Piera Oppezzo, tre poesie ed un articolo di Luciano Martinengo

Piera Oppezzo, poesie pubblicate nel febbraio del 1961 sulla rivista La nostra Rai 

(per i testi si ringrazia il sito nazioneindiana)

#

Passa sul Po
La nebbia di novembre,
Un’altra realtà è sommersa
Come il fiume nel suo letto.
La facile estate trascorsa
A contatto di guance
Affettuosamente comprensive,
All’orecchiabile ritmo
Del piacevole istinto
Morbidamente infedele
Al pensiero diretto.

#

Una luna come un’arancia
Non si era vista in tutto l’anno
Né tale bellezza si sperava durasse

Tanto è faticoso sopportare
Che i desideri più remoti si avverino.

Quando venne il giorno
“Ho tanti ricordi”
Poteva benissimo non desiderare più.

Mentre i più giovani parlavano di questo e di quello
“Per non parlare di ciò che attendo”.

Cercavano luoghi dal mattino alla sera
Aderendo a tutto ciò che produceva sapere
Nel loro respiro
Finché a uno gli si aprirono le vene
Proprio
Come da lungo tempo invocava.

#

Amo il corpo
Che ancora dorme voltato su un fianco
Quando mi sveglio al mattino.

Quello che resta con me solo un’ora
Mi tormenta più a lungo.
Ma non ne parliamo più.

L’amore si è decomposto nei lacrimatoi
Mentre voleva un dolore violento.
Il muschio è spuntato sul ricordo.

Troppe volte, inutilmente,
Lo sguardo
Si è purificato durante la notte
La vena sulla tempia
Ha rinnovato il suo sangue.

.

Piera Oppezzo (Torino, 1934 – Miazzina, Verbania, 2009) 
articolo di Luciano Martinengo (tratto da enciclopediadelledonne.it)
.

“Nella vita, o si vive o si scrive” è l’implicito programma di vita cui Piera Oppezzo si attenne con caparbia determinazione fino alla morte – una decisione il cui prezzo si misura in termini di incompletezza esistenziale. In un’intervista del 1989 Piera affermò: «…a suo tempo decisi che l’atto di scrivere è l’atto principale che ritengo di dover compiere». E a questo ‘atto’ subordinò tutto il resto, accettando o addirittura perseguendo un destino di non-felicità.

Piera nacque a Torino nel 1934 e visse nelle ristrettezze l’infanzia e l’adolescenza, in una famiglia di modestissime condizioni economiche (il padre era cameriere) da cui si sentiva lontana e che non ne comprendeva l’ambizione letteraria. In una poesia parlò della “infanzia saccheggiata dalla famiglia, a cui tuttavia sopravvisse”. Piera Oppezzo non amava parlare di sé e del passato, perciò non si sa quasi nulla di quel periodo. Per qualche anno lavorò come apprendista in una sartoria, più tardi come commessa alla Standa e infine come dattilografa alla Rai. Totalmente autodidatta, i suoi autori di riferimento spaziarono da subito da Emily Dickinson a Marina Cvetaeva. In Rai, dove fu pubblicata appena ventenne nella rivista aziendale, entrò in contatto con gli intellettuali e artisti dell’avanguardia torinese da cui fu subito apprezzata. «La Fiera letteraria» di Vincenzo Cardarelli pubblicò alcune delle sue prime poesie, accostabili a quelle di Sandro Penna o Umberto Saba.

Con il passare degli anni, la sua poesia, anzi la sua ricerca di espressione poetica, accompagnò in modo spietatamente coerente l’evolversi della sua vicenda umana. Il suo mondo poetico ne risultò letteralmente scarnificato; le sue frasi cominciarono a omettere articoli, aggettivi, punteggiatura e connettivi vari, diventando quasi incomprensibili, almeno a una prima lettura. Nel 1966 uscì presso Einaudi una raccolta di poesie intitolata L’uomo qui presente, che fu ampiamente recensita e apprezzata.

Verso la metà degli anni Sessanta Piera si spostò a Milano dove visse fino alla morte: qui, il suo orizzonte si allargò ai temi politici e al femminismo. Per sua stessa ammissione, il decennio 1968-1978 fu il periodo più intenso della sua vita, quando il fervore delle speranze e la passione di tutta una generazione le fecero intravvedere la possibilità di conciliare vita e scrittura. Del 1967 è la raccolta pubblicata da Geiger con il titolo Sì a una reale interruzione.

A metà degli anni Settanta organizzò con altre donne il collettivo “Pentole e Fornelli” che portò per l’Italia uno spettacolo di canzoni e testi poetici. Nello spettacolo, Piera cantava in coro e recitava poesie. Pur frequentando Laura Lepetit, Rosaria Guacci e Bibi Tomasi, non fu mai parte organica della Libreria delle Donne. Con il riflusso degli ‘anni di piombo’ tornò a un’intensa attività letteraria pubblicando presso La Tartaruga il romanzo Minuto per minuto (1978), ossessionante viaggio di pensieri minuti e gesti ripetitivi nell’universo di una stanza, e, sempre per La Tartaruga, un lungo racconto che andò a far parte della raccolta Racconta (1989). Tradusse per Guanda Pel di carota di Jules Renard e per SE Il Profeta di Kahlil Gibran. Del 1987 è il lungo poema Le strade di Melanchta (Editrice nuovi autori); del 1991, il romanzo breve A note legate (Corpo 10). Molte poesie e testi di quegli anni furono pubblicati successivamente in numerose raccolte, su riviste e tradotte in tedesco e in inglese.

Per vivere, o meglio per sopravvivere, si occupava di correzione di bozze e collaborazioni editoriali, anche come lettrice, per Feltrinelli e altri editori. Dopo alcune coabitazioni, andò a vivere da sola in un appartamento, alquanto precario, della storica casa occupata di via Morigi 8 e poi in una casa “protetta” del Comune in corso Lodi. Gli ultimi due mesi furono trascorsi in una sofferta solitudine, appena alleviata dalle visite di due-tre amici, in ospedale e poi nel convalescenziario di Miazzina sul lago Maggiore. Qui morì il 19 dicembre 2009. La sua ultima raccolta di poesie, pubblicata da Manni, risale al 2003 (Andare qui).

