Mark Strand, due poesie

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Due poesie di Mark Strand (1934 – 2014), poeta e critico letterario canadese naturalizzato statunitense. 

*

Poesia

Si intrufola dalla porta di servizio,
di soppiatto oltrepassa la cucina,
il salotto, l’ingresso, sale le scale ed entra
in camera. Si china
sul mio letto e dice che è venuto
a uccidermi. Il lavoro
lo compirà a stadi.

Prima le unghie
verranno spuntate, poi le dita
dei piedi eccetera fino
a che nulla resti di me.
Stacca uno strumentucolo
dal portachiavi, e attacca.
Sento Il Lago dei Cigni dallo stereo
di un vicino e canticchio.

Quanto tempo trascorra
non so dire. Ma quando torno in me
sento che dice che è arrivato al collo
e non può continuare
perché è stanco. Gli dico
che ha fatto abbastanza,
che dovrebbe rincasare, riposare.
Mi ringrazia e se ne va.

Resto sempre sorpreso
da come si accontenta facilmente
certa gente.

~

La lunga festa triste

Qualcuno diceva
qualcosa sulle ombre che coprivano il campo, su
come le cose passano, su come ci si addormenta verso l’alba
e il mattino se ne va.

Qualcuno diceva
di come il vento si spegne ma poi torna,
di come le conchiglie sono le bare del vento
ma le intemperie continuano.

Era una lunga serata
e qualcuno diceva qualcosa sulla luna che cosparge di bianco
i campi gelidi, e che non c’era niente da aspettarsi
se non sempre le stesse cose.

Qualcuno parlò
di una città in cui era stata prima della guerra, una stanza e due candele
contro la parete, qualcuno che ballava, qualcuno che guardava.
Cominciammo a credere

che la sera non sarebbe mai terminata.
Qualcuno diceva che la musica era finita e non se n’era accorto nessuno.
Poi qualcuno disse qualcosa sui pianeti, sulle stelle,
di quant’erano minuscoli, quant’erano lontani.

da “Tutte le poesie” , Mondadori. Traduzione di Damiano Abeni e Moira Egan

Czesław Miłosz, due poesie

Due poesie di Czesław Miłosz (Lituania, 1911 – Polonia, 2004) 

*

Prefazione

Tu, che non ho potuto salvare,
Ascoltami.
Cerca di capire questo linguaggio semplice, mi vergognerei di un altro.
Non possiedo, lo giuro, la magia della parola.
Ti parlo tacendo, come una nuvola o un albero.

Ciò che fortificava me, per te era mortale.
Hai scambiato il congedo di un’epoca per l’inizio di una nuova,
L’afflato dell’odio per bellezza lirica,
La forza cieca per forma compiuta.

Ecco la valle dei bassi fiumi polacchi. E il ponte enorme
Che avanza nella bianca nebbia. Ecco la città infranta
E il vento scaglia contro la tua tomba gli stridi dei gabbiani,
Mentre parlo con te.

Cos’è la poesia che non salva
I popoli né le persone?
Una complicità di menzogne ufficiali,
Una cantilena di ubriachi, a cui fra un attimo verrà tagliata la gola,
Una lettura per signorinette.

Che volevo una buona poesia, senza esserne capace,
Che ho capito, tardi, il suo fine salvifico,
Questo, e solo questo, è la salvezza.

Spargevano sulle tombe miglio e semi di papavero
Per nutrire i morti accorrenti in volo – gli uccelli.
Depongo qui questo libro per te, o trascorso,
Perché d’ora innanzi tu smetta di apparirci.

~

Sugli angeli

Vi hanno tolto le vesti bianche,
Le ali e perfino l’esistenza.
Tuttavia io vi credo, messaggeri.

Là dove il mondo è girato a rovescio,
Pesante stoffa ricamata di stelle e animali,
Passeggiate esaminando i punti veritieri della cucitura.

La vostra tappa qui è breve,
Forse nell’ora mattutina, se il cielo è limpido,
In una melodia ripetuta da un uccello,
O nel profumo delle mele verso sera
Quando la luce rende magici i frutteti.

Dicono che vi abbia inventato qualcuno
Ma non ne sono convinto.
Perché gli uomini hanno inventato anche se stessi.

La voce − senza dubbio questa è la prova,
Perché appartiene a esseri indubbiamente limpidi,
Leggeri, alati (perché no?),
Cinti dalla folgore.
Ho udito sovente questa voce in sogno
E, cosa ancor più strana, capivo pressappoco
il dettame o l’invito in lingua ultraterrena:

è presto giorno
ancora uno
fa’ ciò che puoi.

Traduzione di Pietro Marchesani

Primavera giunge sempre

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Chi sei tu, lettore, che leggerai le mie poesie
tra cento anni?
Non posso mandarti un solo fiore di questa ricca primavera,
né darti un solo raggio d’oro delle nuvole
che mi sovrastano.
Apri le tue porte, guardati intorno.
Nel tuo giardino in fiore cogli i fragranti ricordi
dei fiori sbocciati cento anni fa.
Nella gioia del tuo cuore che tu possa sentire
la vivente gioia che cantò, in un mattino di primavera,
mandando la sua voce lieta, attraverso cento anni.

di Rabindranath Tagore

~

Io sono Marzo che vengo col vento
col sole e l’acqua e nessuno contento;
vo’ pellegrino in digiuno e preghiera
cercando invano la Primavera.

Di grandi Santi m’adorno e mi glorio:
Tommaso il sette e poi il grande Gregorio;
con Benedetto la rondin tornata
saluta e canta la Santa Annunziata.

