Marco Tornar, due poesie scelte e proposte da Leopoldo Attolico
DEDICA
.
Dei nostri incontri non parlerò a nessuno.
Né alle streghe né al vento
né a questi anni pieni di luce e di pazzia.
Nessun colore imbratterà quel bianco
dove ci siamo conosciuti, con gli occhi lieti
e la semplice magia di tutti i sogni.
Ogni lanterna sarà la nostra casa,
la nostalgia che assiste come fiocchi di neve
il silenzioso ferirsi della goccia sul viso.
E nella casa ho visto
nello specchio una candela,
la melodia che sale, il vino,
quei profili di porpora che guardano lontano
verso angeli sconosciuti, un’amicizia.
Poi, le mille strade di un mattino.
Come quando, colmi di affetto e di tristezza,
stringendo in mano un segno della vita
camminiamo sotto altari di pioggia
mentre appare, dal niente, una parola.
.
.
da La scelta, Jaca Book, 1996
.
.
§
.
.
AVE MARIA
.
Ave Maria così piena di grazia
che al solo vederti traboccherebbe
d’infinita gioia il cuore,
sei per noi tutti la supremazia
di quel che mente umana fallirebbe
a tradurre in parole, si direbbe
la vera luce che non vada via
quando cala la notte. Non pretendo
nulla nell’invocarti con favore,
nemmeno l’amore di lei, fai tu…
Ma accoglimi ti prego, per favore,
quando col corpo non ci sarò più,
se già col solo esistere ti offendo.
.
.
Dal blog Edizioni Noubs, noubs.it
.
Marco Tornar (Pescara, 15-10-60 – 8-2-2015) ha pubblicato le raccolte di poesia Segni naturali (Bastogi, 1983) – La scelta (Jaca Book, 1996) – Sonetti d’amor sacro (Tabula Fati, 2014) ; le prose Rituali marginali (Bastogi, 1985) – Errando di notte in luoghi solitari (Quaderni del Battello Ebbro, 2000) ; i romanzi Niente più che l’amore (Sperling & Kupfer, 2004) – Claire Clairmont (Solfanelli, 2010) – Nello specchio di Mabel (Tracce, 2011) – Lo splendore dell’aquila nell’oro (Tabula Fati, 2013) ; il monologo drammatico Allegra per sempre (Tabula Fati, 2011). Ha curato l’antologia di poesia italiana La furia di Pegaso (Archinto, 1996). Ha tradotto testi di Francesca Alexander, Kate Field, Henry James,Vernon Lee e Sigrid Undset.
Omaggio a Luigi Tenco nel 50° anniversario dalla scomparsa, a cura di Giorgio Chiantini
Sulla fine tragica di Luigi Tenco, ormai in questi 50 anni che ci separano dal quel tragico 27 gennaio del 1967, è stata prodotta una vasta letteratura. Molte le interpretazioni e le ipotesi che hanno messo in dubbio la versione ufficiale, ipotizzando chissà quali retroscena e complotti e mettendo in dubbio “…la profondità dell’emozione umana presumibilmente innescata dalla situazione” (cit. Marco Santoro in Effetto Tenco).
Nato a Cassine il 21 marzo 1938, trascorse la prima infanzia tra Cassine e Ricaldone (paese originario della madre) fino a che, nel 1948, la famiglia si trasferì in Liguria, dapprima a Nervi (nella casa del nonno materno) e poi a Genova, dove la madre aprì un negozio di vini. Nel 1953 fondò un gruppo musicale, la Jelly Roll Boys Jazz band; nel 1956 entrò a far parte, anche se saltuariamente, come sassofonista del Modern Jazz Group del pianista Mario De Sanctis, che vedeva fra i componenti anche Fabrizio De André alla chitarra elettrica. Nel 1957 venne chiamato nel Trio Garibaldi e proprio per il trio, Tenco scrive la sua prima canzone, la sigla di apertura dell’orchestra. Seguì, nel 1958, la costituzione del gruppo I Diavoli del Rock con Graziano Grassi, soprannominato Roy, alla batteria e Gino Paoli alla chitarra. Nel 1959 si trasferì a Milano, ospite, con l’amico Piero Ciampi, di Gianfranco Reverberi che, lavorando come arrangiatore alla Dischi Ricordi, lo fece partecipare come session man alle registrazioni di La tua mano di Gino Paoli e Se qualcuno ti dirà di Ornella Vanoni; si trasferì poi con Ciampi alla Pensione del Corso, in Galleria del Corso 1, dove alloggiavano anche Paoli, Sergio Endrigo, Franco Franchi, Bruno Lauzi ed altri artisti. Ottenne, quindi, un contratto discografico con la Dischi Ricordi come cantante; il suo esordio con il gruppo I Cavalieri risale al 1959. Il gruppo – che gravitava intorno alla casa discografica Tavola Rotonda, sotto-etichetta della Ricordi, da cui il nome – incise un EP (Extended Play) con quattro brani, Mai/Giurami tu/Mi chiedi solo amore/Senza parole (che vennero anche pubblicati suddivisi in due 45 giri), pubblicato a nome «Tenco». Dopo questa incisione, Tenco adottò gli pseudonimi di Gigi Mai, Dick Ventuno e Gordon Cliff, chiedendo a Nanni Ricordi di non apparire con il suo vero nome, per non subire danni d’immagine essendo studente di scienze politiche ed iscritto al Partito Socialista Italiano.
Nel 1961 uscì il suo primo 45 giri inciso come solista e con il suo vero nome, intitolato I miei giorni perduti. Il primo 33 giri, invece, uscì nel 1962 e conteneva successi quali Mi sono innamorato di te e Angela, ma anche Cara maestra, che non fu ammessa all’ascolto dalla Commissione per la censura (per quest’ultimo brano fu allontanato dalle trasmissioni RAI per due anni). Nel settembre del 1963 le sue canzoni Io sì e Una brava ragazza furono nuovamente bloccate dalla censura. Poco prima aveva abbandonato la Dischi Ricordi per la Jolly; nel 1966 stipula un contratto con la RCA Italiana ed incide Un giorno dopo l’altro, che diventa sigla dello sceneggiato televisivo Il commissario Maigret. Altri successi dell’epoca sono Lontano lontano (in gara a Un disco per l’estate 1966), Uno di questi giorni ti sposerò, E se ci diranno, Ognuno è libero.
A Roma, conobbe la cantante italo-francese Dalida, con la quale ebbe una relazione, e nello stesso periodo collaborò con il gruppo beat The Primitives, guidato da Mal, per i quali scrisse, in collaborazione con Sergio Bardotti, il testo italiano di due canzoni: I ain’t gonna eat my heart out anymore, che diventa il grande successo Yeeeeeeh!, e Thunder ‘n’ Lightnin, tradotta in Johnny no! e contenuta nell’album del gruppo Blow Up. Nel 1967 si presentò al Festival di Sanremo (Fabrizio De André sostenne che non ne era affatto entusiasta e vi andò controvoglia) con la canzone Ciao amore ciao, cantata, come si usava a quel tempo, da due artisti separatamente, ovvero lo stesso Tenco e Dalida. Prima di quel tragico 27 gennaio si ha la sensazione, che Tenco cercasse di dialogare con il pubblico, proponendo contenuti di tipo sociale e politico a ritmi e arrangiamenti più popolari, tipo di origine folkloristica oppure rock, genere, che in quel momento stava dilagando, come diffusione di massa. Penso a canzoni come “Ballata della moda”, “Giornali femminili”, “Vita sociale” oppure come “Cara maestra” e “Ragazzo mio”. Tenco, però, a fronte dei suoi testi di carattere sociale, rimaneva un grandissimo cantante d’amore, tanto da emergere con canzoni, scritte e interpretate da lui, a dir poco meravigliose, come: “Mi sono innamorato di te”, “Vedrai vedrai”, “Quando”, “Lontano lontano”, “Un giorno dopo l’altro”, “Se stasera sono qui”, “Se potessi amore mio”, “Angela”, “Guarda se io”, “Se sapessi come fai” e tante altre.
Si tratta di uno dei più bei canzonieri d’amore scritto ed interpretato da un musicista contemporaneo. Non che non ci siano canzoni d’amore altrettanto belle, ma nessuno ne ha “indovinate” tante; canzoni d’amore dove semplicità e linearità si esprimono sempre con le parole giuste, perché elementari e perché preservano una sorta di originaria innocenza: “Mi sono innamorato di te/ perché non avevo niente da fare” o “se stasera sono qui/ è perché ti voglio bene”, sono di una semplicità inaudita, che le fa arrivare diritte al cuore. Il più introverso cantante italiano trova una essenzialità luminosa e la trasforma in passione amorosa. Contribuiscono in modo determinante due fattori: la bellezza straordinaria di Tenco e la sua voce, quest’ultima capace di tonalità intense e a volte molto forti. Meglio di tutti ha saputo raccontare questa voce Enrico de Angelis: “Il suo canto così simile al fraseggio del suo sassofono: il Tenco interprete che sa spiegare le frasi melodiche con intonazione perfetta, spezzandole poi con pause e sospensioni sapienti; che si impone per quella sua nitidezza timbrica, sillabica, per quelle struggenti strozzature che finiscono rauche, quei teneri accenni lievissimi di falsetto, o nelle note basse quella definitiva profondità che non ammette repliche”.
Si può solo aggiungere che quella voce era perfettamente corrispondente ad un volto altrettanto perfetto, di cui sembra riprodurre i tratti, le ombre e le oscurità, che non riescono ad incupire la luminosità dello sguardo. Infatti Tenco non è triste, nell’eccezione del termine, ma lascia che si intuisca un elemento di gioco, un esercizio di travestimento dove l’infelicità e la malinconia, sembrano diventare una sorta di stile… “l’aria triste che tu amavi tanto”. Di conseguenza, forse, non è così pretestuoso ribaltare lo stereotipo costruito su di lui, ad esempio pensando ad una delle sue canzoni considerate più tristi, quel “Vedrai vedrai” si scoprirà facilmente che la parola chiave di quel testo è “cambierà”, ripetuta per ben sei volte! “Vedrai vedrai/ vedrai che cambierà/ forse non sarà domani/ ma un bel giorno cambierà”.