La vita di Piera Oppezzo rimane misteriosa, così come sono appena intuibili le ragioni della sua non-felicità. Una non-felicità perseguita con accanimento, come fonte e molla di ispirazione. Per sondare il mistero, restano gli scritti: la forma dell’esistenza di Piera è la chiave di lettura delle sue poesie e dei suoi racconti. Quello che è certo è il valore assoluto che lei attribuiva alla scrittura. Per sua stessa ammissione, la caratteristica fondamentale della sua poesia è «l’espressione basata sui concetti e non sul sentimento».

Piera Oppezzo non è catalogabile. Malgrado il tentativo di schizzarne i contorni, sfugge alla definizione, E ciò, per volontà sua propria e dichiarata («il ‘ritornare’ mi è estraneo»; «…’ripassare’ tutta la propria vita, …il rischio è di svianti approssimazioni se risolte in poche righe…») e per un istinto di estrema difesa. Ecco come parla di sé, non parlando di sé, in questo stralcio da Le strade di Melanchta:

      si può vagabondare sempre
anche chiudendo la porta di casa
non è vero che non c’è nessuno
ci sono io ho capito
mi state inseguendo
dice a qualcun altro che insiste per sapere.
.

Il rispetto impone di lasciar parlare la sua voce, anche dove è imprecisa e frammentata. Ogni lettore poi la completerà con il proprio ascolto.

.

Giorgione, Venere dormiente – sassi d’arte

Giorgione, Venere dormiente (1508 – 1510)

olio su tela, cm 108 x 175 – Dresda, Gemäldegalerie Alte Meister

*

Questa Venere realizzata da Giorgio Barbarella Zorzi o Giorgio da Castelfranco detto Giorgione (Castelfranco Veneto 1478 circa – Venezia 1510) è una delle primissime raffigurazioni di donne completamente nude dell’arte moderna. L’artista fu in tal senso un grande innovatore e si ispirò direttamente all’arte antica, inaugurando un genere che di lì a poco sarebbe stato sperimentato anche da Tiziano; e proprio quest’ultimo potrebbe anche aver completato questo dipinto visto che l’autore scomparve prima di terminarlo. La Venere dormiente di Giorgione è citata per la prima volta nel 1525 negli appunti di Marcantonio Michiel, che la vide in casa di un certo Girolamo Marcello, che probabilmente la commissionò al Giorgione in occasione delle sue nozze con Morosina Pisani nel 1507.

Sul piano stilistico, la dea si distingue per le sue forme morbidissime, delicate, illuminate da una luce tenue; il paesaggio è caratterizzato dalla pittura tonale portata al massimo grado di perfezione da Giorgione. Per “Pittura tonale” o “tonalismo” si intende quel tipo di pittura in cui la profondità è suggerita dall’uso di colori e tonalità più calde per gli oggetti vicini e più freddi per quelli lontani, con un approccio che teneva conto di ciò che l’occhio percepiva nella realtà (ovvero le sfumature graduali di toni di colore via via che gli oggetti si allontanano) ed in questo la pittura veneta si differenziava da quella toscana, poiché la prima era fondata sul colore, mentre quella toscana, sul disegno. (adattamento dal sito Finestre sull’Arte)

I pochi documenti sulla vita di Giorgione hanno alimentato il mito che ben presto ha avvolto la sua opera e la sua personalità. Probabilmente allievo di Giovanni Bellini, da cui riprende il gusto per il colore e l’attenzione per i paesaggi, studia le opere di Antonello da Messina ed entra in contatto con la pittura di Leonardo, giunto a Venezia nel marzo del 1500 e sarà proprio l’artista toscano a influenzare lo stile del maestro di Castelfranco, che adotterà colori scuri modulandoli nello sfumato.

La Venere dormiente ritrae una Venere pudica – per la mano che ricopre il pube – addormentata all’aperto, in una posa di dolce abbandono, distesa su un telo bianco con un cuscino coperto da un drappo rosso. La sapiente modulazione tonale con cui è realizzato tutto il dipinto trasmette un sentimento malinconico, di solitudine incantata e sospesa. Esiste una chiara analogia tra il dolce profilo delle colline e la linea ondulata del corpo della dea, languidamente distesa e come la Venere, anche la natura sembra appartenere alla dimensione magica del sogno. La figura femminile si distende lungo una diagonale, occupando tutto il primo piano, mentre sull’altra diagonale si dispongono le colline e gli altri elementi del paesaggio.

Un restauro della metà dell’Ottocento ha rivelato ai piedi della dea la presenza di un Cupido che, essendo in pessimo stato di conservazione, è stato ricoperto ed è visibile solo in radiografia. Secondo le parole di Marcantonio Michiel, sul Cupido e sul paesaggio intervenne Tiziano anche se l’entità dell’intervento di quest’ultimo all’opera iniziata da Giorgione è oggetto ancora di dibattito. (tratto ed adattato da Giorgione, I capolavori dell’arte – immagini dal web)

 

Ubaldo de Robertis, due poesie ed un ricordo di Flavio Almerighi

Ubaldo De Robertis amava la Poesia, ne ha fatta tanta e di alto livello, rispettava le persone, uno dei pochi in ambiente poetico che possedeva il rispetto umano, oltre al talento. Non mi voglio dilungare troppo, anche perché mi frapporrei inutilmente tra la lettura dei suoi pezzi e ogni singolo lettore. Aspettavamo “il libro americano” per promuoverlo e diffonderlo, il destino ha disposto altro. La persona e l’arte di Ubaldo De Robertis meritano anzitutto rispetto e silenzio. Se “tutta la vita è lasciare tracce” quest’Uomo e questo Artista ne hanno lasciate, eccome. (Flavio Almerighi)

*

Ubaldo de Robertis, da DIOMEDEE (Ed.Joker, Maggio 2008)