Primavera
Sarà un volto chiaro.
S’apriranno le strade
sui colli di pini
e di pietra….

I fiori spruzzati
di colore alle fontane
occhieggeranno come
donne divertite: le scale
le terrazze le rondini
canteranno nel sole.

Marzo di Cesare Pavese 

~

Il vento portò da lontano
l’accenno di un canto primaverile,
chissà dove, lucido e profondo
si aprì un pezzetto di cielo.
In questo azzurro smisurato,
fra barlumi della vicina primavera
piangevano burrasche invernali,
si libravano sogni stellati.
Timide, cupe e profonde
piangevano le mie corde.
Il vento portò da lontano
le sue squillanti canzoni.

L’accenno di un canto primaverile di Aleksandr Blok

~

Oggi la primavera
è un vino effervescente.
Spumeggia il primo verde
sui grandi olmi fioriti a ciuffi
ove il germe già cade
come diffusa pioggia.

Tra i rami onusti e prodighi
un cardellino becca.
Verdi persiane squillano
su rosse facciate
che il chiaro allegro vento
di marzo pulisce.

Tutto è color di prato.
Anche l’edera è illusa,
la borraccina è più verde
sui vecchi tronchi immemori
che non hanno stagione,
lungo i ruderi ombrosi e macilenti
cui pur rinnova marzo il greve manto.

Scossa da un fiato immenso
la città vive un giorno
di umori campestri.
Ebbra la primavera
corre nel sangue.

Primavera, 21 marzo 1942 di Vincenzo Cardarelli

19 marzo: A te, padre

Benedetto tu sia padre per i giorni – di Jesús Diaz Armas

Benedetto tu sia padre per i giorni
che hai dedicato a me per i giocattoli
fatti con le tue mani e col tuo ingegno
gli strani aggeggi che imitavano
quelli che gli altri compravano nei negozi
per la fiaba che tante volte
mi hai raccontato con pazienza
quella degli animali nella casa
il gatto il cane il gallo e dei ladri
bambino come me sempre disposto
a fare insieme i giochi
per sparare sulla terrazza
col fucile a pallini o la balestra
e grazie soprattutto per il giorno
luminoso e lontano perduto ormai per sempre
che facesti ballare la carota
davanti allo stupore dei miei occhi
un eroe fui quel giorno a scuola
arrotolando il filo intorno
a quella strana trottola
e adesso che mi sforzo di trovare
un senso ai mondi che mi accerchiano
mi volgo a quel momento
e lì mi riconosco in quel centro
girando su me stesso
eseguendo lo stesso ballo assurdo
essendo io adesso la carota
che inizia il giro appena lascia il filo.

Ricordo del padre – di Sibilla Aleramo

Sempre che un giardino m’accolga
io ti riveggo, Padre, fra aiuole,
lievi le mani su corolle e foglie,
vivo riveggo carezzare tralci,
allevi rose e labili campanule,
silenzioso ti smemorano i giacinti,
stai fra colori e caldi aromi, Padre,
solitario trovando, ivi soltanto,
pago e perfetto senso all’esser tuo.

Sulla spiaggia di notte – di Walt Whitman

Sulla spiaggia di notte
sta una bambina con suo padre
guardando l’est, il cielo autunnale.
Attraverso l’oscurità,
mentre depredanti nuvole, funeree nuvole, in nere masse
sgorgando,
più basse cupe e veloci di traverso al cielo,
in mezzo a una trasparente chiara cintura di etere
lasciata libera a oriente,
ascende vasto e calmo Giove, signore degli astri,
e vicino a lui, solo poco più in alto,
nuotano le delicate sorelle, le Pleiadi.
Sulla spiaggia la bambina che tiene la mano del padre,
quelle nuvole funeree che si abbassano vittoriose per
divorare tutto,
guardando piange in silenzio.
Non piangere, bambina,
non piangere, mia cara,
con questi baci ch’io allontani le tue lacrime,
le nuvole depredanti non saranno più a lungo vittoriose,
non avranno a lungo il possesso del cielo, divorano le
stelle soltanto in apparenza,
Giove riemergerà, sii paziente, guarda ancora un’altra
notte, le Pleiadi emergeranno,
sono immortali, tutte quelle stelle dorate e inargentate
brilleranno ancora,
le stelle grandi e le piccole brilleranno ancora, durano,
i vasti soli immortali e le eterne, riflessive lune
brilleranno ancora.
Allora mia cara piangerai tu sola per Giove?
consideri tu sola la sepoltura delle stelle?
Qualcosa c’è,
(con le mie labbra calmandoti, io aggiungo in un
sussurro,
ti do il primo consiglio, il primo inganno,)
qualcosa c’è di più immortale anche delle stelle,
(molte le sepolture, molti i giorni e le notti che passano e
svaniscono)
qualcosa che durerà più a lungo anche del luminoso
Giove,
più a lungo del sole e di ogni ruotante satellite,
o delle irradianti sorelle, le Pleiadi.

Vorrei farti felice con questo niente – di Giovanna Sicari

Babbo, vorrei comprarti
tutte queste piccole cose
esposte al mercato,
cose piccole, inutili:
arnesi, cianfrusaglie, biglietti.
Vorrei farti felice con questo niente
che colma il vuoto
con quest’amore che ripara,
tu solo annaffi le piante lievi
lavi e curi ogni cosa
e scavi nella compostezza
della vita, con decisione
raccogli foglioline e altro
tu solo puoi entrare nell’infinito.

Articolo riproposto in occasione del 19 marzo.