Erano tempi, quelli di Luigi Tenco, dove, innanzitutto, l’idea di una condivisione – generazionale, ma anche sociale e addirittura politica – emergeva e si manifestava nei termini e con i suoni più seducenti e dove la tristezza era innanzitutto un elemento letterario, che si sceglieva di adottare più di quanto avessero fatto e avrebbero fatto altre generazioni. La tristezza, insomma, come cifra stilistica, che doveva rendere interessanti e riflessivi, aggrottati in volto e nei pensieri, non mesti, ma consapevoli del tragico. Tenco, autore di almeno tre canzoni tanto struggentemente tristi quanto prodigiosamente non tristi, ma ariose, libere, tenerissime, come “Lontano lontano”, “Un giorno dopo l’altro” e “Vedrai vedrai”, ha una tristezza diversa da altri cantautori dell’epoca, tutti esponenti della cosiddetta “scuola genovese”, un nucleo di artisti, che rinnovò profondamente la musica leggera italiana. Al di là delle apparenze, nella tristezza di Tenco forse sembra resistere una traccia di speranza: la speranza, sua essenziale eredità, insieme alle sue belle canzoni, è quella che ci piace ricordare di lui. (Notizie varie dal web e dal libro La musica è leggera di Luigi Manconi)
“Io sono uno che sorride di rado, questo è vero, ma in giro ce ne sono già tanti che ridono e sorridono sempre, però poi non ti dicono mai cosa pensano dentro “
Poesie e prose per la Memoria, a cura di Flavio Almerighi
Traggo spunto da un articolo di Federico Pontiggia apparso sul Fatto Quotidiano del 25 gennaio 2017 “La banalità del selfie: il turismo della Shoah tra sorrisi e sandwich” “Dopo Auschwitz, nessuna poesia, nessuna forma d’arte, nessuna affermazione creatrice è più possibile”. Lo sostenne il filosofo tedesco Theodor W. Adorno, e palesemente si sbagliava: l’arte è ancora possibile, e pure l’arte sulla Shoah. Non c’è però da rallegrarsene, perché le cose stanno peggio di quanto preconizzato da Adorno: il problema non è la “affermazione creatrice”, bensì la ricezione esperienziale; il problema non è l’arte, ma la vita. Oggi è ancora possibile fare Memoria? Il punto è questo: la mediazione artistica ha spazi di manovra che l’esperienza fisica si vede precludere” Insomma la domanda è una sola, e mi sorge spontanea dopo la mia drammatica visita al campo di Dachau dello scorso 16 agosto. Mentre camminavo silenzioso tra tanto dolore, che per altro è ancora ben avviluppato nelle strutture superstiti, costantemente disturbato da schiamazzi di gitanti della domenica, molti italiani, con un nodo nello stomaco che non ho saputo sciogliere nemmeno al Carmelo di Dachau. Ho provato invidia per Gabriella, che fotografava le vestigia del dolore e piangeva in silenzio. Ora mi chiedo, possiamo noi redattori dell’Ombra delle Parole, attraverso la nostra creatività e le nostre risposte personali, rendere più vero, meno formale, più giusto il 27 gennaio 2017?
Come Ebrei sopravvissuti e discendenti di sopravvissuti al genocidio nazista, condanniamo inequivocabilmente il massacro di Palestinesi a Gaza e l’occupazione e la colonizzazione in atto della Palestina storica. Condanniamo inoltre gli Stati Uniti che sostengono Israele finanziandone gli attacchi, e più in generale gli stati occidentali che utilizzano i loro apparati diplomatici per proteggere Israele dalla condanna. Il genocidio inizia con il silenzio del mondo.
Siamo allarmati per l’estrema, razzista disumanizzazione dei Palestinesi nella società israeliana, che ha raggiunto livelli di massima intensità. In Israele, politici e opinionisti del Times of Israel e del Jerusalem Post hanno apertamente incitato al genocidio dei Palestinesi e la destra radicale israeliana sta adottando emblemi neonazisti. Siamo inoltre disgustati e indignati per l’abuso della nostra storia ad opera di Elie Wiesel in pagine che promuovono palesemente delle falsità per giustificare l’ingiustificabile: il gigantesco impegno di Israele per distruggere Gaza e l’uccisione di circa duemila Palestinesi, tra cui centinaia di bambini. Niente può giustificare il bombardamento di rifugi ONU, di case, di ospedali e università. Niente può giustificare privare di elettricità e acqua le persone.
Dobbiamo far sentire forte la nostra voce collettiva e usare quanto è in nostro potere per porre fine a ogni forma di razzismo, compreso l’attuale genocidio del popolo palestinese. Chiediamo la fine immediata dell’assedio e dell’embargo contro Gaza. Chiediamo il boicottaggio totale, economico, culturale ed accademico, di Israele. “Mai più” deve significare “MAI PIU’ PER TUTTI”. (New York Times, 23 agosto, 2014)
Riflessi
di Angela Greco
.
Sasso intagliato in distorto viso anonimo.
Umanità spettinata nel capannone di servizio.
Offresi allo sguardo accessori sparsi.
Gelo pertinente anche in piena estate.
Il Carmelo è il monte del Purgatorio.
Qui, invece, hanno realizzato l’altra cantica,
lirica della tragedia ad una sola voce.
Ho solo immagini riflesse della Shoah e 40 anni.
Altre generazioni perpetrano la Memoria
e nei giorni freddi prima della merla chiamano.
La beffa è nitida sul cancello dalle sbarre di ferro,
che la ruggine equa e magnanima ha invecchiato
incurante di delirio di potenza, assenze e presenze.
Scattano fotografie i figli del presente. Altri piangono,
i più vicini al reale, nel silenzio che non permette lacrime.
Un popolo è tutti i popoli che hanno vissuto parimenti.
Un secolo non può bastare né ai vinti né a chi verrà.
Proprio oggi, prima di sera, intrattengo un dialogo
a tutto foglio con muti interlocutori.
Polvere sottratta alle polveri si sommano.
Lascio anche il mio sasso sul bordo inclinato.
— immagini: cimitero ebraico di Berlino (in apertura, foto di Dario J. Laganà) e sasso su tomba ebraica —
La Cappella Bessarione sorge presso la Basilica dei SS.Apostoli in Roma. Casualmente rinvenuta nel 1959, a seguito di alcuni lavori di ristrutturazione dell’attiguo Palazzo Colonna, quando ebbi modo di vederla per la prima volta, circa tre anni fa, in una di quelle visite culturali a cui spesso partecipo, ne rimasi profondamente affascinato dalla bellezza e dai rimandi storici degli affreschi, comunque rimaneggiati, che si svelavano da quel luogo rimasto nascosto e perduto dalle successive costruzioni (altare di S. Antonio (1650), che Carlo Rainaldi addossò all’abside della cappella stessa, e costruzione dell’attuale Cappella Odescalchi (1719-23) di Ludovico Rusconi Sassi).
La cappella funebre del Cardinal Bessarione, dedicata alla Madonna e ai santi Michele, Giovanni Battista ed Eugenia, rappresenta uno dei luoghi più importanti per la storia della pittura del ‘400 a Roma. Gli affreschi furono eseguiti tra il 1464 e il 1468 da Antoniazzo Romano (Antonio Aquili) con la collaborazione di Melozzo da Forlì e realizzati per l’illustre umanista e cardinale da cui prende il nome la cappella stessa. Dalle descrizioni antiche sappiamo che il ciclo pittorico, cominciando dal basso, doveva comprendere le storie di Giovanni Battista (oggi perdute) e dell’arcangelo Michele (due, visibili), per culminare in alto con la presentazione dell’uomo a Cristo trionfatore circondato dalle nove schiere angeliche (solo in parte conservate). A tale riguardo, si fa notare che nella foto d’apertura, in alto, al centro, è possibile apprezzare la parte rimanente proprio del manto del Cristo.
Particolarmente importante per il valore simbolico, storico e teologico è il grande affresco centrale dedicato a due celebri episodi legati alle apparizioni dell’Arcangelo Michele in due importanti luoghi del culto micaelico: a sinistra, è rappresentata l’apparizione dell’Arcangelo nelle sembianze di un toro presso la città di Siponto, nel Gargano; si riconosce la città con le sue mura e il paesaggio montuoso con la grotta di Monte Sant’Angelo sul Gargano dove, all’epoca di papa Gelasio I (V secolo), sarebbe apparso l’Arcangelo nelle sembianza di un toro, che miracolosamente respinse le frecce scagliate dagli arcieri e questa scena la si attribuisce ad Antoniazzo con l’intervento di Melozzo per la figura del toro e dell’arciere in abito viola sulla destra della composizione. A destra, invece, è affrescato il sogno di S. Auberto a Mont Saint Michel, nel golfo di Saint Malo in Bretagna.
Quella di destra è una scena storica di più complessa lettura. La sottostante didascalia APPARITI O EIUSDEM IN MONTE TUMBA permette di ricondurre la pittura alla leggenda francese di S. Michele e alla sua apparizione in sogno a S. Auberto, vescovo di Avranches, rappresentato benedicente in sontuosi paramenti sacri al centro di una processione di dignitari. Aprono la processione, raffigurati in primo piano ed attribuiti alla mano di Melozzo da Forli, due prelati a capo scoperto e di spalle, vestiti con piviali d’oro arabescati, mentre sulla destra, si osservano due gruppi di sei frati francescani e cinque monaci basiliani orientali in abito nero. Sullo sfondo, l’insenatura marina con tre imbarcazioni; sulla destra, una collinetta, dall’alto della quale un toro legato ad un albero, che simboleggia lo stesso Arcangelo Michele, assiste alla scena, esortando gli astanti a fondare il monastero. Questa scena viene collocata sulla spiaggia di Mont Saint Michel per la presenza delle conchiglie visibili sulla spiaggia stessa, raggiungibile dalla costa a piedi solo durante la bassa marea.
Ultimamente ho trovato un rimando alla storia narrata da questi affreschi, leggendo il libro “L’enigma di Piero” di Silvia Ronchey, grazie al quale, pur nell’adattamento narrativo, ho ricollegato il momento storico a questi affreschi. La scrittrice, analizzando l’opera “La flagellazione” di Piero della Francesca, svela (dalla quarta di copertina): la teoria seducente che emerge da questa lettura, il genio politico dell’ultimo grande bizantino, Bessarione, rimanda a quell’11 settembre immensamente più devastante, sigillo dello scontro di civiltà fra cristianesimo e islam, che fu la caduta di Costantinopoli in mano ai turchi nel 1453. In questo contesto, la Flagellazione di Piero rappresenta il manifesto politico di un progetto maturato nell’Italia della metà del Quattrocento, l’estremo tentativo di salvare la culla della nostra civiltà, Bisanzio, garantendo la sopravvivenza in Occidente …mediante un’ultima crociata mai realizzata! (ndr).
[testo e fotografie di Giorgio Chiantini]
*
Approfondimento tratto sito dedicato alla Cappella Bessarione in Roma.
Nel registro superiore è riapparso dopo il restauro una parte delle nove schiere angeliche, che circondavano la figura del Cristo trionfante, di cui non resta, purtroppo, nulla. Anche il coro degli angeli, ispirato non solo teologicamente alla tradizione medievale, viene attribuito ad Antoniazzo Romano e bottega in collaborazione con Melozzo da Forli. In alto si conserva un frammento superstite del manto di Cristo eseguito dallo stesso Antoniazzo e sebbene l’incarico risulti affidato a quest’ultimo, è indubbia la partecipazione ai lavori della sua bottega. Nell’insieme, il ciclo risulta artisticamente composito e la mano del maestro può chiaramente individuarsi solo nei personaggi posti in primo piano nella scena di destra. In queste opere Antoniazzo si rivela pittore versatile, influenzato nella perfetta sintesi di luce, forma e colore dal grande Piero della Francesca senza esasperarne la ricerca di prospettiva.