IO CHE…

Io che ho spiegato le vele tutte finché la riva scompare,
esplorato ogni terra invisibile,
ogni visibile mondo, sfidato correnti, mostri marini,
e gli uccelli indomabili della tempesta,
per tornare, di nuovo, come il vento, ogni volta,
a mio piacimento, dove posso scovare strumenti
di analisi per sondare il mondo che è in me,
e che non conosco, trovare un’unità,
un ordine nel pensiero, una linea di neutralità,
idee che siano chiare e concrete come le pietre
delle strade, non come le impervie, intricate vie
che portano a me.
Come posso trovare un’identità, energie
connettive se ciò che d’incoerente si agita dentro,
vive le mie stesse, indistinte, emozioni.
Come posso comporre le dissonanze interne,
le diffidenze, le contrapposizioni, le opposte
sensazioni, i dissidi, i molteplici istinti.
In certe anime che s’agitano dentro sta il segno
che naufragare è il mio destino,
diffido del loro modo d’agire, paure dentro
paure più fonde, tentazioni continue, di tradire.
Fuori di me una realtà esiste, assoluta,
illuminata da un calore unico, una corrispondenza
compiuta tra forme e sensazioni,
una mobilità tanto varia regolata da immutabili
leggi cosmiche.
Dinanzi ad un più vasto divenire, fuori di me,
fuori dagli affanni inconsci, tento di sopravvivere
ai tormenti, agli indicibili e improvvisi morsi
della crisi.

.

CONFRONTO

Perderci o raccontarci raccontarci le cose vere
questo è il dilemma
Cosa muove il pulsare di una chat
la risoluzione di una webcam
come contemplarsi nel minuscolo schermo
d’un cellulare confidarsi in un blog
Io che non mi uniformo alle cose fugaci
alla precarietà che temo in altri la frenesia
di crescere la ricerca affrettata dell’identità
No! Non cercarla in me!
Ancora inseguo la mia e ciò che dilegua
è percettibile la notte quando il vuoto incombe
nelle bottiglie (non ci dicono che hanno un’anima
anche gli oggetti?)
E’ vero… in questo mondo è arduo procedere da soli
convivere con la realtà   contenere le illusioni
No! Non cercarla in me!
Quella sensibilità che agita il tuo tempo
Io non so riconoscere i frammenti dei sogni
e non saprei come ricomporli
Finché non troverò un senso alla mia vita
cosa potrò darti… mio giovane amico?
Non ti accorgi che spesso hai ragione tu?

*

ti abbraccio forte
(Flavio Almerighi a Ubaldo De Robertis, novembre 2016)
.
 .
Itaca è peraltro una bevuta di Achab
.
nessun greco, Andromaca trentenne
per sempre prigioniera degli Achei
.
sterrate bianche dentro l’orizzonte
smettila Bogey, questo quadro è tuo.
.
Quando sparisci c’è sapore di ferro,
rimaniamo in macchina sotto il sole
.
(noi volevamo un posto appartato
un po’ di vita con le nostre donne)
.
non perdere altro tempo,
il suono è tutto il dentro
che l’aperto copre
una Cadillac distrutta nel fosso.
.
Ti lascio e non abbandonarmi
chiudo qui non dimenticatemi
adesso non siamo mai esistiti.
Ho terrore, ti abbraccio forte
.
.
.
Ubaldo de Robertis ci ha lasciato l’11 maggio 2017 dopo una strenua lotta con un male che fa pochi sconti. Aveva appena pubblicato un’ampia Antologia bilingue, inglese italiano, con Chelsea Editions (NY), The Rings of the Universe, e ricevuto il riconoscimento ufficiale del premio Astrolabio di Pisa. Era nato a Falerone (FM) nel 1942 e viveva a Pisa. Ricercatore chimico nucleare, membro dell’Accademia Nazionale dell’Ussero di Arti, Lettere e Scienze, nel 2008 pubblica la sua prima raccolta poetica, Diomedee (Joker Editore) e nel 2009 la Silloge vincitrice del Premio Orfici, Sovra (il) senso del vuoto (Nuovastampa). Nel 2012 edita l’opera Se Luna fosse… un Aquilone, (Limina Mentis Editore); nel 2013 I quaderni dell’Ussero, (Puntoacapo Editore). In corso di pubblicazione: Parte del discorso (poetico), del Bucchia Editore, 2014. Suoi anche i romanzi Il tempo dorme con noi, Primo Premio Saggistica G. Gronchi, (Voltaire Edizioni), e L’Epigono di Magellano, (Edizioni Akkuaria).
.
.
.
.

“Atmosphere” (testo della canzone)

Cammina in silenzio, \ Non andartene, in silenzio \ Bada al pericolo, \ Pericoli sempre, \ Conversazione senza fine, \ Ricostruzione esistenziale, \ Non andartene. \ \ Cammina in silenzio, \ Non allontanarti, in silenzio. \ La tua confusione, \ Le mie illusioni, \ Indossate come una maschera d’odio di sé, \ Sfida e poi muore, \ Non andartene. \ \ Per la gente come te è facile, \ Messo a nudo, \ Al settimo cielo, \ A caccia vicino al fiume, \ Per le strade, \ Via da ogni angolo troppo in fretta, \ Pensaci con la dovuta attenzione. \ Non andartene, in silenzio \ Non andartene …

 .
.

Michel Houellebecq, tre poesie tratte dalla raccolta La ricerca della felicità

Michel Houellebecq, La ricerca della felicità – “Cos’è la felicità? È possibile in questo mondo? Come la si raggiunge? A queste domande risponde questa raccolta di riflessioni e poesie in cui Houellebecq delinea un metodo per restare vivi, sopravvivere, colpire là dove si può (e si deve). Col suo solito sguardo feroce, Houellebecq ci racconta la quotidianità e la letteratura, l’incanto del cinema (specie del cinema muto) e la stupidità di certi poeti, senza censurarsi mai. Ne esce un paesaggio in controtendenza con i venti e le maree delle mode, lo spaccato di una quotidianità molto contemporanea e molto urbana, in cui la solitudine trionfa ma in cui comunque non si può rinunciare: non alla ricerca della felicità.” (Bompiani, 2008 – Traduttore: F. Ascari)