Due poesie di Michel Faber

cuore

Due poesie di Michel Faber 

Nato in Olanda nel 1960 e cresciuto in Australia oggi vive nel nord della Scozia. È uno degli autori in lingua inglese più acclamati degli ultimi anni. Il romanzo che lo ha consacrato a livello internazionale è stato “Il petalo cremisi e il bianco”, uscito nel 2002. Dopo la morte della moglie, di cui si è preso cura fin dalla scoperta della malattia, interrompendo il suo lavoro di narratore, si è dedicato alla composizione di poesie incentrate sul dolore e sul tema della perdita.

*

Non sapevamo mai
quando sarebbe stata
l’ultima volta.
Era importante
non saperlo.
Facevamo l’amore
la penultima volta,
sempre la penultima volta,
tante volte
quanto il tempo ne concedeva.
Andavamo a letto
e accostavamo le teste,
cercando di scoprire
dov’eri andata.
La tua malattia era un terreno
vasto ma, in un modo o nell’altro,
ancora e sempre,
ti trovavamo.

~

Ecco come stanno le cose:
trascorreremo la notte separati.
Ho il tuo nuovo indirizzo
stampato su un bigliettino
ma non conosco la città abbastanza bene
da figurarmi il posto dove stai dormendo.
Inoltre, è tutto finito ormai.
Non sono più necessario ai tuoi bisogni.
Sei con altri della tua stessa razza
e io, alfine, sono assente dalla tua mente.

Ci sono così tante persone alle quali dovrei dire
che mi hai lasciato.
Una sfida per un altro giorno.
Che caldo c’è! Ormai è luglio.
Alzo gli occhi mentre cammino e in cielo
vedo la prima delle lune
che non condivideremo.

Traduzione di Luca Manini

Tre poesie di Emily Dickinson

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Tre poesie di Emily Dickinson

La speranza è una strana invenzione
Un Brevetto del Cuore –
In incessante azione
Eppure mai consumata –

Di questa elettrica appendice
Non si conosce nulla
Se non che un suo unico momento
Abbellisce tutto ciò che abbiamo –

~

In molti e inspiegabili luoghi
Proviamo una Gioia –
Inspiegabile, pure, ma sincera come la Natura
O la Deità –

Arriva, senza sorprendere
Si dissolve – allo stesso modo –
Ma lascia una sontuosa Indigenza –
Senza Nome –

Profanarla con una ricerca – non possiamo
Non ha casa essa –
Né noi che l’abbiamo una volta ghermita –
Da allora vaghiamo.

~

Quale mistero pervade un pozzo!
Quell’acqua vive così lontana –
Un vicino da un altro mondo
Che risiede in una giara

I cui limiti nessuno ha mai visto,
Ma solo le sue palpebre di vetro –
Come guardare ogni volta che vuoi
Nel volto di un abisso!

L’erba non sembra impaurita,
Spesso mi stupisco che
Possa stare così vicina e guardare così ardita
A ciò che è temibile per me.

Potrebbero essere in qualche modo parenti,
Il carice sta vicino al mare
Dove è senza base
E non tradisce timidezza –

Eppure la natura è un’estranea;
Coloro che la citano di più
Non hanno mai oltrepassato la sua casa stregata,
Né semplificato il suo spirito.

Compiangere quelli che non la conoscono
È favorito dal rammarico
Che quelli che la conoscono, la conoscono meno
Quanto più le sono vicini.

dal sito http://www.emilydickinson.it

Due poesie di Dario Bellezza

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Due poesie di Dario Bellezza (Roma, 1944 – 1996)

Racconto l’affamato scontro di due vite
per impetrare nella vita idiota
la promessa felice della vittoria
sul ricordo del lupo e del pugnale
e voi assonnati adolescenti odorosi
di fumo presto sfiancati dalla maturità
rispettate il codice cupo di chi volle
strumento assurdo dell’eternità.

Il pane muffo e le patate bollite che mangiai
con uno di voi sonnolento buffone meritano
la muffa eterna della vigliaccheria o
la forza della misericordia che s’elimina
crescendo verso la dolcezza estrema
del suicidio più lento: vivere.

~

Bruciavo d’amore e voluttà
nei calzoni fiorenti dell’estate
il latte versavo chiaro
sull’erba matta dei giardini
solo le panche ci erano amiche.
Senza legge l’erotico abbandono
usciva illividito al suo bel bagno
sotto l’innaffio del chiodato airone
puro amore ribadito invano
le membra calde ribaciate intanto
rischiano lo sfacelo e il malefizio
delle generazioni possedute dalla morte.

Rileggiamo l’opera: Evoluzione – sassi d’arte

piet mondrian evoluzione

Piet Mondrian, Evoluzione (1910 – 1911)

Tra il 1910 e il 1911 il pittore olandese Piet Mondrian (Pieter Cornelis Mondriaan Jr. 1872-1944) dipinse il trittico “Evoluzione” legato a stilemi simbolisti; dal 1908 (e fino al 1911, quando si trasferirà a Parigi) ebbe residenza a Domburg, assieme a Jan Toorop, e proprio l’incontro con l’artista e la lettura di testi teosofici lo convinceranno che è illuminato da Dio e intimamente unito a questi.