Da notare lo scarto qualitativo e le differenze di esecuzione tra le due scene e il coro sovrastante: si passa dai magnifici ritratti della scena di destra, riconducibili alla cultura di Piero della Francesca e Benozzo Gozzoli, ad una mano più lineare e dinamica nella scena di sinistra, ai fondi di paesaggio dallo stile semplice ed ingenuo, ma ricco di suggestione ed infine lo stile, ancora influenzato dal gotico internazionale, di alcuni angeli della calotta (quelli di profilo e con la chioma a riccioli).
La scena sembra rimandare al tentativo politico perseguito in quegli anni da Bessarione in accordo con papa Pio II Piccolomini, di coinvolgere Luigi Xl, re di Francia e all’epoca monarca dello stato più ricco e militarmente potente, in un’ultima crociata, che di fatto però non fu realizzata, per liberare Costantinopoli caduta in mano ottomana nel 1453 e per riunire in tal modo la chiesa latina e greca (rappresentate nella loro unità sull’affresco dalla presenza dei basiliani e dei francescani). Nella speranza di ottenerne l’appoggio, significativamente si attribuiscono al vescovo S. Auberto le sembianze del monarca francese. Di fatto, solo quest’ultimo per il dotto cardinale era in grado dì poter difendere la cristianità e liberare il toro, ossia S. Michele, rappresentato legato a causa dell’immobilismo della Francia. Tra il corteo dei partecipanti alla processione è possibile riconoscere due importanti personaggi dell’epoca di Bessarione: Francesco Maria Della Rovere, futuro papa Sisto IV, identificato nella figura alle spalle del santo vescovo, vestito dì rosso porpora, ed il ritratto del nipote dello stesso, Giuliano Della Rovere, futuro papa Giulio II, in abiti viola.
Fondamentale per la comprensione del ciclo pittorico è la personalità del suo committente, Giovanni Bessarione. Il monaco basiliano, nato a Trebisonda nell’odierna Turchia 1403 e morto a Ravenna nel 1472, viene a ragione considerata una delle figure chiave del Rinascimento italiano: illustre prelato e protagonista della scena politica contemporanea, fu soprattutto un importante umanista filo-platonico e uomo di cultura, la cui casa divenne presto un centro dell’umanesimo rinascimentale, luogo d’incontro tra letterati e studiosi. Famoso è il suo impegno per l’unificazione della chiesa orientale con la chiesa dì Roma (Concilio dì Ferrara-Firenze, 1438, e Concilio dì Mantova, 1459) e la sua incessante azione diplomatica, tesa alla creazione dì una lega offensiva per liberare Costantinopoli e difendere tutto l’oriente dall’espansionismo turco. Impresa, che non trovò tuttavia l’adesione dei Principi europei, i quali all’epoca consideravano troppo rischioso l’intervento, non più sostenuto dagli ideali religiosi delle prime crociate.L’ultima delusione in ordine dì tempo fu per Bessarione proprio il rifiuto da parte del potente monarca francese Luigi Xl di aderire all’impresa, alla realizzazione della quale aveva dedicato tempo ed energie. In questo senso, il ciclo pittorico della cappella funebre può considerarsi una sorta di testamento spirituale a cui il cardinale affida le personali convinzioni religiose e le speranze di un nuovo assetto religioso e politico del mondo contemporaneo.
a sinistra, affresco originale staccato e conservato nella basilica; a destra, copia ricollocata nel luogo originale all’interno della cappella. La qualità non elevata dell’immagine è dovuta all’assenza di flash, ce ne scusiamo.
Nella raccolta inedita dal titolo Fuori le mura del 2016 di Angela Greco, la tipologia linguistica, moderna e per frammenti, punta tutto sul fermo immagine, nel tentativo di recuperare universi statici e in movimento, con proprie frazioni temporali e metaforiche. La parola poetica si forma ad ogni scatto di foto flash, mentre lo sguardo si fissa sulle “facciate in ristrutturazione”, su tutto ciò che proviene dall’esterno. E’ un reportage multiforme, coloristico, percepibile come illuminazione del momento nel tentativo di scoprire l’attimo ineffabile, fluidificante fra soggetti e oggetti. L’occhio è il periscopio puntato sul mondo. Le campionature dell’esistenza, polverizzate dal tempo giacciono su un terreno deflorizzato, tornando a esistere nel momento in cui il Vuoto, la frantumazione, il senso deleuziano di una “totalità perduta” finiscono di essere tali, per integrarsi nel corpo dei frammenti, che ridanno essenza, all’assenza, in un viaggio della mente e della psiche. Qui “l’effetto di superficie” diventa armonizzazione delle cose, categoria rifondatrice della materia, volontà di ricostruire tutto ciò che resta nel cuore e nella mente. Non c’è bisogno delle narrazioni, perché il discorso si affida al frammento, che svolge un ruolo di determinazione delle cose, con piccoli squarci dialogici, in una spirale di frantumazioni e di intuizioni che si fissano in una sorta di fotoni poetici.
Il postmoderno ha ucciso i cantastorie e gli aedi del lirismo. Si è istituito così l’ideale storico della liberazione da ogni contatto con la metrica, che governava rigidamente la struttura del verso nel Novecento. Oggi il criterio di validazione di un testo poetico, non può prescindere dalla ricostituzione della parola, che resta l’unico mezzo progettuale del divenire poetico. La modernità culturale lo esige. Profondità e altezza si annullano con una descrizione del mondo esterno e di quello interno nella configurazione della realtà attraverso i vari stadi, provvisori e fluidificanti. L’autrice annota tutto questo con ritmo crescente, misurando la propria lunghezza visiva su sfondi catarifrangenti formalizzati poi con i versi.
.
Appunto di Giorgio Linguaglossa sulla «Rappresentazione»
Il tratto caratterizzante della forma artistica del Moderno va individuato, secondo Foucault in quell’opera fondamentale che è Les Mot et les choses, nel concetto di Rappresentazione (Darstellung) attraverso la diagnosi di Las Meninas di Velazquez. I termini del problema sono presto detti. Si rappresenta l’atto stesso della rappresentazione: pittore, tavolozza, grande superficie scura della tela rovesciata, quadri appesi al muro, spettatori che guardano; da ultimo, nel centro, nel cuore della rappresentazione, vicinissimo a ciò che è essenziale, lo specchio, il quale mostra ciò che è rappresentato, ma come un riflesso così lontano, così immerso in uno spazio irreale, così estraneo a tutti gli sguardi volti altrove, da non essere che la duplicazione più gracile della rappresentazione.
Tutte le linee del quadro convergono verso un punto assente: vale a dire, verso ciò che è, a un tempo, oggetto e soggetto della rappresentazione. Ma questa assenza non è propriamente una mancanza, è piuttosto quella figura che “nessuna” teoria della rappresentazione è in grado di contemplare come suo momento interno. La caratteristica della rappresentazione alle origini del Moderno sta dunque nel fatto che il soggetto della rappresentazione, il produttivo “fuoco” che la sorregge, le coordinate, si colloca al di fuori della rappresentazione stessa.
L’absentia segnala dunque in Foucault la chiusura di ogni representatio. Nessuna teoria della rappresentazione è, in quanto tale, in grado di includere nel suo circolo il Soggetto-sostegno della rappresentazione. L’osservatore, per cui la rappresentazione è allestita, non può osservare se stesso, ma solo il suo simulacro, o, come in Las Meninas, la sua immagine riflessa nello specchio. La forma-poesia dell’età moderna rientra in questo schema epistemologico: il soggetto viene ad eclissarsi, viene detronizzato della sua presunta centralità e la sua visione diventa strabica, eccentrica, parziale, s-focata, fuori fuoco, fuori gioco, insomma, non è più centrale, ha perduto la sua centralità… ma questa intrinseca debolezza del soggetto, della centralità del soggetto, invece di rivelarsi una debolezza ontologica può, paradossalmente, riabilitarsi in una nuova volontà di potenza, in una nuova messa a fuoco del problema della rappresentazione e del soggetto che sta al di fuori di essa. In una parola, in una continua de-angolazione prospettica tipica delle moderne (o meglio post-moderne) forma-romanzo e forma-poesia.
È proprio il concetto di de-angolazione prospettica quello che vorrei mettere a fuoco nella poesia di Angela Greco. La de-angolazione prospettica in un testo letterario fa sì che si ha un inizio ma non una fine, non solo, e che all’interno dello sviluppo della rappresentazione non si dà un filo conduttore stabile ma un susseguirsi di punti di vista, di angolazioni prospettiche che confluiscono in un sistema di scrittura caratterizzata dalla multi prospezione prospettica; particolarità costruttiva che investe sia la forma-poesia che la forma-narrativa odierne. Caratteristica della poesia di Angela Greco è il suo procedere per «tagli» dell’oggetto, per sovrapposizioni e accostamenti di «pezzi», e successivo montaggio, per dis-locamento dell’io parlante, per «slittamenti» frastici, per «sviamenti» e «deviazioni» dall’ordito principale del discorso; c’è insomma, una dis-locazione, un andamento a zig zag, che va di qua e di là, che porta il discorso poetico attraverso deragliamenti di significati e di direzioni, quasi che il senso, se senso c’è del discorso poetico, fosse possibile afferrarlo soltanto tramite una serie continua di deviazioni e di smarcamenti dal filo del discorso, mediante illogicismi, inserzioni di onirismo, di surrealtà, di fatti del quotidiano, di relitti linguistici che galleggiano in un mare di prosasticità. (tratto dalla Rivista Letteraria L’Ombra delle Paroledel16 gennaio 2017)
Kazimir Malevich, La cavalleria rossa, 1932 ca. Museo Statale Russo, San Pietroburgo.
.
Nota dell’autrice – Queste composizioni inedite narrano incontri e situazioni reali e realmente accadute, che a loro volta hanno rimandato ad altri luoghi anch’essi spesso reali, ma ancor più simbolici e metaforici, inseriti per rimando d’immagine, mischiando soprattutto i piani temporali. La scelta del frammento si è adattata alla perfezione all’esigenza che da tempo avevo di rendere materialmente il problema del tempo sfuggevole e fuggente e del ricordo. Il momento, l’attimo, fosse del ricordo o dell’emozione, ho ritenuto opportuno renderlo in frammenti appunto, in flash, come fossi un fotografo, che sceglie (perché la stesura di un verso comporta delle scelte precise, delle decisioni da prendere) lo scorcio più idoneo, il taglio, l’angolazione, l’esposizione e solo dopo scatta la foto, dove “scattare la foto” qui sta per imprimere l’attimo su un supporto. Rimanendo nell’ambito delle scelte, per me la poesia è simile ad un taglio chirurgico, dove il chirurgo, deve sapere con esattezza dove incidere e ridurre al massimo l’indecisione (mancanza di decisione o indeterminatezza, ossia mancanza di definizione e torniamo così ancora all’immagine, che deve essere definita, precisa, e non generica) pena la vita del paziente. Così in queste poesie: i luoghi, i tempi, gli spazi, sono identificati con precisione, per catturare – non senza sforzo s’intenda – quel momento e non un altro; il momento preciso rimasto in me e che l’elaborazione-sedimentazione ha restituito soltanto dopo in poesia.
Angela Greco, FUORI LE MURA – inediti
Incontri urbani
Il cerchio perfetto dei tuoi occhiali
è sottrazione d’azzurro,
segna il confine dell’immagine riflessa
che accoglie il flash della macchina fotografica.