*

L’indifferenza delle scogliere
al nostro destino di formiche
cresce nella brutta serata;
siamo piccoli, piccoli, piccoli.
.
Davanti a queste concrezioni solide
pur erose dal mare
cresce in noi un desiderio di vuoto,
la voglia di un perenne inverno.
.
Ricostruire una società
che meriti il nome di umana,
che conduca all’eternità
come l’anello va verso la catena.
.
Siamo qui, la luna cade
su una disperazione animale
e tu gridi, sorella, soccombi
sotto la saggezza del minerale.
.
.
§
.
.
Il treno che si fermava in mezzo alle nuvole
avrebbe potuto condurci verso un destino migliore
abbiamo avuto il torto di credere troppo alla felicità
non voglio morire, la morte è un miraggio.
.
Il freddo scende sulle nostre arterie
come una mano sulla speranza
non è più il tempo dell’innocenza,
sento agonizzare mio fratello.
.
Gli esseri umani lottavano per pezzi di tempo,
udivo crepitare le armi automatiche,
potevo confrontare le origini etniche
dei cadaveri ammucchiati nello scompartimento.
.
La crudeltà sale dai corpi
come un’ebbrezza inappagata;
la storia porterà l’oblio,
vivremo la seconda morte.
.
.
§
.
.
Trasposizione, controllo
.
La società è ciò che stabilisce delle differenze
e delle procedure di controllo
nel supermercato faccio atti di presenza,
interpreto benissimo il mio ruolo.
.
Rivelo le mie differenze,
delimito le mie esigenze
e apro la mascella,
i miei denti sono un po’ neri.
.
Il valore delle cose e degli esseri di definisce per consenso trasparente
in cui intervengono i denti,
la pelle e gli organi,
la bellezza che sfiorisce.
.
Alcuni prodotti a base di glicerina
possono costituire un fattore di sopravvalutazione parziale;
si dice: “Lei è bella”;
il terreno è minato.
.
.
– per questi testi si ringrazia Flavio Almerighi –

*

Michel Houellebecq, pseudonimo di Michel Thomas (Réunion, 26 febbraio 1956), scrittore, saggista, poeta, regista e sceneggiatore francese, è considerato uno dei più rilevanti scrittori della letteratura francese contemporanea. Nato nel dipartimento d’Oltremare francese della Réunion, Michel Thomas è cresciuto fino a sei anni in Algeria; suo padre, guida d’alta montagna, e sua madre, medico anestesista, si disinteressano molto presto di lui, dopo la nascita della sorellastra, affidandolo alla nonna paterna, Henriette Houellebecq, una comunista, della quale adotta il cognome.
Dopo aver frequentato a Parigi il liceo Chaptal, nelle classi di preparazione per la Grande Ecole, si iscrive alla facoltà di agraria nel 1975, dove fonda la poco fortunata rivista letteraria Karamazov, per la quale scrive qualche poesia e lavora alle riprese di un film dal titolo Cristal de souffrance. Consegue la laurea in agraria nel 1978 con una specializzazione in «Ecologia e miglioramento dell’ambiente naturale». Subito dopo si iscrive all’École nationale supérieure Louis-Lumière, nella sezione di cinema, scegliendo l’indirizzo di riprese cinematografiche, che abbandona nel 1981. Lo stesso anno nasce suo figlio Étienne. Affronta in seguito un periodo di disoccupazione, e un divorzio che gli provoca una forte depressione. Inizia a lavorare come informatico nel 1983 presso la Unilog, dove resterà tre anni, periodo che diventerà poi fonte di ispirazione per Estensione del dominio della lotta, il suo primo romanzo pubblicato nel 1994. In seguito passa a lavorare all’Assemblée nationale. Verso la metà degli anni ottanta inizia a frequentare ambienti letterari parigini, pubblica le prime poesie e collabora con varie riviste. Le sue due prime raccolte di poesie, edite nel 1991, passano inosservate. In esse sono già percepibili i temi che verranno trattati in seguito, ossia la solitudine esistenziale e la denuncia del liberalismo e del capitalismo, all’opera fin nell’intimità degli individui. Nel 1991, pubblica un saggio su Lovecraft, ma è il romanzo Le particelle elementari, pubblicato nel 1999 che lo fa conoscere in Francia e nel mondo. Estensione del dominio della lotta, invece, il suo primo romanzo, viene pubblicato da Maurice Nadeau nel 1994 dopo essere stato rifiutato da parecchi editori e colloca Houellebecq a capo di quella generazione di scrittori concentrati sulla miseria affettiva dell’uomo contemporaneo; senza promozione né pubblicità, il romanzo si diffuse tramite il passaparola. Ne è stato tratto un film per il cinema francese da Philippe Harel nel 1999, e uno per la televisione danese da Jens Albinus nel 2002. Michel Houellebecq, che si è risposato, dopo aver vissuto in Irlanda per parecchi anni, vive attualmente in Spagna, all’interno del Parco naturale Cabo de Gata-Nijar. Nel 2008 per Bompiani esce in Italia La ricerca della felicità, una raccolta di poesie e riflessioni, che forniscono un’ampia visuale del pensiero di questo autore; nel 2010 esce il romanzo La carta e il territorio, edito anche questo da Bompiani, che gli varrà il massimo premio letterario francese, il Goncourt. Michel Houellebecq oggi continua brillantemente a produrre opere di successo, ponendosi tra le voci più lette ed apprezzate del panorama contemporaneo.
– notizie ed immagini tratte dal web; in apertura: Charlie Chaplin tempi moderni –