In questo dipinto, che rappresenta l’adesione di Mondrian alla dottrina mistico-filosofica della teosofia, è rappresentato il processo di evoluzione spirituale necessario all’uomo per accedere a quella “vera comprensione” teorizzato dalla teosofia stessa. La dottrina proclamata dalla Società teosofica fondata nel 1875 a New York affermava l’origine unica di tutte le religioni, l’eguaglianza di tutti gli uomini, la possibilità di arrivare alla conoscenza della verità, riservata a pochi adepti, non con la sola ragione ma per mezzo di rivelazioni, di esperienze mistiche e di un determinato modo di vivere, fu fortemente influenzata da elementi di derivazione indiana.

piet mondrian evoluzioneNel dipinto “Evoluzione” si possono rintracciare i rapporti di Mondrian con l’intero complesso delle dottrine teosofiche, secondo cui il mondo è concepito come un tutto unitario, retto da leggi e principi matematici in cui i poli opposti – principio maschile e femminile, oppure spirito e materia – tendono alla ricomposizione e all’armonia cosmica. 

Il trittico “Evoluzione” va letto partendo dalla figura di sinistra, per poi passare a quella di destra e, infine, a quella centrale; la stessa forma del trittico, diffusa nell’area simbolista, potrebbe essere stata suggerita da un passo del testo “Iside svelata” (1877) di Helena Blavatskij (fondatrice della teosofia), in cui si parla di tre spiriti che vivono nell’uomo: lo spirito terrestre, lo spirito delle stelle e lo spirito divino. piet mondrian evoluzione - Copia (2)Simbolici sono i passaggi di colore della figura della donna (dal verde al blu, il colore spirituale) in cui si attua la fusione di elemento maschile (spirituale) e femminile (materiale), cui allude Mondrian nei “Taccuini”. Simbolico è anche il passaggio dai due fiori posti ai lati del volto, alle figure geometriche ed anche dal colore rosso (corrispondente, per Steiner – filosofo, pedagogista, esoterista, artista e riformista sociale austriaco – all’amore divino, ma ancora espresso secondo una concezione terrena) al giallo e al bianco, quindi alla massima luminosità, espressione del divino.

piet mondrian evoluzione - CopiaLa donna a sinistra nel trittico, fiancheggiata da due amarillis rossi – simbolo di sensualità – è l’incarnazione dello spirito terrestre; ha il volto indietro e gli occhi chiusi, perché lo spirito terrestre da solo non permette la comprensione del mondo. A destra, è posta la donna con le stelle a sei punte (il doppio triangolo, simbolo della teosofia, emblema della perfezione), che rappresenta lo spirito stellare, il quale possiede un grado più alto di comprensione rispetto allo spirito terrestre; infine, al centro, la figura circondata dalla luce bianca, rappresenta lo spirito divino dagli occhi aperti e dalla maggiore intensità luminosa, che indicano la conquistata visione di una verità superiore. Quest’ultimo elemento, la figura centrale a occhi aperti di “Evoluzione”, è stato messo in rapporto con la concezione di Steiner secondo cui la visione spirituale avverrebbe in condizione di piena coscienza e non in stato di trance o di ipnosi. (by AnGre – fonti varie e immagini dal web)

Anticipo di Primavera

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Il calice dell’amore di Delmira Agustini
..
Inebriamoci, uniti nell’insigne calice!
Raro liquore in offerta alle nostre anime,
rivelino le mie rose la règia frescura
all’ombra indelebile dei tuoi palmi!
.
Fosti tu, nella silente tomba delle ore,
a destare la mia anima assopita;
a te il primo sangue della mia vita
nelle coppe di luce delle mie aurore!
.
Ah! La tua voce, vino a ornare d’oro
i miei tenebrosi silenzi; tu rompesti
il gran filo di perle del mio pianto,
all’alba dischiudesti il mio orizzonte.
.
Per te, nel mio levante oscuro, l’aurora
distese il rosato fremito del suo tùlle;
tanto che ora, nelle ombre della vita,
spalanco l’anima come un cielo azzurro.
.
Ah, mi sento aprire come una rosa!
Vieni a suggere i miei regali mieli:
sono, dell’amor, la coppa sfarzosa
che si poserà tra le tue mani divine.
.
Il calice innalza il suo splendor di fiamma…
Che sortilegio nelle tue mani sarebbe!
La sua misteriosa delicatezza reclama
dita di fantasia e labbra di armonia.
.
Prendilo, che nella gloria s’indori
l’idillio di luce delle nostre anime;
le rose della mia aurora si velano
all’ombra indelebile dei tuoi palmi!
Traduzioni di Enrico Pietrangeli

~

Il silenziodi di Ada Negri 

Tu che sussulti a un batter d’ali, ed hai
il nodo del silenzio sulle labbra
color di cenere!…
Perchè taci, e tremando te ne stai
rinchiusa in una torre di tristezza?…
E pure sei così giovine ancora,
così soave è ancor la tua bellezza!…
Non so il tuo male. – Tu mi sembri oppressa
da un cilicio nascosto, che flagelli
la carne fragile,
perdutamente al suo poter sommessa;
e un’ebbrezza indicibile ti è data
forse dal tuo soffrir senza parola,
se al lamento la bocca è sigillata;
se le mani s’aggrappan con terrore
a un mobile, ad un muro, a un davanzale,
per trattenerti
di scagliare il tuo corpo e il tuo dolore
dalla finestra!… – Ma perché patire
senza rivolta?… Io non lo so, il tuo male;
ma t’insegnerei, forse, a non morire. –
Senti come garriscono le rondini
bianche e nere, nell’ora del tramonto.
Pel ciel s’inseguono
stridendo, in cerchi rapidi e giocondi.
Non hai pensato mai che forse un giorno
fosti la rondin che a Novembre fugge
verso il sole, e nel Marzo fa ritorno?…
Non ti senti quelle ali dentro il cuore
batter, folli d’azzurro?… non lo senti
che tu sei libera
come la rondinella del Signore,
e che sol per gioirne Iddio ti diede
l’anima tua piena di raggi, ardente
di sogni, aperta ad ogni pura fede?…
Vuoi ch’io ti regga al volo?… Oh, non tremare
forte così. – Non ti dirò più nulla. –
Lagrime e lagrime
io verserò su te senza parlare:
su te, che in una torre di tristezza
ti chiudi, e in fondo l’ami, il tuo martirio,
e vi sfiorisci con la tua bellezza.