(Il fondale è lo spazio tra gli alberi
e la città in lontananza)
Nuda esco dalla Tempesta.
Settembre. Il giorno ha precisione meteorologica.
Il metal detector passa attraverso il suono delle campane.
Il treno esce allo scoperto lungo il muro disegnato.
Due file di auto e aceri a mosaico. La visuale.
Ti seguo.
In mezzo, un discorso sulla poesia.
Prima strada a sinistra. Facciata in ristrutturazione.
Le porte da saloon dell’ascensore stridono
e lo specchio ci riflette nei due angoli opposti.
Un metro quadrato fa procedere lentamente il tempo,
mentre al muro bianco si alternano vetro e luce.
Sesto piano. Rumore di chiave nella serratura.
Due porte. Corridoio con libri. Finestra aperta.
Interno giallo con legni scuri. Finestra chiusa. Stapelia Variegata apre il suo fiore fuoristagione
e non ha più importanza quel che accade all’esterno.
«Sono uno dei tuoi angeli relegati in Paradiso».
Ridi.
Il nono secolo è stato un tempo di battaglie, per me;
per te, il tempo del testo kashmiri e della sua filosofia.
Uno di fronte all’altro: clangore di spade e fruscio di pagine.
Le porte del tempio di Giano ancora aperte
oggi si chiudono in questo inizio. Siamo il passaggio
e la doppia fronte nel suo significato originario.
Il Novecento è la cicatrice ombelicale da disinfettare,
perché si occluda e possiamo allora dirci adulti.
Procediamo un millennio alla volta: il terzo,
dall’anno 753 dalla fondazione di Roma, ci sorprenderà.
Tra me e dio
Di quante parole ha bisogno un dialogo?
Pavimento coperto da schegge di vetro.
Lo specchio rotto e l’immagine in frantumi.
Guardo in basso. Ogni frammento amplifica la visione.
Black out. La midriasi svela una presenza.
Pugni chiusi. Prendo la direzione opposta.
In silenzio. Ascolto.
Siamo nel 1987. Giugno. L’ulivo è in fioritura.
Non ci sono nuvole dopo pranzo. Passeggiamo.
In lontananza la strada scende verso il vigneto.
Il cane abbaia ad un’auto di passaggio. Io gioco
a raccogliere le pietre lisce verdi e grigie del fiume
che nasconde la sua acqua in profondità.
Siamo nel 1987. Sto imparando a scrivere.
In quel preciso momento abbiamo smesso di parlare.
Ho incontrato Dio una notte del 1928. Primi giorni di gennaio.
Mi dissero che era nato da poco.
Ebbero paura morisse subito, la mattina stessa del parto.
Per questo giunse a gennaio.
Mi domandai dove fosse l’altra metà da cui anche quel dio era nato.
19 ottobre 1959. Paese in festa. Le campane suonano alle 11.
Sono passati cinquantasette anni e trenta secoli
dal giorno in cui le due parti si sono ricongiunte.
Pagina bianca. Mitra uccide il toro. Qualcuno muore sempre.
Dalla giugulare fiotta la fertilità della terra. Pagina scritta.
Ogni dio ha un sacrificio da compiere. Il mio è vivere.
L’immortalità è scrittura nell’agonia del foglio immacolato.
Ultimo atto. Quattro i cavalli e quattro i colori. Sette i sigilli.
Il giorno successivo al primo flagello ho imparato a cavalcare.
Una filastrocca scioglie la lingua e segna la strada.
Primo giorno di scuola. Finestra aperta. Siedo nel banco
vestita di bianco e tu sorridi lasciandomi la mano.
Dio è una promessa di ritorno.
Strada senza uscita
Da tre anni aspetto la fioritura dell’iris aucheri
affresco di Tebe e gioia del giardino del faraone,
introdotto in terra egizia dalla bella Siria.
Aspetto la scia colorata della buona notizia
l’attimo preciso in cui rileggere la carta delle vie
e lasciare alle stelle la decisione dell’esito finale
di questa strenua battaglia che lo specchio conosce.
La finestra è aperta su un nuovo documento word,
ultima versione, stessi caratteri, spaziatura e margini.
La seconda finestra si apre su una strada senza uscita. Cade a pezzi a quest’ora sulle terre del Sud un tramonto di bestia macellata annuncia la notte.
Il toro muggisce nel recinto di pietra all’ombra del castello:
il compianto è per un’altra morte, questa volta
non è Ignacio a lasciare la scena eppure l’odore è lo stesso.
La camicia azzurra stirata alla perfezione
induce ad allontanarsi dal tuo petto
per timore che linee segnino il desiderio.
Basta una stretta di mano, affare concluso
senza altre parole si stipula il contratto:
coltiveremo iris e alleveremo bovini per gli dei.
Ci occuperemo anche della morte,
in un secondo momento.
Il castello è chiuso al pari di un ufficio comunale.
A questo si riducono i viaggi, alla burocrazia.
Riprendo il cammino con l’indice tra le pagine
e mi fermo al quadrivio segnato dalla croce.
Leggo ancora un verso, quello in cui descrivi la città
e tutte le variazioni del suo nome. Siamo ad Oriente
e il ritorno all’ora legale affretta la sera e le sue ombre.
Scrivo un altro rigo seguito da puntini sospensivi.
Le colombe al mattino tubano sul balcone.
Il computer illumina la stanza centrale della casa.
La mattina inizia sempre con il caffè amaro
ed una lettura che mi restituisce il sogno.
Fuori le mura
Crollano all’esterno del palazzo
le mura, il re, pietre e attese.
Si spezza dell’abito dai bordi d’oro il filo
con cui era unito alle sete. Cadono bottoni.
Il telaio s’inceppa sull’ultimo punto:
un giorno di novembre ed un ritorno.
La regina ed i suoi enigmi destano Salomone.
Possono disconoscersi ed invertire i ruoli:
lui farà domande e lei avrà saggezza, ma
il deserto non cambierà la sua natura
e della sabbia si occuperà la carovana.
La notte segnata dalla stella riconduce a casa.
Living con divano in pelle e libreria. Terzo ambiente.
Orologio fermo all’ora del decesso. Dodicesimo anno.
La data immobile sul calendario dice che è dicembre
nuovamente il quindici. Come numeri dalla faccia d’un dado, ha detto il poeta,
mentre imperterriti perdiamo tempo in domande inutili,
distraendoci con risposte di comodo.
. Ricorrenze
#1
Novembre è entrato alla tua uscita
per fumare e telefonare.
Ha posto due domande:
«Continuare fino alla fine?»
«Fermarsi al 23, mercoledì, ore 19 e 40?»
La pioggia mi sorprende a ridere
incredula della voce alla compieta,
preghiera esaudita, immagine nitida
nella sera incipiente. Poi la cena, per prassi.
Si è abbreviata la distanza dalla luna.
Nuovi eventi hanno permesso l’avvicinamento
e non occorre più rivolgersi ad alcuna agenzia.
Per esplorare il cosmo basta guardare la foto:
quella dove stringi tra le mani l’ultima ora del giorno.
.
#2
«Dimmi cos’hai»
40 anni. Una penna. Fame.
Il libro degli astri. Un ricordo.
Scegli.
«E cosa vorresti?»
Un biglietto per l’Orient Express.
La voce legge Tranströmer: un chiarore blu…una fessura attraverso la quale i morti passano clandestinamente il confine.
Mentre ci diluiamo con le ore della notte,
una lampada velata aspetta l’alba.
Mario M. Gabriele è nato a Campobasso nel 1940. Poeta e saggista, ha fondato nel 1980 la rivista di critica e di poetica Nuova Letteratura. Ha pubblicato le raccolte di versi Arsura (1972); La liana (1975); Il cerchio difuoco (1976); Astuccio da cherubino (1978); Carte della città segreta (1982), con prefazione di Domenico Rea; Il giro del lazzaretto (1985), Moviola d’inverno (1992); Le finestre di Magritte (2000); Bouquet (2002), con versione in inglese di Donatella Margiotta; Conversazione Galante (2004); Un burberry azzurro (2008); Ritratto di Signora (2014): L’erba di Stonehenge (2016). Ha pubblicato monografie e antologie di autori italiani del Secondo Novecento tra cui: Poeti nel Molise (1981), La poesia nel Molise (1981); Il segno e lametamorfosi (1987); Poeti molisani tra rinnovamento, tradizione e trasgressione (1998); Giose Rimanelli: da Alien Cantica a Sonetti per Joseph, passando per Detroit Blues (1999); La dialettica esistenziale nella poesia classica e contemporanea (2000); Carlo Felice Colucci – Poesie – 1960/2001 (2001); La poesia di GennaroMorra (2002); La parola negata (Rapporto sulla poesia a Napoli (2004). È presente in Febbre, furore e fiele di Giuseppe Zagarrio (1983); Progetto di curva e di volo di Domenico Cara; Poeti in Campania di G.B. Nazzaro; Le città dei poeti di Carlo Felice Colucci; Psicoestetica di Carlo Di Lieto e in PoesiaItaliana Contemporanea.Come è finita la guerra di Troia non ricordo, a cura di Giorgio Linguaglossa, (2016). Si è interessata alla sua opera la critica più qualificata: Giorgio Barberi Squarotti, Maria Luisa Spaziani, Domenico Rea, Giorgio Linguaglossa, Letizia Leone, Luigi Fontanella, Ugo Piscopo, Stefano Lanuzza, Sebastiano Martelli, Pasquale Alberto De Lisio, Carlo Felice Colucci, Ciro Vitiello, G.B.Nazzaro, Carlo di Lieto. Altri interventi critici sono apparsi su quotidiani e riviste: Tuttolibri, Quinta Generazione, La Repubblica, Misure Critiche, Gradiva, America Oggi, Atelier, Riscontri. Cura il Blog di poesia italiana e straniera Isoladeipoeti.blogspot.it.
Angela Greco (nelle foto dell’articolo) è nata il 1 maggio del ‘76 a Massafra (TA), dove vive con la famiglia. E’ un perito agrario con alle spalle quattro anni di Medicina Veterinaria. Ha pubblicato: in prosa, Ritratto di ragazza allo specchio (racconti, Lupo Editore, 2008); in poesia: A sensi congiunti (Edizioni Smasher, 2012 di cui è in preparazione la seconda edizione con prefazione di Flavio Almerighi); Arabeschi incisi dal sole (Terra d’ulivi, 2013); Personale Eden (La Vita Felice, 2015, con prefazione di Rita Pacilio); Attraversandomi (Limina Mentis, 2015, con ciclo fotografico realizzato con Giorgio Chiantini e nota introduttiva di Nunzio Tria); Anamòrfosi (in uscita per le edizioni Progetto Cultura di Roma con prefazione di Giorgio Linguaglossa). È presente anche in diverse antologie e in diversi siti e blog.