Quattro sassi con…autori contemporanei in 4 poesie: Rita Pacilio

Quattro sassi con…autori contemporanei in 4 poesie: Rita Pacilio

Preghiera.
.
Sui gradini dove siamo seduti
ti ho chiesto di ascoltare le cicale
la promessa al mondo che tutto
ancora accade in questa vita tonda
fulminea e mansueta magnificenza.
.
(da Libro d’arte – GaEle Edizioni, 2017)
.
.
***
.
.
Verso nord-ovest aumenta la scogliera
si arrampicano le acque
dove si posa la clemenza
le alghe consegnano umori tra dita.
Convulsi baci a pieni polmoni
all’abisso che rimane tra i denti.
.
I folli hanno labbra di rosa vermiglio
ginocchia conficcate nella gola
quelli del primo piano chiedono l’ora
collezionano dossi per l’inverno.
.
Scrivono sui marmi con il trucco
e sbavano meduse sul mento
quelli del secondo piano tremano
il morbo che cresce nell’addio.
.
(da ‘Gli imperfetti sono gente bizzarra’ LVF, 2012)
.
.
***
.
.
Il tuo nome resta
.
Sono piroette più sciolte, senza accordi
– le prime mammole di quell’anno –
le sciarpe appese al muro come ostaggi
un camerino di figure a busto fisso, poroso:
.
è neve rotta dalla tua ancia, la lingua
al posto della luce elastica, decorata:
tu sei così quando ti tocca il boato, la vita
sei una sincope e una pausa, la scintilla
.
che rompe il silenzio delle ombre zitte.
Diventi un coro replicato nella perfezione
ruvida, sdrucita come una filatura, mosaico
dal respiro semplice, un piccolo spazio;
.
sai che si muore da soli, imprigionati lì
nell’estremità fatta da mille idee congiunte
e il disamore alza il collo verso le nubi,
alla verticalità, gravità degli uccelli ora.
.
(da ‘Il suono per obbedienza’ Marco Saya Edizioni, 2015)
.
.
***
.
.
Non devi restituirmi la difesa
appuntire collera tra me e te
riparare nelle mani a forma di cuore
tutti i pensieri belli e tristi
che raccontano beltà sbarazzine,
.
non devi sbattere porte per dimenticare
il mento alzato agli uomini che ho
baciato. Non maledire
le parole dei poeti che mi hanno
.
voluta in sposa e poi copiata.
Non devi perdonare i dubbi di Romeo
il suo Pater Nostro in ginocchio
bruciato nelle lettere perfette
.
mai spedite. Che fatica
aprire gli occhi e trovarsi attorcigliata
sembrare un tuono, lunga, un fiume stretto.
Vedersi seminata, vangata
un miscuglio di quesiti spalancati.
.
(da ‘Prima di andare’ – poesie e lettere d’amore LVF, 2016)
.
.
.

Rita Pacilio (Benevento 1963) è poeta, scrittrice, collaboratrice editoriale, sociologa, mediatrice familiare, si occupa di poesia, di critica letteraria, di metateatro, di letteratura per l’infanzia e di vocal jazz. Curatrice di lavori antologici, editing, lettura/valutazione testi poetici e brevi saggi, dirige per La Vita Felice la sezione ‘Opera prima’. Sue recenti pubblicazioni di poesia: Gli imperfetti sono gente bizzarra (La Vita Felice 2012) traduzione in francese Les imparfaits sont des gens bizarres, (L’Harmattan, 2016 Traduction en français par Giovanni Dotoli et Françoise Lenoir),  Quel grido raggrumato (La Vita Felice 2014), Il suono per obbedienza – poesie sul jazz (Marco Saya Edizioni 2015), Prima di andare (La Vita Felice, 2016). Per la narrativa: Non camminare scalzo (Edilet Edilazio Letteraria 2011). La principessa con i baffi (Scuderi Edizioni 2015) è la sua fiaba per bambini.

Quattro sassi con…autori contemporanei in 4 poesie: Claudia Brigato

Quattro sassi con - Il sasso nello stagno di AnGre

Quattro sassi con…autori contemporanei in 4 poesie: Claudia Brigato

.

Nulla conosco della ragione

Nulla conosco della ragione
che del tempo fa giustizia
solo mi è concesso un tentato cavar di nome
alle cose del mondo
misurando con bocca imprecisa
distanze e geometrie
esistenze e profondità.
.
Per secoli potresti aspettare
il mio farti verso-perfetto
verbo, parola, voce, canto
o – in uno schiocco di lingua –
accoglierti ora suono impreciso
libero
dai tempi e dai modi
dalla sintassi
dalla ragione e dal senso.
.
Senza umano pronunciar di nome
sconfini
altissimo
in dio.
.
.

§

[Quando offuscato da nebbia il sole]

Quando offuscato da nebbia il sole
diventa fragile ostia luminescente
tra i vapori che allineano terra e cielo
sono esile armonia in accordo
con le dimesse cose del mondo.
.
Sopra fili d’erba paziente, la brina
riposa devota. La grazia ha il peso
di un chicco di ghiaccio
sospeso tra una lingua di verde
e una bocca di terra scura.

 

§

Non so scrivere della quiete

Non so scrivere della quiete
di questa luna accordata a requiem
sotto una cuccia improvvisata di stelle.
.
…… – Anche il ragno ha fermato la tela
e va restituendo al moscerino la pietà di un’urna –
Se solo potessi allattarmi
tutta di questa pace
e docile dormirci dentro
nuda.
.
(Menzione speciale di merito premio “Don Luigi di Liegro” 2014)
.
.

§

Attesa

Il gallo ha appena cantato
tre volte. Dalle siepi occhi
di vipera sanguigni, occhi
giallo ramarro mi genuflettono
lo sguardo – su ogni foglia
una stazione, annuncio di un calvario
fuori tempo –
Il giardino si fa sinedrio
nell’attesa di giudizio e il faggio
apre a croce le nude braccia.
.
Solo il sempreverde pino
è votato a resurrezione.
.
.

*

(Tutte le poesie proposte in questa sede sono inedite)

.

claudia_brigato - ph. di Davide ScapinClaudia Brigato è nata a Piove di sacco (Pd) nel 1979. Nel 2003 consegue la laurea in Filosofia e nel 2016 si specializza in Pedagogia clinica. Lavora nel campo della formazione ed educazione scolastica. Dal 2015 collabora con enti e associazioni sviluppando progetti legati alla scrittura e alla memoria di sé.

La sua opera è prevalentemente inedita; alcuni scritti sono presenti in blog letterari e nell’antologia del premio “Don Luigi di Liegro” 2014. Gestisce il blog L’ombelico di Eva, che raccoglie parte della sua produzione scritta (fotografia di Davide Scapin).

 

Stefano Maderno: la statua di Cecilia martire in Trastevere – sassi di arte

ph.Angela Greco AnGreStefano Maderno: la statua di Cecilia martire in Trastevere   a cura di Giorgio Chiantini & Angela Greco per Sassi d’arte
.

Il primo maggio appena trascorso è stata l’occasione per far visita alla basilica di Santa Cecilia in Trastevere – nella sempre splendida Roma – che nel suo complesso custodisce opere di Arnolfo di Cambio, Pietro Cavallini, Stefano Maderno solo per citarne alcuni.