~

Immigranti di Meira Delmar

Una terra con cedri, con olivi,
una dolce regione di fresche vigne,
lasciarono vicino al mare, abbandonarono
per il fuoco d’America.

Conservavano tra le labbra
il sapore della resina,
e il fumo profumato del narguileh
negli occhi,
mentre la nave si perdeva tra le onde
lasciandosi dietro le pietre di Beritos,
la valle gioiosa ai piedi delle colline,
e i banchetti del vino attorno alla tavola
preparata nell’estate
sotto il cielo pieno di gemme.

Il mare cambiò nome
una volta, un’altra e un’altra ancora
fino ad arrivare alla scottante riva
dove veloci raffiche
di uccelli dipingevano
di colori e musica improvvisa
l’istante,
e il fragore dei fiumi imitava il ruggito
del giaguaro e del puma
nascosti nella selva.

Su rive e su montagne costruirono case
come in passato la tenda nelle verdi oasi
l’antico avo, e le vecchie parole
iniziarono a scambiare
con le parole nuove
per chiamare le cose,
e seppero condividere il cuore con grandezza
come prima l’otre d’acqua nella sete del deserto.
A volte quando suona il liuto della memoria
e la prima stella
brilla nella sera
ricordano il giorno
in cui il bled scomparve lentamente
dietro l’orizzonte.

Traduzione di Giulia Spagnesi

~

Gennaio riscalda già l’aprile di Giovanna Sicari

Ogni brindisi commuove, ogni anima tradisce
ogni viaggiatore rompe l’argine per sempre
e i fuochi alle finestre attendono
ciechi l’aprile.
Fosse rabbia fosse caldo questo continuo
sentirsi rapinati: ladro alle spalle
magazzino superfluo
e noi così superbo aspettando
l’ora di una comparsa
avremmo da dire
da fare, nelle mani
fretta, desiderio
fosse questo giorno chiaro di gennaio
il perno degli anni che non danno pace.

~

Paracadute di Hilde Domin 

Poesia intrisa di lacrime
della solitudine estrema
tu rete sopra il baratro
bianco paracadute
che si apre sul precipizio

Un angelo avrebbe le ali
sotto di lui
non si sfalderebbe il terreno
un angelo non riceverebbe mai
messaggi confusi
su ciò che lo riguarda

Traduzione di Stefania Deon

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…e 11 anni fa nasceva questo Blog…
Grazie di cuore ad ogni Amico e Lettore che ha partecipato e partecipa a questa piccola e ostinata avventura poetica e artistica

📚

Tre poesie di Dylan Thomas

penna e calamaio

Tre poesie di Dylan Thomas (Swansea, Galles, 1914 – New York, 1953) 

*

E la morte non avrà più dominio

E la morte non avrà più dominio.
I morti nudi saranno una cosa
Con l’uomo nel vento e la luna d’occidente;
Quando le loro ossa saranno spolpate e le ossa pulite scomparse,
Ai gomiti e ai piedi avranno stelle;
Benché impazziscano saranno sani di mente,
Benché sprofondino in mare risaliranno a galla,
Benché gli amanti si perdano l’amore sarà salvo;
E la morte non avrà più dominio.

E la morte non avrà più dominio.
Sotto i meandri del mare
Giacendo a lungo non moriranno nel vento;
Sui cavalletti contorcendosi mentre i rendini cedono,
Cinghiati ad una ruota, non si spezzeranno;
Si spaccherà la fede in quelle mani
E l’unicorno del peccato li passerà da parte a parte;
Scheggiati da ogni lato non si schianteranno;
E la morte non avrà più dominio.

E la morte non avrà più dominio.
Più non potranno i gabbiani gridare ai loro orecchi,
Le onde rompersi urlanti sulle rive del mare;
Dove un fiore spuntò non potrà un fiore
Mai più sfidare i colpi della pioggia;
Ma benché pazzi e morti stecchiti,
Le teste di quei tali martelleranno dalle margherite;
Irromperanno al sole fino a che il sole precipiterà,
E la morte non avrà più dominio.

~

Amore in manicomio

Un’estranea è venuta
A spartire con me la mia stanza nella casa lunatica,
Una ragazza folle come gli uccelli

Che spranga la notte della porta col suo braccio di piuma.
Stretta nel letto delirante
Elude la casa a prova di cielo con nubi invadenti

E la stanza da incubi elude col suo passeggiare
Su e giù come i morti,
O cavalca gli oceani immaginati delle corsie maschili.

Venne invasata,
Chi fa entrare dal muro rimbalzante l’ingannevole luce,
Invasata dal cielo

Dorme nel truogolo stretto e tuttavia cammina sulla polvere
E a piacer suo vaneggia
Sopra l’assito del manicomio consumato dalle mie lacrime ambulanti.

E rapito alla fine (cara fine) nelle sue braccia dalla luce
Io posso senza venir meno
Sopportare la prima visione che diede fuoco alle stelle.