Paul Gauguin, Te Arii Vahine (La donna dei manghi – La donna del re)
1896, olio su tela, cm 97×130 – Mosca, Museo Puškin
*
Come già avvenuto durante il suo primo soggiorno, anche questa volta Gauguin lascia Papeete e si costruisce una capanna all’interno del paese. Ma in questa occasione egli deve rinunciare alla compagnia dell’amante Tehura, che durante la sua assenza si è sposata. Tuttavia l’artista si vanta del proprio fascino dicendo: “Ogni notte le ragazze prendono d’assalto come indemoniate il mio letto”. Gauguin trova infatti molto presto una nuova amante: Pahura, un’adolescente quattordicenne. Le storie delle ragazze che non resistono al fascino amoroso dell’artista vengono illustrate in modo eccellente con i quadri di bellezze nude che costituiscono il motivo principale dell’opera ultima di Gauguin.
Il dipinto, in questo caso, ritrae la tahitiana Pahura con una complessa serie di riferimenti stilistici e simbolici. È sdraiata per terra alla stregua della Venere di Lucas Cranach (1518), ma nella posa evoca altri celebri nudi come la Maya desnuda di Francisco Goya (1805) oppure l’Olympia di Manet (1865), sdraiate a loro volta sul letto. Con le gambe incrociate e una mano a coprire il pube, la giovane si offre come le lascive dee dell’ amore della storia dell’ arte occidentale. Lo sfondo, ricco di piante immaginarie, rimanda invece per ammissione di Gauguin a un’allegoria del Paradiso terrestre. Il pittore si riferiva a questo quadro nelle sue lettere come a una “Eva tahitiana”.
La rigida morale sessuale del tardo Ottocento percepiva il fascino erotico soltanto in unione con sentimenti di pericolo e odio. A Tahiti Gauguin vuol finalmente liberarsi da questi timori verso l’amore e la passione. La sua Eva deve essere amata senza alcun senso di colpa. Gauguin scrive allora a Strindberg: “L’Eva della Sua concezione civilizzata porta quasi sempre Lei e noi a odiare le donne; la vecchia Eva, che Le ha incusso timore nel mio atelier, potrebbe senz’altro sorriderLe un giorno in modo meno amaro”.
Intervista senza domande a Mario M.Gabriele, sul suo libro L’erba di Stonehenge (edizioni Progetto Cultura, Roma, 2016), a cura di Flavio Almerighi
*
Un’intervista senza domande è certamente un fatto insolito, in quanto si decentralizza dal cliché normalmente usato, per far emergere alcuni aspetti particolari di un Autore, al fine di evidenziare i caratteri specifici di un’Opera o di un determinato pensiero, quale approccio a un discorso culturale, sociologico e filosofico. Considerata la nostra “condizione umana”, credo che l’unica traccia permanente dell’esistenza rimanga la scrittura, come sosteneva Derrida, e ciò vale anche per il patrimonio culturale trasmesso dalla scienza, dalla medicina, e dalle biotecnologie. Sui 7 punti fissati da Flavio Almerighi nell’Intervista, e in seguito riportati, relativi ad alcuni versi, prelevati dai vari testi della mia ultima opera dal titolo: L’erba di Stonehenge, che viene ad aggiungersi agli altri dodici volumi pubblicati nel corso di un quarantennio, oltre ai saggi e alle monografie di vari autori, cercherò di essere chiaro nel trasporre il significato delle figure grammaticali, (metonimie, allegorie, similitudine, ecc.) da me usate. Non so quale sia l’input che spinge un poeta a scrivere versi, rispetto a un metalmeccanico che non lo fa. Il concetto di poesia non risponde a nessun paradigma. Ogni poeta è uno “speleològo” che scende nella caverna del subconscio, per prelevare i suoi componenti, riportandoli in superficie come frammenti della realtà. Sorprendente è l’azione del pensare da cui nascono i rapporti con le varie fenomenologie. Scriveva Heidegger:” Può darsi che l’essenza propria del pensare si mostri a noi solo se restiamo in viaggio. Noi siamo in viaggio. Che cosa significa? Che siamo ancora tra (unter) lerotte (Wegen) inter vias, tra percorsi differenti. Ma quanto più un pensatore ci è vicino nel tempo e quasi contemporaneo, tanto più lungo è il viaggio verso il suo pensare, non per questo dobbiamo evitare il lungo viaggio”. (Heidegger M.” Che cosa significapensare”). In codesto “lungo viaggio” ci si smarrisce nella realtà, interrogandosi su ciò che è il Bene e ciò che è il Male; quel male che non è mai surrealismo o negazionismo, ma presenza di eventi passati e presenti, attraverso il linguaggio perlustrativo, e psicoattivo.
opera di Mario M.Gabriele
Nel suo incontro con gli studenti all’Università di Madrid, il 24 febbraio 2006, Claudio Magris sul tema: Diritto e Letteratura, così si esprimeva: “L’avversione della poesia al Diritto, ha verosimilmente un’altra ragione profonda. La Legge instaura il suo Impero e rivela la sua necessità là dove c’è o è possibile un conflitto: il regno del diritto e la realtà dei conflitti e della necessità di mediarli. I rapporti puramente umani non hanno bisogno del Diritto, lo ignorano: l’amicizia, l’amore, la contemplazione del cielo stellato non richiedono codici, giudici, avvocati o prigioni, che diventano d’improvviso invece necessari quando amore o amicizia si tramutano in sopraffazione e violenza, quando qualcuno impedisce con la forza a un altro di contemplare il cielo stellato” o brucia i libri come nell’era nazista e in qualsiasi altra violazione della cultura e dell’intelligenza.
Prima di entrare nel merito dell’Intervista, credo sia doveroso soffermarmi brevemente sul titolo del volume: L’erba di Stonehenge, che cela l’altra faccia di una realtà, come il Velo di Maya, caduto il quale ogni aspetto celato si rivela in tutta la sua funzione e specificità. In sintesi, ci sono due elementi dicotomici fra di loro: il sito neolitico di Stonehenge, che rappresenta il passato, ossia la traccia di ciò che è stato e che sarà il nostro futuro, nella temporalità degli eventi e dei “quanti” astronomici, e l’erba, invece, che è la vita che si rinnova.
Ed ecco i punti su cui poggia l’Intervista:
(a)a salutare i fantasmi della sera. (pag. 17)
Questo verso sta a significare la condizione degli esseri umani buttati in un tragico destino di morte, secondo Heidegger. La visione va oltre la fisicità del momento. Essa appartiene ad una percezione nella quale i “viventi” sono prefigurati già come ectoplasmi, prima di essere tali dopo la fine della loro vita.
(b) per questo la lasceremo ai lupi e ai cani. (Pag. 18).
La struttura del testo si dispiega verso spazi e contenuti avvolti dalla metafora che, nelle poesia svolge un ruolo di trasposizione della realtà. Qui si interconnettono elementi e soggetti diversi, ognuno con un proprio ruolo nella rappresentazione scenica. La donna da condannare è Yasmina da Madhia “che nella vita ha tradito eamato” e per questi suoi “peccati” merita la condanna a morte dai sostenitori del pregiudizio, e della morale, in onore di un credo o di un fanatismo religioso e comportamentale, che a volte sfociano nel femminicidio. Yasmina è il simbolo che rispecchia un po’ il disordine morale che affligge la nostra società, lacerata da precarietà e violenza. Ma quasi tutto il testo è la messa in scena di un processo virtuale nel quale appaiono figuranti di reati di fronte a un Giudice. Questa è l’aura originaria da cui è partita la frase.
(c) I Crani della Storia luccicano sotto i campi di baseball, (pag. 20).
E’ un testo di matrice civile il cui iter poetico ha latitudini geopolitiche precise. Mi riferisco, in particolare, all’Irak e a chi ne ordinò l’invasione, per far fronte alle armi di distruzione di massa possedute da Saddam, così come dichiarato da Blair; tesi che in effetti, non è stata mai dimostrata l’esistenza, lasciando questa nazione in attentati permanenti. Da qui il saluto ironico di Good Morning President, rivolto a chi pretestuosamente, pianificò la guerra, mentre I Crani della Storia stanno a simboleggiare le morti di innocenti, caduti sotto le bombe al fosforo bianco o sottoposti alle torture nella prigione di Abù Maghrib.
(d)La sera chiudeva la giornata con un uomo in transumanza, (pag.24).
Per chiarire meglio questa frase, occorre collegarsi a quella precedente ossia a: Uno sotto l’Arco del Trionfo, senza donne e mascarpè, esile come un giunco (non più del ramo di una quercia) ecc. E’ la descrizione fisica di un soggetto che va incontro alla morte simboleggiata dalla sera, e che chiude la giornata (la vita) passata in transumanza, cioè trasferita altrove. Sul tema della Morte e della Vita, ma anche su altri di più marcata centralità, si muove la mia poesia, e che altrove, in un’altra Intervista, ne metto in risalto il controsenso, riducendone la loro effettualità in tanti frammenti, oltre ai quali c’è il non Essere in contrasto con il “cerchio deldivenire” di Emanuele Severino, che con le sue teoresi filosofiche centralizza l’assentarsi della morte nel ciclo vitale dell’uomo.
(e) ma non avete un penny per i vostri peccati, (pag.29).
Per entrare nel fulcro di questa frase, bisogna rifarsi alla lettura di un passo della Bibbia dell’Antico Testamento, là dove si parla della Creazione e del potere dato dal Signore all’uomo su tutti gli animali. Da qui la trasposizione in versi che fa riferimento a: “Saranno vostri i delfini del mare / e gli uccelli del cielo/, e quella del Decalogo, le cui Leggi non concedono alcun premio ai trasgressori; da qui il senso di “non avrete un penny (ossia, ricompensa) per i vostri peccati”/.
(f) Lungo la Deutsche-Limes Strass /, tra striduli violini e suonatori d’orchestra /, tornarono in nente le cialde dei forni di Auschwitz /, anche se il meglio con il tempo / non è mai venuto /, dopo il canto di Simeone / e le campane di Pasqua /,pag.30.
Il suono dei violini è la riconduzione della memoria agli strumenti musicali dei prigionieri dell’ultima guerra, quando erano costretti a suonare all’aperto per gli aguzzini nelle serate al chiar di luna, come in molti film neorealisti e in Schindler’s list. Su codesto ambiente s’incuneano le immagini di coloro che morirono nelle camere a gas o nei forni crematori: persone viste come “cialde”, anche se dopo codesta tragedia nulla è cambiato, nel senso che le violenze continuano ancora oggi a verificarsi ai danni dell’umanità, e nè Il canto di Simeone, e nè le campane di Pasqua, da me citati, riescono a sconfiggere il Male nel Mondo, tanto che ad Auschwitz fu decretata la morte di Dio.
(g) senza deliri e metafisiche accensioni, (pag.32).
La citazione dell’opera Un altro settembre di Thomas Kinsella, scrittore irlandese, nasce dal fatto che questo suo lavoro, sviluppa temi esistenziali, senza che egli ricorra a salvagenti metafisici e religiosi, e il verso da me adottato, chiarisce molto bene questa peculiarità, laddove sintetizzo il tutto con senza deliri e metafisiche accensioni. Perché questa scelta? Mi è sembrato percepire, dopo la lettura dell’opera, una certa sincronia psicoestetica intorno alla visione del mondo di Kinsella con la mia, completamente lineare alla sua.