Entrando nella basilica e percorrendo i grandi marmi della navata centrale si giunge innanzi all’imponente catino absidale dove fa bella mostra di sé uno splendido mosaico del IX secolo, epoca d’oro dei mosaici a Roma, commissionato da Papa Pasquale I, davanti al quale è eretto il bellissimo ciborio di Arnolfo di Cambio della fine del Duecento. Sotto quest’ultimo, dentro una teca di marmo scuro, si offre alla vista del pellegrino la statua bianchissima della martire Cecilia, opera di Stefano Maderno datata 1599, distesa in una particolare posa, nella irreale luminosità del corpo di marmo candido. Trovarsi di fronte a questa statua minuta nelle dimensioni di S. Cecilia è emozione purissima.

ph-Giorgio Chiantini

Siamo nel 220 d.C.; primissimi anni del cristianesimo, nuovo culto proibito e perseguitato. La leggenda narra che la giovane nobile romana Cecilia, convertita alla nuova fede, sceglie di non rinnegare il suo credo, ma, anzi, si prodiga nella sua diffusione e per questo motivo è imprigionata e uccisa. Si decide di ucciderla tentando di soffocarla con il vapore ma, l’esito negativo fa optare per la decapitazione. Papa Urbano I fa seppellire il corpo della martire nelle catacombe di S.Callisto, mentre sul luogo della casa e del martirio di Cecilia, fa edificare una chiesa a lei dedicata.

Passano circa 600 anni, siamo nel 820 d.C., il cristianesimo si è ormai affermato. Papa Pasquale I ha in sogno la visione di Santa Cecilia – narra la leggenda – che gli indica il luogo esatto in cui è stata seppellita. Eseguiti degli scavi, viene trovata effettivamente la bara contenente il corpo, che tra l’altro è miracolosamente intatto. Fra lo stupore generale la salma della santa viene così deposta nella “sua” chiesa, che nel frattempo è stata fatta riedificare. Nei secoli successivi la storia della basilica vede opere di abbellimento realizzate prima delle trasformazioni che hanno dato all’edificio l’aspetto attuale.

Il 20 ottobre 1599 durante una ricognizione delle condizioni fisiche dei resti della santa voluta dal card. Paolo Emilio Sfrondati (nipote di Gregorio XIV) questi fece aprire la tomba di S. Cecilia, traslata in loco da Pasquale I, consistente in una cassa di cipresso chiusa in una di marmo, trovando all’interno effettivamente, come narrava la leggenda, il corpo della Santa intatto, sdraiato e avvolto in una veste bianca trapunta d’oro.ph.Giorgio Chaintini

L’avvenimento ebbe una risonanza enorme e papa Clemente VIII venne a visitare la salma. Il card. Sfrondati, volendo conservare memoria per i posteri dell’immagine che si era offerta ai suoi occhi all’apertura della bara, incaricò il giovanissimo Maderno, che della salma aveva eseguito un primo disegno, di scolpire una statua della Santa. Cecilia venne tratta dal marmo così come era loro apparsa: in una posa naturale, come in un profondo sonno, le braccia tese in avanti, le mani semiaperte con le dita ad indicare simbolicamente con un numero tre il mistero della Trinità, la faccia rivolta a terra e i capelli coperti dal sudario riverso a mostrare il segno del martirio sul collo, una profonda incisione alla base della nuca.ph_giorgio_chiantini

Stefano Maderno (o Maderni, Capolago, 1570 – Roma, 17 settembre 1636; scultore svizzero-italiano, nato per alcuni nell’odierno Canton Ticino – Svizzera, mentre per altri a Palestrina, come indicato nell’atto di morte), sebbene giovane e di poca esperienza, seppe ricompensare il committente con un’opera di straordinaria bellezza; l’originalità della soluzione e il naturalistico abbandono della posa ebbero un seguito nella scultura barocca, anche se rappresentò un caso isolato nella produzione classicheggiante dell’artista.

[Giorgio Chiantini & Angela Greco testo e fotografie]

ph.Giorgio Chaintini e Angela Greco

Arnold de Vos, due poesie da Il giardino persiano

2lkpeyx

Arnold de Vos, tre poesie da Il giardino persiano (Samuele Editore, 2009)

.

EPITHUMIA¹

Il mio e tuo in poesia, dov’è?
trascrivo sofferenza in un verso gioioso
per la bellezza che mi si presenta davanti:
il mio e il tuo si mescolano
nell’osmosi della visione. L’osmosi inversa
non è possibile: mi rimani sulla retina
intramontabile, ad alare
quel che del giorno resta.
.

(pag.24)

¹Epithumia: “concupiscenza, bramosia”

.

 

IL GIARDINO PERSIANO

E’ un paradiso in terra
il tuo simmetrico corpo
per cui la mano vaga
senza necessariamente scegliere
se tu la lasci andare
per vene d’acqua e strade bianche
in corrispondenza delle qanate sotterranee
e i pozzi d’ispezione a fior di pelle.
Che marezzarsi di colline e verzure
rosee, ondivaga prora
che animi il mar del cielo:
‘Se c’è un paradiso sulla faccia della terra,
è qui, è qui, è qui.’
.

(pag.13)

*

1174501626-deVospecial3Arnold de Vos: nato a L’Aja nel 1937 – filologo, ‘poeta migrante’ presente a Roma dal 1968, poi residente a Trento e Selva di Grigno in Valsugana nonché a Tunisi – ha al suo attivo i libri di poesia: “Merore o Un amore senza impiego” (Cosmo Iannone, 2005), “Vertigo. 77 poesie per Ahmed Safeer” (Edizioni del Leone, Spinea-Venezia 2007), “Sublimazione” (ICI Edizioni,2008), “Nakedness Is Your Priestly Robe” (Eloquent Books, 2008), “Il nudo è il tuo abito talare” (Edizioni del Leone, 2008), “Amore con l’unicorno” (Edizioni Il Foglio, 2009), “Ode o La bassa corte dell’amore” (puntoacapo Editrice, 2009), “Il giardino persiano” (Samuele Editore, 2009), “Stagliamento” (Samuele Editore, 2010), “O terra, dammi ali” (Edizioni CFR, 2011), “L’obliquo” (Samuele Editore, 2011). Una monografia dell’autore è stata curata da Gianmario Lucini, “Arnold de Vos. L’ascetica dell’eros” (I quaderni di Poiein 1, puntoacapo, 2010).