Traduzione di Ariodante Mariani

~

Nel mio mestiere, ovvero arte scontrosa

Nel mio mestiere, ovvero arte scontrosa
Che nella quiete della notte esercito
Quando solo la luna effonde rabbia
E gli amanti si giacciono nel letto
Tenendo fra le braccia ogni dolore,
A una luce che canta mi affatico
E non per ambizione, non per pane,
Né per superbia o traffico di grazie
Su qualche palcoscenico d’avorio,
Ma solo per la paga consueta
Del loro sentimento più segreto.

Non è per il superbo che si apparta
Dalla luna infuriata che io scrivo
Su questa spruzzaglia di pagine,
E non per i defunti che torreggiano
Con i loro usignoli e i loro salmi,
Ma solo per gli amanti che trattengono
Fra le braccia i dolori delle età,
E non offrono lodi né compensi,
Indifferenti al mio mestiere o arte.

Traduzione di Roberto Sanesi

Lucio Battisti, Il mio canto libero – sassi sonori

Lucio Battisti

Lucio Battisti, Il mio canto libero

In un mondo cheNon ci vuole piùIl mio canto libero sei tuE l’immensitàSi apre intorno a noiAl di là del limite degli occhi tuoi
.
Nasce il sentimentoNasce in mezzo al piantoE s’innalza altissimo e vaE vola sulle accuse della genteA tutti i suoi retaggi indifferenteSorretto da un anelito d’amoreDi vero amore
.
In un mondo che (Pietre, un giorno case)Prigioniero è (Ricoperte dalle rose selvatiche)Respiriamo liberi io e te (Rivivono, ci chiamano)E la verità (Boschi abbandonati)Si offre nuda a noi (Perciò sopravvissuti, vergini)E limpida è l’immagine (Si aprono)Ormai (Ci abbracciano)
.
Nuove sensazioniGiovani emozioniSi esprimono purissime in noiLa veste dei fantasmi del passatoCadendo lascia il quadro immacolatoE s’alza un vento tiepido d’amoreDi vero amoreE riscopro te
.
Dolce compagna cheNon sai domandare, ma saiChe ovunque andraiAl fianco tuo mi avraiSe tu lo vuoi
.
Pietre, un giorno caseRicoperte dalle rose selvaticheRivivono, ci chiamanoBoschi abbandonatiE perciò sopravvissuti verginiSi aprono, ci abbracciano
.
In un mondo chePrigioniero èRespiriamo liberiIo e teE la veritàSi offre nuda a noiE limpida è l’immagine ormai
.
Nuove sensazioniGiovani emozioniSi esprimono purissime in noiLa veste dei fantasmi del passatoCadendo lascia il quadro immacolatoE s’alza un vento tiepido d’amoreDi vero amoreE riscopro te
..
(Battisti – Mogol, 1972)
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Sandro Penna, breve selezione di poesie

Breve selezione di poesie di Sandro Penna (Perugia, 1906 – Roma, 1977)

*

Al pari di un profilo conosciuto,
o meglio sconosciuto, senza pari
Fra gli altri animali, unica terra
La tua forma casuale quanto amai.

~

Mi adagio nel mattino
di primavera. Sento
nascere in me scomposte
aurore. Io non so più
se muoio o pure nasco.

~

Il giorno ha gli occhi di un fanciullo. Chiara
La sera pare una ragazza altera.
Ma la notte ha il mio buio colore,
il colore di un cupo splendore.

~

Se la vita sapesse il mio amore!
me ne andrei questa sera lontano.
Me ne andrei dove il vento mi baci
dove il fiume mi parli sommesso.

Ma chi sa se la vita somiglia
al fanciullo che corre lontano…

~

Era la mia città, la città vuota
all’alba, piena di un mio desiderio.
Ma il mio canto d’amore, il mio più vero
era per gli altri una canzone ignota.

~

Come è forte il rumore dell’alba!
Fatto di cose più che di persone.
Lo precede talvolta un fischio breve,
una voce che lieta sfida il giorno.
Ma poi nella città tutto è sommerso.
E la mia stella è quella stella scialba
mia lenta morte senza disperazione.

Abdellatif Laâbi, due poesie

carta e penna

Due poesie di Abdellatif Laâbi (Fes, Marocco, 1942), poeta, scrittore e attivista marocchino.

*

L’epoca è banale
meno sorprendente della tariffa di una prostituta
I satrapi si divertono parecchio
al gioco della verità
I diseredati si convertono in massa
alla religione del Lotto
Gli amanti si separano
per un chilo di banane
Il caffè non è né più né meno amaro
L’acqua resta sullo stomaco
La siccità colpisce i più affamati
I sismi si compiacciono nel complicare
il compito dei soccorritori
La musica si raffredda
Il sesso guida il mondo
Solo i cani continuano a sognare
per tutta la durata del pomeriggio e delle notti

~

La lingua di mia madre 

Non vedo mia madre da vent’anni
si è lasciata morire di fame
dicono si togliesse ogni mattina
il foulard dalla testa
per sbatterlo in terra sette volte
maledicendo il cielo e il Tiranno
io ero nella caverna
là dove il forzato legge nelle ombre
e dipinge sulle pareti il bestiario dell’avvenire
Non vedo mia madre da vent’anni
mi ha lasciato un servizio da caffè cinese
le cui tazze si rompono l’una dopo l’altra
senza che m’importi per quanto sono brutte
Ma ne amo ormai solo il caffè
oggi, quando solo
chiedo in prestito la voce di mia madre
o meglio è lei che parla dalla mia bocca
con le sue bestemmie, grossolanità e imprecazioni
l’introvabile rosario dei suoi diminutivi
tutta la specie in estinzione delle sue parole
non vedo mia madre da vent’anni
ma sono l’ultimo uomo sulla terra
a parlare ancora la sua lingua

Rileggiamo l’opera: Da dove veniamo? Cosa siamo? Dove andiamo? – sassi d’arte

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Paul Gauguin, Da dove veniamo? Cosa siamo? Dove andiamo?