∼∼∼
Decodificati così i punti di maggiore evidenza, ritengo utile (anche se ciò può violare un po’ l’organigramma dell’intervista di Flavio Almerighi), specificare meglio la struttura della mia poesia, rifacendomi ad un post di Giorgio Linguaglossa, apparso su L’Ombra delle parole (3 settembre 2015), in cui chiarisce meglio l’ambiente nel quale opero e sviluppo i testi:
“Mario Gabriele utilizza il «frammento» come una superficie riflettente, un «effetto di superficie», un «talismano magico», una immagine di caleidoscopio, un «cartellone pubblicitario»; impiega il «frammento» e la composizione in «frammenti» come principio guida della composizione poetica; ma non solo, è anche un perlustratore e un mistificatore del mistero superficiario contenuto nei «frammenti», ciascuno dei quali è portatore di un «mondo», ma solo come effetto di superficie, come specchio riflettente, surrogato di ciò che non è più presente, simulacro di un oggetto che non c’è, rivelandoci la condizione umana di vuoto permanente proprio della civiltà cibernetico-tecnologica. È una poetica del Vuoto, una poesia del Vuoto. E il Vuoto è un potentissimo detonatore che l’innesco dei «frammenti» fa esplodere. La sua poesia ha l’aspetto di un fuoco d’artificio che si compie in superficie; si ha l’impressione, leggendola, che si tratti di una diabolica macchinazione della simulazione e della dissimulazione, ci induce al sospetto che sia la nostra condizione umana attigua a quella della simulazione e della dissimulazione: non sappiamo più quando recitiamo o siamo, non riusciamo più a distinguere la maschera dalla «vera» faccia. La poesia diventa un gelido e algebrico gioco di simulacri, di simulazioni e di dissimulazioni, una scherma di sottilissime simulazioni, citazioni, reperti fossili, lacerti del contemporaneo utilizzati come se fossero del quaternario. È una poesia che ci rivela più cose circa la nostra contemporaneità, circa la nostra dis-autenticità di quante ne possa contenere la vetrina del telemarket dell’Amministrazione globale, ed è legata da analogia e da asimmetria al telemarket, danza apotropaica di scheletri semantici viventi…
Ricevo da Ubaldo de Robertis questa citazione di Mandel’stam sulla poesia. Credo che si attagli perfettamente alla poesia di Mario Gabriele e alla nostra sensibilità: “Non chiedete alla poesia troppa concretezza, oggettività, materialità. Questa pretesa è ancora e sempre la fame rivoluzionaria: il dubbio di Tommaso. Perché voler toccare col dito? E soprattutto, perché identificare la parola con la cosa, con l’erba, con l’oggetto che indica? La cosa è forse padrona della parola? La parola è psiche. La parola viva non definisce un oggetto, ma sceglie liberamente, quasi a sua dimora, questo o quel significato oggettivo, un’esteriorità, un caro corpo. E intorno alla cosa la parola vaga liberamente come l’anima intorno al corpo abbandonato ma non dimenticato. […] I versi vivono di un’immagine interiore, di quel sonoro calco della forma che precede la poesia scritta. Non c’è ancora una sola parola, eppure i versi risuonano già. È l’immagine interiore che risuona, e l’udito del poeta la palpa. (Osip Mandel’stam, in La parola e la cultura). Con questa chiusa ringrazio vivamente Flavio Almerighi per l’attenzione dimostratami e per la lettura del mio volume: L’ erba di Stonehenge.
[Mario M.Gabriele]
.
Due testi tratti da L’ erba di Stonehenge (Ed.Progetto Cultura,Roma, 2016)
§
E andammo per vicoli e stradine.
In silenzio appassirono il vischio e il camedrio.
Più volte tornò il falco senza messaggi nel beccuccio.
Restarono i giorni guardati a vista, arresi,
un gran vuoto dentro il link e la scritta sopra i muri:
– Non cercate Laura Palmer -.Correva l’anno……
L’erba alta nel giardino preparava un’estate
di vespe e calabroni. La nostra già era andata via.
Giusy trattenne il fiato seguendo il triangolo delle rondini.
– Se vai pure tu – disse, io non so dove andare!
Con i ricordi ci addormentammo e non fu più mattino.
L’alba non volle metterci lo sguardo.
Il boia a destra, il giudice a sinistra.
Caddero rami e foglie.
Fuggirono l’upupa e il pipistrello.
Nel pomeriggio confessammo i nostri peccati.
La condanna era appesa a un fil di lana.
I capi del quartiere si offrirono per la pace.
Li conosciamo – dissero. – Hanno dato tutto a Izabel
e Ramacandra. – Aronne è morto.
– A chi daremo allora ogni cosa di questo mondo? –
– La darete a Lazzaro, e a chi risorge
su questa terra o in un altro luogo e firmamento,
prima del battesimo dell’acqua,
non qui dove una quercia in diagonale,
come in una tavola di Poussin,
fermerà il tempo, e sarà l’ultima a fiorire –
§
A casa di Morrison si concluse il Patto.
Furono messi all’asta il Bene e il Male.
I frati della Congrega
si sparpagliarono per il mondo
passando per le Cinque Terre,
portando via bachi da seta
e cinque haiku di Matsuo Basho.
Nella settima strada di New York
un coro cantava Happy Birthday.
Tutti i morti uscirono dal tunnel
fermandosi chi nei pub,
che nelle vecchie camere da letto.
Questa mattina siamo stati nel giardino di Klingsor
a vedere come stanno le cose.
L’ingresso era chiuso.
La chiave gettata nel pozzo.
Ida da tempo non stava più bene.
Un signore andava in giro chiedendo money
per l’Africa World..
Il profeta deve aver fatto paura.
-Lascerete qui pelle e ossa e le ritroverete domani
quando finirà la tempesta.- sentenziò senza repliche.
Francoise de Mulier non ce la fa più
a reggere l’amore di Arnold.
La vita è tutto questo?-
-Un po’ di più, un po’ di meno, ma è così.-
– E che altro?. Non so dire!-
Uno, due, tre colpi d’asta batté il direttore d’orchestra
sul concerto dei Pink Floid.
Uno dopo l’altro lasciamo ogni giorno
gli anelli di nozze sui tavolini al confine.
Scandisce di nuovo il suo tocco il Big Ben.
Sono riapparsi i fantasmi della Senna.
.
Mario M.Gabriele, è nato a Campobasso. Poeta e saggista, ha fondato nel 1980 la rivista di critica e di poetica Nuova Letteratura. Ha pubblicato le raccolte di versi Arsura (1972); La liana (1975); Il cerchio di fuoco (1976) finalista Premio Casa Hirta 1977; Astuccio da cherubino (1978); Carte della città segreta (1982); con prefazione di Domenico Rea, Premio Chiaravalle ed Enzo Assenza (1982), finalista Premio Pisa, 1982; Il giro del lazzaretto (1985); finalista premio Minturnae 1985; Moviola d’inverno (1992); la tetralogia Le finestre di Magritte, (2000); Bouquet, (2002); Premio speciale Penisola Sorrentina (2002); Conversazione Galante, (2004) segnalazione Premio Sandro Penna 2004, 2° Premio Aeclanum 2007; Un burberry azzurro (2008), Ritratto di signora (2008). Inoltre ha pubblicato monografie e antologie di autori italiani del Secondo Novecento. E’ presente in rete con il blog L’isola dei poeti.
[Il dramma nel contesto di quello che si dice amore non consiste tanto nel non esser amati quanto nell’esser costretti al non amore. Una delle più gravi effrazioni della libertà. D’altro canto la stessa cultura che mi arma e che mi sfama impone il giudizio come variabile che covaria con i codici della morale. Questo parametro è poi ulteriormente mortificato dagli scarsi gradi di libertà che vengono concessi alla questione Amore. O sei innamorato o sei un Santo.
L’essere semplicemente sei strati di corteccia senziente e autoreferenziale viene volutamente dimenticato.]
.
.
§
.
.
Rimanènza
.
.
Rimanere
ferma,
per partire meglio
chiudere l’aria nella scatola del petto
guardare come guadare
ferma!
non s’oda che lo scintillio delle stelle
ferma,
per il sapere del cranio e della pietra scelta
s’infila la lama
dov’e’ la costola puntuta
.
L’altalena si consuma immemore della sua mobilità
la voce degli spazzini unica onda umana
scompone l’equazione caotica della polvere sostenuta dal vento
Il garrito intrepido dei gabbiani fra le antenne
richiama sfibrate voci in lontananza paradossale
tremano cigolii nelle trombe
ma lungo le scale e dietro gli angoli o dopo l’isolato
niente c’e’ da me se non un me
ellissi intorno al mondo come un elettrone intorno al suo orbitale.
.
La gola oceanica del nulla
attende come sempre galante
lì dove finisce il tempo
e l’universo si espande
ben oltre la parola fiore e la parola fine
in bocca ad un semi-dio scarno
rimanermi addosso
e rimanermi dentro
ferma
dissimulare l’atmosfera
con la testa in un carillon, fra le gambe di due statuette che si baciano sotto la neve
(ben poco ci vuole per avere la neve ad agosto)
.
Il pendolo oscilla nella teca preziosa
il carillon rovinando per terra
mi appunterà
ferma
parola su parola
taglio dopo taglio
graffio sopra graffio
silenzio dopo silenzio dopo silenzio
piuma sopra piuma
cigno sopra l’acqua
gabbia di oleandri
bocca di leone
dente di dinosauro
mi appunterà
fra le onde sonore che si moltiplicano seguendo la sfera incandescente abbattutasi all’orizzonte
ferma
sul nuovo vociare umano
stormi di uccelli uccisi per la strada
curve etiliche sulla terra che trema
di decibel
risonanze
violenza e paura
.
Ferma!
Non s’oda che lo scintillio dell’ombra
sul guado torbido dell’orda umana
.
.
§
.
.
Andromaca (Scompaginare – 04)
.
.
(Poi)
(Ad un certo momento)
.
Le labbra seccano
il respiro arretra
e il pensiero si slaccia
priva di presenza
spalanco gli occhi sulle stringhe di una poesia
e la retina sui gomiti
ricorre e rincorre il bianco e l’ombra
l’ombra e il bianco
e l’assenza minuzia di polvere e bellezza
.
e il mare affonda
…lì…
.
fra la porta e la pausa
nell’aria e nella morte
nell’illusione matematica di una poesia
.
Forse ti amo
Forse non ti amo
Forse la distanza che separa me dal resto
te da me
dei fianchi che si ritraggono
e la carne che si dà
nonostante tutto
nonostante il resto della distanza
felice di aprirsi
in un moto misericordioso
fra i corpi ed il pavimento
il pavimento e la sedia
la sedia e il tuo braccio
il braccio e la tua bocca
E la luce gialla della lampada
non basta a contenere l’ombra
che da dietro
la sedia si dilunga
illimitata
…lì…
.
oltre i prati
…lì…
.
dove
la sostanza
.
Forse la distanza della sedia dalla notte
Della soglia dal paradosso
dalle storie indifese
dalle scale a testa in giù
dalla mano che si bagna
dal poro che si stringe
dal respiro che si affanna
…lì…
.
mi sollevo dalla terra
e un’umidità di muschio
.