(immagine d’apertura: Sascha Schneider, Triumph der Finsternis (Trionfo delle tenebre), 1896, olio su tela, collezione privata)

Adam Zagajewski, Dalla vita degli oggetti, due poesie

Parigi_pioggia

Adam Zagajewski, due poesie

AUTORITRATTO

Tra computer, matita e macchina da scrivere passa
metà della mia giornata. Col tempo farà mezzo secolo.
Abito in città straniere e talvolta parlo
con sconosciuti di cose indifferenti.
Ascolto molta musica: Bach, Mahler, Šostakovič, Chopin.
Vi trovo tre elementi, forza, debolezza, dolore.
Il quarto non ha nome.
Leggo i poeti, i vivi e i morti, da loro apprendo
costanza, fede e orgoglio. Cerco di capire
i grandi filosofi – ma di solito riesco
ad afferrare solo brandelli dei loro preziosi pensieri.
Amo fare lunghe passeggiate per le strade di Parigi
e guardare i miei simili, animati dalla gelosia,
dalla brama o dall’ira, osservare la moneta d’argento
che passa di mano in mano e lentamente perde
la sua forma rotonda (si usura il profilo dell’imperatore).
Accanto crescono gli alberi, e nulla esprimono,
a parte la verde, indifferente perfezione.
Sui campi volteggiano uccelli neri
che attendono pazienti come vedove spagnole.
Non sono più giovane, ma c’è ancora chi è più vecchio di me.
Amo il sonno profondo, quando non ci sono,
la corsa veloce in bicicletta per la campagna, quando i pioppi
e le case si dissolvono come cumuli in un cielo sereno.
Talvolta mi parlano i quadri nei musei
e allora l’ironia svanisce all’improvviso.
Adoro osservare il volto di mia moglie.
Ogni domenica telefono a mio padre.
Ogni due settimane incontro gli amici,
in questo modo restiamo fedeli gli uni agli altri.
Il mio paese si è liberato da un male. Vorrei
che a ciò seguisse ancora un’altra liberazione.
Potrei in ciò essere d’aiuto? Non so.
Non sono un vero figlio del mare,
come scrisse di sé Antonio Machado,
ma figlio dell’aria, della menta e del violoncello
e non tutte le strade del mondo alto
incrociano i sentieri della vita che, per ora,
mi appartiene.
.
————————–Giugno 1995
(pag.135)
.

§

STORIA DELLA SOLITUDINE

Si smorzano le voci degli uccelli.
La luna si mette in posa per la foto.
Luccicano le umide guance delle vie.
Il vento porta il profumo di campi verdi.
Lontano, in alto, un piccolo aeroplano
gioca come un delfino.
.
(pag.105)
.

*

Dalla vita degli oggetti, poesie 1983 – 2005, a cura di Krystyna Jaworska (Adelphi) — immagine dal web

Sei poeti greci contemporanei per la Giornata Mondiale della Lingua e della Cultura Greca / e-book scaricabile gratuitamente

acropoli-di-atene-grecia

20 Maggio 2016 Giornata Mondiale della Lingua e della Cultura Greca

“Per la prima volta il 20 maggio 2016 sarà celebrata la Giornata Mondiale della Lingua e della Cultura Greca per la salvaguardia della quale è imminente una regolamentazione legislativa da parte dell’attuale Governo greco. L’iniziativa per l’istituzione di questa giornata è partita dalla Federazione delle Comunità e Confraternite Elleniche d’Italia con una iniziale raccolta di firme e completata con la proposta ufficiale tanto al Governo greco, attraverso il Parlamento greco e la Speciale Commissione Permanente dell’Ellenismo della Diaspora, quanto al Rappresentante della Delegazione Greca Permanente dell’UNESCO ed alla Presidenza delle Repubbliche di Grecia e di Cipro. Saranno quindi programmate da parte di tutte le Comunità Elleniche d’Italia, col patrocinio della Federazione, manifestazioni celebrative di questa giornata.” – comunicato tratto dal sito ellade.org

*

Sei poeti greci contemporanei a cura di Angela Greco
per Il sasso nello stagno di AnGre (pdf \ e-book scaricabile gratuitamente QUI)
.
Ghiannis Ritsos (1909 – 1990)
.
.
Mutamenti di popolazioni
.
La città vuota di filosofi, chitarristi, poeti;
forse da lontano mandano qualche segno, qualche favilla
la sera tardi, di tra i riflessi del crepuscolo,
qualcosa sui vetri delle case e nelle buche delle strade
o sulle antenne televisive e sui lampioni. Il che, naturalmente,
non influenza affatto il corso degli eventi. Può darsi tuttavia
che abbia un qualche ruolo più avanti. Ora
commercianti, diplomatici, ragionieri, armatori, trafficanti di antichità e strozzini
affollano le piazze, i bar, i ristoranti. E le notti
sentiamo gli enormi camion coperti scaricare
sul lastricato lustro del Mercato, davanti ai frigoriferi immensi,
certi enormi pescicani scuoiati dalle fauci aperte.
Kàlamos, 31.X.82
da “Poesie inedite” in Ghiannis Ritsos, Il funambolo e la luna e altre poesie inedite, trad. di Nicola Crocetti – Crocetti Editore Milano,1984.

*  *  *

.
Titos Patrìkios (1928)
.
.
I simulacri e le cose 
.

Non ci aspettavamo che accadesse di nuovo
eppure è di nuovo nero come la pece il cielo,
partorisce mostri di oscurità la notte,
spauracchi del sonno e della veglia
ostruiscono il passaggio, minacciano, chiedono riscatti.
Non temere Lestrigoni e Ciclopi…
non temere, diceva il poeta,
ma io temo i loro odierni simulacri
e soprattutto quelli che li muovono.