(1897 – 1898) olio su tela, cm 139 x 374 – Boston, Boston Museum of Art

*

Testamento artistico e spirituale dell’artista, la tela è una sintesi dei temi della sua pittura e della sua visione del mondo. Prima di affrontare il dipinto vero e proprio, esegue vari disegni. Lavora quindi giorno e notte, febbrilmente per oltre un mese e a luglio spedisce il quadro a Parigi. Il dipinto impressiona i critici per le soluzioni stilistiche e il profondo simbolismo.

L’opera può essere interpretata come una metafora della vita, dall’infanzia alla vecchiaia, ma anche una meditazione sul suo senso, un confronto tra la natura e la ragione, rappresentata dalle due donne in atteggiamento pensoso. Le figure sono disposte nel paesaggio con un andamento che ricorda i fregi antichi e i grandi cicli di affreschi dei palazzi rinascimentali. Gauguin le riprende da dipinti precedenti, ma conferisce loro un significato differente. La presenza dell’idolo blu e degli animali è stata variamente interpretata, in particolare “lo strano uccello bianco con una lucertola tra le zampe, che sta a significare la vanità tra le parole”.

Benché egli tenda a precisare che “è buttata giù di getto, in punta di pennello”, la tela compendia di fatto una serie di elementi già trattati separatamente in diversi dipinti, che vengono così a costituire altrettanti abbozzi di un’unica creazione protrattasi per parecchi anni e infine concretizzata in questa complessa e  imponente composizione. [Elena Ragusa]

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Paul Gauguin - Autoritratto con cappello (1893-1894)
Paul Gauguin – Autoritratto con cappello (1893-1894)

tratto dal saggio “Il primitivo moderno” di Vittorio Sgarbi: “Gauguin ha cercato nell’arte non solo una ragione estetica, ma anche una ragione esistenziale. Partito a fianco degli impressionisti, Gauguin al culmine della maturità, decide di rifugiarsi o di ritrovarsi in una zona lontana dal mondo “evoluto”, a Tahiti, interrompendo i rapporti con la propria civiltà. Nessuno prima di lui aveva cercato nella vita quotidiana, non più soltanto nell’arte, l'”evasione” con una scelta tanto radicale nelle sue conseguenze pratiche.

E’ l’esito estremo di una visione romantica nel rapporto tra arte e società che interpreta la prima come coscienza necessariamente critica, eversiva dalla seconda. Con Gauguin l’artista diventa perfetto intellettuale, libero pensatore, profeta di un mondo migliore nel nome dello spirito e del bello. Ma Gauguin non è stato un iniziatore solo in questo senso, essendo le sue scelte di vita profondamente legate a quelle estetiche. Per primo intuisce che le ricerche di Van Gogh, di Cézanne e di tutti gli artisti più avanzati sono tanto progredite in quanto vanno verso una riduzione della forma alla sua essenza espressiva, il cosiddetto “primitivo”.

[…] Ricominciare vuol dire allora tornare alle origini della civiltà, quando mito, simbolo e filosofia si concretizzavano nei significati dell’opera artistica e Gauguin è stato il primo, come ha scritto René Huyghe, “a prendere coscienza della necessità di una rottura, perché potesse nascere un mondo moderno; il primo a sfuggire alla tradizione latina, disseccata, ossificata, moribonda, per ritrovare tra leggende barbare, le divinità primitive, l’impeto originario. Mentre l’arte occidentale aveva come proprio perno il noto, egli vi ha sostiutito l’ignoto…ha intuito le terre sommerse dell’anima, le loro intatte potenze in cui la civiltà decrepita e raffinata potrebbe ritemprarsi” (da Gauguin, I grandi maestri dell’arte – Skira)

Volontà di pace

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La fine e l’inizio di Wisława Szymborska

Dopo ogni guerra
c’è chi deve ripulire.
In fondo un po’ d’ordine
da solo non si fa.
C’è chi deve spingere le macerie
ai bordi delle strade
per far passare
i carri pieni di cadaveri.
C’è chi deve sprofondare
nella melma e nella cenere,
tra le molle dei divani letto,
le schegge di vetro
e gli stracci insanguinati.
C’è chi deve trascinare una trave
per puntellare il muro,
c’è chi deve mettere i vetri alla finestra
e montare la porta sui cardini.
Non è fotogenico
e ci vogliono anni.
Tutte le telecamere sono già partite
per un’altra guerra.
Bisogna ricostruire i ponti
e anche le stazioni.
Le maniche saranno a brandelli
a forza di rimboccarle.
C’è chi con la scopa in mano
ricorda ancora com’era.
C’è chi ascolta
annuendo con la testa non mozzata.
Ma presto
gli gireranno intorno altri
che ne saranno annoiati.
C’è chi talvolta
dissotterrerà da sotto un cespuglio
argomenti corrosi dalla ruggine
e li trasporterà sul mucchio dei rifiuti.
Chi sapeva
di che si trattava,
deve far posto a quelli
che ne sanno poco.
E meno di poco.
E infine assolutamente nulla.
Sull’erba che ha ricoperto
le cause e gli effetti,
c’è chi deve starsene disteso
con la spiga tra i denti,
perso a fissare le nuvole.