E tu
ed io con te
al margine del letto
al margine della sedia
al margine della luce
al centro della stanza
al centro della storia
al centro delle bocche
.
nel margine di noi
.
(Poi)
…lì…
.
esisto
fra la pausa ed il verso.
Nella distanza fra me e il tuo silenzio
.
.
§
.
.
Senza testa II
.
Un cucchiaio si fa strada scavando dentro fino all’osso.
Nuove intrusioni intubano un altro consorzio urbano dentro di me.
Ùnico credibile l’incredibile accompagna il pianto a tornare al pianto
presso la luce gialla e miope della follia
la lampada rimane posata su un ricamo di chiodi di garofano
per non graffiare il legno del tavolo.
Ùnico esistere possibile tessere ragnatele di perfette impossibilità, sferruzzare simbolismi amniotici, feci e solennità.
Il gelo come favilla – adorato amore per l’idee – il ricamo adorna il silenzio e il silenzio si lascia adornare – i corpi hanno perso le ginocchia
i piedi avanzano scalzi.
Il silenzio ricama fogli bianchi e il foglio bianco con la punta di un ombrello si lascia ricamare. Gli ombrelli eran fatti di piombo. Gli ombrellai erano matti.
La finirono poi con l’esser matti non per mancanza di pioggia e neanche di piombo. Solo poi si disse in linguaggio corretto e scientificamente provato – Sostanza neurotossica non filtrata dalla barriera-emato-encefalica.
Il matto smise di esser matto e fummo così ordigni ambulanti; ancora di quanto in quanto una punta d’ombrello adorna il silenzio. E il silenzio si lascia adornare.
La vita – dicemmo – il residuo di se stessa
La poesia – facemmo – residuo della vita.
Stasera che la pioggia allaga a valle e i viottoli in discesa sembrano torrenti
imbastimmo imbiancammo imbandimmo.
Stasera che gli ombrelli sono scalzi imbandisco una tavola per nulla
Nulla nel quale macino e rimacino ossa e pensieri e cellule nervose
Nulla che mancammo
Nulla di ebrezza virtuosa, mormorio lancinante nonostante la rabbia, nonostante il dolore intiepidimmo brande e ospedali di altre genti.
Nulla che dipinse la culla, nonostante il dolore nel raggio semplice di un solo sporcarsi in un solo destino minuto.
Narda Fattori, due poesie da Cambiare di stato, morire di natura (CFR edizioni 2014)
.
Incontro un ricordo sulla faccia
imbronciata di una luna rossa e tonda
che segue il mio cammino
di vaghezze e disarticolate ossa
sì che ogni passo è testarda volontà
di procedere non ho trovato la panchina
adatta alla forma che mi tesse il pensiero
erratico errabondo mai estatico.
Nel cono di luce punto fermo
del lampione che seziona la notte
non cerco esclamativi né interrogativi
mi metto in fuga disperando la visione
dell’ultimo scontro frontale.
Fu così che conobbi la punteggiatura
i puntini di sospensione la virgola
per ripartire dopo che la brina ha gelato
le spine in arabeschi che raggelano
ho trovato una treccia salvata
da una sforbiciata di tanti anni fa.
riparto da un punto e virgola
e da uno sberleffo che mi fa bambina.
§
La grammatica del dolore la sua punteggiatura
l’ho imparata con un vagito nell’afa di luglio
sono stati molti gli esercizi per la sua signoria
avevo il fuoco sotto lo sguardo basso
mentre mi piagavo e resistevo come al calcio un sasso
e ora che ho col tempo ed esperienze
la padronanza di tutte le declinazioni e le eccezioni
taglio via la talea marcita rigetto quel pensiero
nero che non buca il silenzio e incrina l’osso
la grammatica del dolore è sbocciata intera
e ha disegnato le mia forma la piega nuova
invasiva come la gramigna s’estende dalla guancia
alla caviglia e fiorisce sottopelle e più la strappo via
più prende terreno mi inseguirà come la preda
il predatore
nascondermi non serve mi troverà ovunque
la luna al suo primo quarto ambisce farsi piena.
.
Narda Fattori, nata a Gatteo (FC). Ha compiuto studi di linguistica e si è impegnata come formatrice per l’IRRSAE (ora IRRE) e come autrice di libri di didattica per diverse e qualificate case editrici. Ritrovata l’ispirazione poetica e narrativa agita in gioventù e abbandonata per scelte personali , ha partecipato con successo a concorsi innumerevoli, ricavandone successo e premi , ha pubblicato diversi libri e partecipa alla compilazione di antologie. E’ redattrice del sito VDBD. E’ presente in altri lit-blog, scrive prefazioni, recensioni, conduce laboratori di scrittura poetica e narrativa.
I suoi libri di poesia pubblicati sono: Se amor parla, Autore Libri, Firenze 1995; E curo nel giardino la gramigna, Ibiskos (Empoli) 1996, ( premio editoriale); L’una e i falò, Il Vicolo, Cesena 1998; Terra di nessuno, Lucca, 2000 (Premio editoriale “Olinto Dini” di Castelnuovo Garfagnana); Verso occidente, Fara editore, Rimini 2004; Cronache disadorne, Ed. Joker, 2007 , Novi Ligure ; Il verso del moto, Moby Dick editore, 2009 , Faenza; Le parole agre, editrice L’arcolaio, 2011; Dentro il diluvio, edizione puntoeacapo, 2011 , Novi Ligure ( premio Editoriale Astrolabio di Pisa).
È presente con una silloge di dieci poesie nei volumi antologici Voce Donna 1997, Voce Donna 1998, Voce Donna 1999, Il Vicolo, Cesena; nell’antologia Santarcangelo della poesia, Luisè editore (RN), 1998; nell’antologia Il novecento etico-religioso a cura di Vittoriano Esposito, Bastogi editore; nell’antologia Farapoesia con la silloge A che punto è la notte? , Fara Editore 2010 , Rimini; nell’ antologia Creare mondi con la silloge De profundis , Fara Editore, 2011 , Rimini; la silloge Canzone nell’antologia Dentro il mutamento, Fermenti editrice 2011.
[si ringraziano Poetarum Silva e Poesia 2.0 per la realizzazione dell’odierna pagina]
*
Narda Fattori ha salutato questa vita soltanto un paio di giorni fa…Questo l’omaggio de Il sasso nello stagno di AnGre alla poetessa e alla sua poesia.
L’Antologia, creata per i lettori de Il sasso nello stagno di AnGre a fine dicembre, è stata un momento proficuo non solo per conoscere tanta poesia italiana contemporanea, ma anche per apprezzare l’espressione artistica di Giorgio Chiantini, GiorChi nella firma fotografica, stimatissimo collaboratore di queste pagine, grazie alla fotografia di copertina (in apertura), gentilmente prestata per l’occasione, un poetico scatto capace di fermare l’attimo tra la luce e l’intimità di una casa in festa.
La passione di Giorgio Chiantini per la fotografia risale agli anni Settanta, quando questo mondo non si avvaleva di alcun supporto iper tecnologico come oggi, ma occorreva realmente imparare un’arte difficile, in cui sensibilità e rigore si muovevano su un terreno non semplice. Sensibilità, perché una fotografia è il prodotto della mira, che dagli occhi, passa al cuore e fa cliccare il bottoncino dell’otturatore in una frazione di tempo non definibile; rigore, poiché la fotografia, almeno ai tempi in cui era un prodotto letteralmente artigianale, comportava conoscenze non indifferenti sui tempi di azione dei prodotti chimici e non solo, dai quali, solo alla fine di un lungo processo, si poteva o meno ottenere un buon risultato.
La fotografia insegnava, oltre tutto, l’arte dell’attesa; oggi i tempi e le modalità fotografiche sono agli antipodi e una buona foto è spesso il risultato di una sofisticatissima tecnologia, che ci permette di catturare in una frazione di tempo sempre più piccola, dettagli e situazioni, che hanno capovolto anche l’idea stessa di fotografia, facendola passare da arte capace di vincere il tempo a ingombro fastidioso… e penso alle miriadi di foto inutili iper scattate solo per rispondere all’esigenza dei tempi moderni di essere in ogni momento in qualsiasi luogo-telefono, nell’aberrazione di un uso indiscriminato del mezzo telematico di cui spesso risultiamo schiavi… Ecco, Giorgio Chiantini è riuscito ad entrare nel mondo fotografico moderno con una sensibile eleganza, scattando per passione ancora, per piacere, avvalendosi degli insegnamenti della fotografia analogica ed innestandoli in quella digitale, conservando lo sguardo globale da cui poi ritagliare il dettaglio, secondo un successivo lavoro fatto fuori dal campo ripreso.
Giorgio Chiantini nei suoi scatti cattura attimi di quotidiana realtà: momenti sottratti alla distrazione dei passanti, che racchiudono la domanda, la curiosità anche solo di indovinare lontanamente cosa ci possa essere in quegli sguardi, in quelle espressioni che l’obiettivo ha scelto di trattenere. Non scatta, Giorgio, per voyeurismo, come tanta fotografia anche molto nota, ma più che altro, per quello spirito fanciullo di curiosità e di scoperta, che rende la sua fotografia delicata ed estremamente vicina a chi la guarda.
Roma, eterna e distratta, con le sue stradine sconosciute ed i suoi dettagli inattesi, le città che attraversa, la storia nelle sue statue e nei suoi monumenti, l’arte, i volti e le facciate di chiese e case, entrano negli scatti di GiorChi in punta di piedi, colme di sensibilità e dolcezza, rivelando anche la serenità del fotografo, che usa questo mezzo artistico per ritrovarsi solo con il suo tempo e per conoscere questo, invece, di tempo, in un continuo scambio e in un continuo rinnovo. [Angela Greco]
*
Giorgio Chiantini, nato a Roma, è stato responsabile commerciale per oltre trent’anni di un’importante azienda automobilistica della capitale; sposato e padre di due figli, nonno e appassionato d’arte, oggi si dedica alla famiglia, alla fotografia e alla riscoperta della sua splendida città.Collabora con Il sasso nello stagno di AnGre dove si occupa di arte e musica, sue fotografie sono state incluse in Attraversandomi, libro poetico-fotografico realizzato in collaborazione con Angela Greco. E’ presente in rete con un profilo personale ed una attiva pagina su Google+.
Buona ventura è un dipinto a olio su tela (115×150 cm) realizzato dal Caravaggio tra il 1593 ed il 1594. La prima versione, questa che condividiamo nella foto d’apertura, è conservata nella Pinacoteca Capitolina di Roma; mentre un’altra versione di questo dipinto si trova presso il Museo del Louvre di Parigi.
