa esistenza per mezzo della spiccata capacità attoriale dell’interprete, la quale, in scena su un letto di morte, ha commosso un pubblico già provato da susseguenti emozioni fin dai primi momenti narrati da una voce esterna interpretata da un “messere”, che sempre ha tenuto fra le mani una rosa rossa, simbolo per antonomasia e ricordo della santa provata da Dio nella perdita di ogni suo affetto e ricompensata nell’eternità. [Angela Greco]

(dall’alto in basso foto di: Erminia Greco, Martino Mastrovito, Erminia Greco – elaborazione by AnGre)