🕊

Il volto della pace di Paul Éluard 

Conosco tutti i luoghi dove abita la colomba
e il più naturale è la testa dell’uomo.

L’amore della giustizia e della libertà
ha prodotto un frutto meraviglioso.
Un frutto che non marcisce
perché ha il sapore della felicità.

Che la terra produca, che la terra fiorisca
che la carne e il sangue viventi
non siano mai sacrificati.

Che il volto umano conosca
l’utilità della bellezza
sotto l’ala della riflessione.

Pane per tutti, per tutti delle rose.
L’abbiamo giurato tutti.
Marciamo a passi da giganti.
E la strada non è poi tanto lunga.

Fuggiremo il riposo, fuggiremo il sonno,
coglieremo alla svelta l’alba e la primavera
e prepareremo i giorni e le stagioni
a seconda dei nostri sogni.

La bianca illuminazione
di credere tutto il bene possibile.
L’uomo in preda alla pace s’incorona di speranza.
L’uomo in preda alla pace ha sempre un sorriso
dopo tutte le battaglie, per chi glielo chiede.

Fertile fuoco dei grani delle mani e delle parole
un fuoco di gioia s’accende e ogni cuore si riscalda.
La vittoria si appoggia sulla fraternità.
Crescere è senza limiti.
Ciascuno sarà vincitore.

La saggezza è appesa al soffitto
e il suo sguardo cade dalla fronte come una
lampada di cristallo
la luce scende lentamente sulla terra
dalla fronte del più vecchio passa al sorriso
dei fanciulli liberati dal timore delle catene.

Pensare che per tanto tempo l’uomo ha fatto
paura all’uomo
e fa paura agli uccelli che porta nella sua testa.

Dopo aver levato il suo viso al sole
l’uomo ha bisogno di vivere
bisogno di far vivere e s’unisce d’amore
s’unisce all’avvenire.

La mia felicità è la nostra felicità
il mio sole è il nostro sole
noi ci dividiamo la vita
lo spazio e il tempo sono di tutti.

L’amore è al lavoro, egli è infaticabile.
Eravamo nel millenovecento diciassette
e conserviamo il senso
della nostra liberazione.
Noi abbiamo inventato gli altri
come gli altri ci hanno inventato.
Avevamo bisogno gli uni degli altri.

Come un uccello che vola ha fiducia nelle sue ali
noi sappiamo dove conduce la nostra mano tesa:
verso nostro fratello.

Colmeremo l’innocenza
della forza che tanto a lungo
ci è mancata
non saremo mai più soli.

Le nostre canzoni chiamano la pace
e le nostre risposte sono atti per la pace.
Non è il naufragio, è il nostro desiderio
che è fatale, e la pace inevitabile.

L’architettura della pace
riposa sul mondo intero.

Apri le tue ali, bel volto;
imponi al mondo di essere saggio
poiché diventiamo reali,
diventiamo reali insieme per lo sforzo
per la nostra volontà di disperdere le ombre
nel corso folgorante di una nuova luce.

La forza diventerà sempre più leggera
respireremo meglio, canteremo a voce più alta.

🕊

Ode alla pace di Pablo Neruda 

Sia pace per le aurore che verranno,
pace per il ponte, pace per il vino,
pace per le parole che mi frugano
più dentro e che dal mio sangue risalgono
legando terra e amori con l’antico
canto;
e sia pace per le città all’alba
quando si sveglia il pane,
pace al libro come sigillo d’aria,
e pace per le ceneri di questi
morti e di questi altri ancora;
e sia pace sopra l’oscuro ferro di Brooklin, al portalettere
che entra di casa in casa come il giorno,
pace per il regista che grida al megafono rivolto ai convolvoli,
pace per la mia mano destra che brama soltanto scrivere il nome
Rosario, pace per il boliviano segreto come pietra
nel fondo di uno stagno, pace perché tu possa sposarti;
e sia pace per tutte le segherie del Bio-Bio,
per il cuore lacerato della Spagna,
sia pace per il piccolo Museo
di Wyoming, dove la più dolce cosa
è un cuscino con un cuore ricamato,
pace per il fornaio ed i suoi amori,
pace per la farina, pace per tutto il grano
che deve nascere, pace per ogni
amore che cerca schermi di foglie,
pace per tutti i vivi,
per tutte le terre e le acque.
Ed ora qui vi saluto,
torno alla mia casa, ai miei sogni,
ritorno alla Patagonia, dove
il vento fa vibrare le stalle
e spruzza ghiaccio
l’oceano. Non sono che un poeta
e vi amo tutti, e vago per il mondo
che amo: nella mia patria i minatori
conoscono le carceri e i soldati
danno ordini ai giudici.
Ma io amo anche le radici
del mio piccolo gelido paese.
Se dovessi morire mille volte,
io là vorrei morire:
se dovessi mille volte nascere,
là vorrei nascere,
vicino all’araucaria selvaggia,
al forte vento che soffia dal Sud.
Nessuno pensi a me.
Pensiamo a tutta la terra, battendo
dolcemente le nocche sulla tavola.
Io non voglio che il sangue
torni ad inzuppare il pane, i legumi, la musica:
ed io voglio che vengano con me
la ragazza, il minatore, l’avvocato, il marinaio, il fabbricante di bambole
e che escano a bere con me il vino più rosso.
Io qui non vengo a risolvere nulla.
Sono venuto solo per cantare
e per farti cantare con me.

🕊