Dipinto presumibilmente, quando Caravaggio frequentava la bottega del Cavalier d’Arpino, a Roma, cioè fra il 1593 e 1594, la radiografia del 1977 ha mostrato, sotto lo strato della pittura, un dipinto dello stesso Cavalier d’Arpino per la chiesa di S. Maria in Vallicella, mentre la tela venne poi ricoperta per poter essere nuovamente utilizzata, in un periodo in cui l’artista milanese non era ancora in buone condizioni economiche per potersi permetterne una nuova. Il primo acquirente della Buona ventura fu il cardinale Francesco Maria del Monte, che, in seguito, quando Caravaggio lasciò il Cavaliere, lo ospitò e lo fece lavorare nel suo palazzo Madama. Il dipinto risulta infatti, insieme al S. Giovannino capitolino, presente negli inventari del Cardinale. Gli eredi del Monte lo vendettero,poi, a Pio Savoia nella cui collezione si trovava quando, nel 1750, su indicazione di papa Benedetto XIV, che voleva acquistare quadri per i Musei Capitolini, venne fatto stimare dal cardinale Silvio Valenti Gonzaga. Il dipinto risultava presente nelle collezioni capitoline nei due inventari ottocenteschi ed ancora oggi vi si trova insieme al S. Giovannino.
Il soggetto è una zingara che, mentre legge la mano al cavaliere, gli ruba l’anello che porta alla mano. L’indagine radiografica del 1985 mise in luce il dettaglio delle dita della zingara che sfilano l’anello all’ingenuo giovane ben vestito, che oggi nel dipinto, malgrado i restauri, non è ben visibile. La tradizione vuole che Caravaggio avesse scelto per modella una vera zingara che vide passare davanti al suo studio e, come riporta il Bellori, “condottala all’albergo la ritrasse in atto di predire l’avventure”.
Si tratta di una scena di vita quotidiana, tipica nelle vie del centro di Roma: una zingarella, con il pretesto di leggere la mano a un ingenuo giovane di buona famiglia, catturando la sua attenzione col suo sguardo malizioso, gli sfila abilmente un anello dal dito. La giovane gitana è graziosa e spregiudicata: la camicetta ricamata e il turbante avvolto intorno alla testa le danno un’aria fresca e leggermente esotica; il sorriso con cui attrae l’attenzione del ragazzotto è un gioiello di sottigliezza psicologica. Il volto grassoccio del ragazzo garbato rispecchia perfettamente la sua disarmante ingenuità ed anche la piuma che spiove dal suo cappello, sembra accrescere la mollezza del carattere.
Il momento culminante della scena è il gesto del dito medio destro della zingarella, che, mentre accarezza il palmo della mano del ragazzo, riesce a sfilargli abilmente l’anello. Gli orli sporchi delle unghie sono un dettaglio che comparirà più volte nei personaggi popolari del Caravaggio. La scena del dipinto è una tipica “scena di genere”; tuttavia vi sono buone probabilità che l’artista si sia rifatto anche ad una scena di teatro ed oltre ad essere, appunto, “scena di genere”, il dipinto può essere letto anche in chiave moralistica con riferimento alla Parabola del Figliol Prodigo (Lc XV, 11-12 ) e, dunque, come un ammonimento nel non riporre fiducia nei falsi adulatori e in coloro che vogliono indurre al peccato. Il dipinto ebbe largo successo e fu imitato da molti caravaggeschi. (adattamento del testo di Wikipedia)
Affascinante, carismatico, inimitabile, questo e molto altro è stato Frank Sinatra, leggenda indiscussa della storia della musica. Nato esattamente 100 anni fa, il 12 dicembre del 1915 ad Hoboken, nel New Jersey, da padre siciliano e madre ligure, mostrò fin da adolescente la sua passione per il canto, tanto che decise di farne il suo mestiere, spinto anche dall’ammirazione per il cantante Bing Crosby.
Mosse i primi passi tra concorsi canori ed esibizioni nei locali; poi, la svolta arrivò nel 1940, quando entrò nella swing band del trombonista Tommy Dorsey, diventando presto un idolo per i teenager. Due anni dopo lasciò il gruppo per proseguire la carriera come solista, che gli valse la consacrazione nel panorama musicale, facendo di lui il più celebre dei crooner, i cosiddetti cantanti ‘confidenziali’ tra pop e jazz. Artista poliedrico dal talento ineguagliabile, Sinatra venne soprannominato con diversi appellativi: “The voice” per la sua voce calda, impeccabile e inconfondibile; ma anche “Old blue eyes”, per quegli occhi azzurri, che stregarono innumerevoli donne e “Swoonatra” a causa degli svenimenti che procurava nelle sue ammiratrici.
Dal 1944 iniziò la sua ascesa anche nel mondo del cinema, che gli valse un Oscar, come miglior attore non protagonista, per la sua interpretazione di Angelo Maggio nel film “Da qui all’eternità” del 1953.
Come ogni divo che si rispetti, la sua vita sentimentale fu particolarmente turbolenta: quattro matrimoni (tra cui quelli con le attrici Ava Gardner e Mia Farrow) e una lunga lista di relazioni, vere o presunte. Sinatra fece molto parlare di sé anche per le sue amicizie politiche, tra le quali quella con il democratico John Fitzgerald Kennedy e quella con il repubblicano Ronald Reagan, e per i presunti rapporti con la mafia; ma il successo prevalse sempre sulle ombre gettate su di lui.
Nella sua lunghissima carriera, durata 60 anni, non sono mancati momenti di crisi, eccessi e sregolatezze, come quelle con i Rat Pack (la “Banda di topi”), il gruppo formato da Sinatra e altri famosi uomini dello spettacolo, quali Dean Martin, Sammy Davis Jr, Peter Lawford e Joey Bishop, che insieme interpretarono diversi flm tra il 1960 e il 1965 dei quali il più famoso è “Colpo grosso” (Ocean’s 11, di cui è stato girato un remake nel 2001). E, sempre durante la sua ineguagliabile carriera, Sinatra annunciò più volte di voler abbandonare le scene, ma tornò sempre sui suoi passi. Il vero addio ai concerti avvenne nel 1994, mentre pochi anni più tardi, il 14 maggio 1998, il cuore di Sinatra, già provato, fu stroncato da un infarto, il quarto: aveva 82 anni. L’America e il mondo intero persero “la voce” del Novecento.
Il suo nome resta legato a canzoni immortali, come “Strangers in the night”, “Come fly with me”, “New York, New York”, “I’ve got you under my skin”, “Fly me to the moon” e “My way” delle quali qui presentiamo un omaggio. (a cura di Giorgio Chiantini – fonti varie)
“LA POESIA NON E’ MORTA”: la Poesia come arma di risveglio di massa – di Giuseppe Schembari (per la nuova pagina Sassi dalla Sicilia)
.
LA POESIA
La poesia
non può morire
su un’asettica pagina bianca
per restare silenzio
e divenire una muta risacca
Primigenia dicotomia
non fermarsi al testo
ma spingersi oltre il contesto
non perire ai confini della parola
ma procedere fuori
dai sentieri battuti
un Urlo dissonante
a cui non è negato
passare all’essere
e perseverare
.
Oggi la Poesia sembra aver perso la sua funzione di azione sulla realtà, quel suo naturale scopo, la sua utilità, il vero motivo – che si pensava potesse essere irrinunciabile – per cui il poeta scrive poesie.
La Poesia deve ritornare ad essere un’arma costantemente puntata contro gli artefici e i responsabili dell’immane malessere in cui ci troviamo. Nel caos attuale diventa indispensabile che la Poesia risvegli la coscienza da troppo tempo narcotizzata di tutti, perseguendo una profonda ricerca non già del tempo perduto, quanto piuttosto del tempo a venire, per recuperare quelle parole e di conseguenza quell’agire che da essa possono scaturire e per aggirare quelli che si preoccupano di separare parola e azione, imponendo la materialità sterile di una scrittura strettamente legata alla forma. Forma, come ambito dove tendenzialmente il rapporto tra Poesia e Realtà viene a spezzarsi, facendo sparire la finalità sociale intrinseca alla poesia stessa, rendendola inefficace, consentendole di scivolare via senza lasciar traccia e facendo dei poeti inutili “rivoluzionari” da salotto.
In quest’ottica ci si domanda se il poeta debba continuare a persistere in questo quadro inquietante come contorno sbiadito o anonima ombra oppure, se non sia il caso di far ri-diventare il Poeta uno schianto dirompente nell’immobilità preoccupante del presente.
Il recupero della Poesia da usare come arma può essere un mezzo assai valido per mettere in crisi il sistema. Di questo il Potere è sempre stato consapevole e perciò esso ha sempre temuto la forza eversiva della Poesia, cercando con ogni mezzo di annientarla per evitare che s’insinuasse nell’anima delle masse, rendendole consapevoli dell’improrogabile esigenza di cambiamento, acutizzando l’insoddisfazione e il dramma in cui la cinica incompetenza dell’intera classe politica ci ha trascinati.
Bisogna, dunque, liberare la Poesia dal guscio pseudo-letterario che oggigiorno la imprigiona e portarla nelle strade e nelle piazze, consentendole di fiorire nelle coscienze e nelle menti, così da diventare l’uragano che travolge e abbatte il trono dei signori del potere.
La Poesia intesa come liberazione dell’uomo e, se il silenzio è quello che vogliono imporre, noi risponderemo “SPIANANDO I FUCILI DELLA PAROLA”.
[versi e articolo di Giuseppe Schembari (leggi qui sull’Autore) — immagine tratta dalla serie pittorica “Sulla rotta di Ulisse” di Lawrence Ferlinghetti ]
Donna con cravatta nera (1917, olio su tela cm 65,4 x 50,5 – Tokyo, Fujikawa Galleries) si inserisce nella lunga galleria di ritratti cui Amedeo Modigliani (1884-1920) si dedicò nella sua breve vita. Se si eccettuano, infatti, la serie di nudi di taglio orizzontale, realizzati nella fase finale della sua attività, e i quattro dipinti di paesaggio, il ritratto costituì il centro del suo interesse artistico sia in pittura che in scultura.
Dinnanzi al cavalletto dell’artista livornese, una donna posa placida, come apatica, invasa da un senso di malinconia o rassegnata, intima sofferenza e non compie nessuna azione differente dal posare. La figura femminile è colta frontalmente, come schiacciata su una superficie bidimensionale: il volto, dalle labbra e dalle gote rosse, dagli occhi vuoti come orbite di antiche statue, è caratterizzato da folta capigliatura che scende sulla fronte, creando un mosso arabesco; la blusa bianca sembra ottenuta quasi controvoglia dall’artista, macchiando la tela precedentemente preparata con lo stesso colore dello sfondo e nella parte inferiore del dipinto attrae l’attenzione la fattura del lavoro che, mediante una stesura animata e vibrante, prossima all’abbozzo, contrasta con la finitezza del viso, rivelando una precisa scelta di effetto non finito, necessaria alla perfetta riuscita dell’opera. La cravatta è tracciata con un’unica, continua pennellata imbevuta di denso colore nero.
Tutto il dipinto fa perno sull’espressivo contrasto tra una porzione perfettamente lavorata, quella del volto, e il non finito del busto, risolto in un puro gesto pittorico. Donna con cravatta nera è un dipinto di transizione, in cui la pittura si fa densa e grumosa come nella precedente stagione pittorica di Modigliani ma, per mezzo di una pennellata maggiormente composta, obliqua e quasi unidirezionale, prelude agli ultimi esiti dell’artista.
[tratto da I capolavori dell’arte, Modigliani, Donna con cravatta nera – Corriere della Sera]