Temo quanti si arruolano per salvarci
da un inferno che aspetta solo noi,
quanti predicano una vita corretta e salutare
con l’alimentazione forzata del pentimento,
quanti ci liberano dall’ansia della morte
con prestiti a vita di anima e di corpo,
quanti ci rinvigoriscono con stimolanti antropòvori
con elisir di giovinezza geneticamente modificata.

Come una goccia di vetriolo brucia l’occhio
così una fialetta di malvagità
può avvelenare innumerevoli vite,
«inesauribili le forze del male nell’uomo»
predicano da mille parti gli oratori,
solo che i detentori della verità assoluta
scoprono sempre negli altri il male.
«Ma la poesia cosa fa, cosa fanno i poeti?»
gridano quelli che cercano il consenso
su ciò che hanno pensato e già deciso,
e vogliono che ancora oggi i poeti
siano giullari, profeti o cortigiani.

Ma i poeti, nonostante la loro boria
o il loro sottomettersi ai potenti,
il narcisismo o l’adorazione di molti,
nonostante il loro stile ellittico o verboso,
a un certo punto scelgono, denunciano, sperano,
chiedono, come nell’istante cruciale
chiese l’altro poeta: più luce.
La poesia non riadatta al presente
la stessa opera rappresentata da anni,
non salmeggia istruzioni sull’uso del bene,
non risuscita i cani morti della metafisica.
Passando in rassegna le cose già accadute
la poesia cerca risposte
a domande non ancora fatte.

da “La resistenza dei fatti”, 2000, in Poeti greci del Novecento, I Meridiani, Mondadori,  2010 – trad.di Nicola Crocetti (per questa poesia si ringrazia “poesia in rete” di Titti DeLuca)

*  *  *

Kikì Dimulà (1931)

Fotografia 1948

Tengo in mano un fiore, forse.
Strano.
Sembra che nella mia vita
sia passato un giardino, una volta.
 .
Nell’altra mano
tengo un sasso.
Con grazia e fierezza.
Nessun sospetto
che mi si avverta di mutamenti,
che stia saggiando difese.
Sembra che nella mia vita
sia passata l’ignoranza, una volta.
 .
Sorrido.
La curva del sorriso,
il cavo di questa inclinazione,
assomiglia a un arco ben teso,
pronto.
Sembra che nella mia vita
sia passato un bersaglio, una volta.
E l’inclinazione alla vittoria.
 .
Lo sguardo immerso
nel peccato originale:
assaggia il frutto
proibito dell’attesa.
Sembra che nella mia vita
sia passata la fede, una volta.
 .
La mia ombra, solo un gioco del sole.
Indossa una divisa d’esitazione.
Non ha ancora fatto in tempo a essere
mia compagna o mia delatrice.
Sembra che nella mia vita
sia passata l’abbondanza, una volta.
 .
Tu non appari.
Ma se c’è una forma nel paesaggio
se mi sono fermata sul suo bordo
tenendo un fiore in mano
e sorridendo,
significa che che fra un po’ verrai.
Sembra che nella mia vita
sia passata la vita, una volta.
.
da Antologia della poesia greca contemporanea (Crocetti Editore, 2005)
.
*  *  *
.
.

Odisseas Elitis (1911 – 1996)

Nel blu di Iulita

Anche in un frammento di Briseide e in una conchiglia dell’Euripo si trova
Ciò che intendo. Deve avere avuto una fame tremenda di bonaccia agosto
Per cercare il meltemi; così da lasciare un po’ di sale sulle ciglia e
In cielo un blu il cui nome benaugurante odi tra i tanti
Ma nel profondo c’è il blu di Iulita
Come se precedesse la scia del respiro di un bimbo
Che vedi avvicinarsi così nitidamente i monti dirimpetto
E la voce di un antico colombo fendere l’onda e perdersi

.

Se il bene è sacro, di nuovo dal vento
Gli viene ricambiato. Si moltiplica tanto dai suoi stessi figli Eu-
Morfia e l’uomo cresce prima due e tre volte
Lo raffiguri il sonno
Nel suo specchio. Cogliendo mandarini o ruscelli di filosofi se non anche
Un villaggio mobile di api sul pube. E sia
L’uva fa bruno il sole e più candida la pelle
Chi se non la morte ci rivendica? Chi pratica l’ingiustizia dietro ricompensa?
Un accordo armonico la vita
————————–a cui si frappone un terzo suono
Ed è questo che dice veramente che cosa getta il povero
E che cosa raccoglie il ricco: fusa di gatto, rametti intrecciati di agnocasto
Assenzio con capperi, parole che si evolvono con una vocale breve
Baci e abbracci da Citera. Così, a cose come queste si aggrappa
L’edera e si fa più grande la luna perché vedano gli innamorati
In che blu di Iulita puoi leggere la ragnatela del destino.

.
Ah! Quanti tramonti ho visto e quanti corridoi di teatri antichi
Ho attraversato. Però non mi ha mai prestato un po’ di bellezza il tempo
E una vittoria per sconfiggere il nero e prolungare la durata dell’amore cosicché
Sia più ingegnoso e melodico il suo pulpito
Il canto dell’allodola che è in noi
Nube accigliata che solleva uno schietto “no” come una piuma
E poi ricade e tu ti sazi ti sazi ti sazi di pioggia
Diventi coetaneo dell’intatto senza conoscerlo e
Continui a farti il solletico con le tue cugine nei recessi del giardino
Domani un suonatore ambulante ci innaffierà di fiori della notte
E nonostante ciò saremo un po’ più infelici
——————————come solitamente nell’amore
Ma dal mastice dell’argilla sale un sapore eretico
Per metà di odio e sogno per metà di nostalgia

.

Se continueremo a essere percettibili come uomini che
Passano la vita sotto cupole punteggiate da tritoni di smeraldo,
–—————allora

Sarà mezzo secondo dopo mezzogiorno
E la sublime perfezione
———————–compiuta in un giardino di giacinti
Cui è stato abolito per sempre l’appassire. Un po’ di grigio
Che una sola goccia di limone rasserena allorché
Vedi ciò che fin che intendevo dall’inizio incidersi
Con caratteri nitidi
 ———————sul blu di Iulita.

 .

da Nuove poesie d’amore (Crocetti Editore – Trad. di Nicola Crocetti)

*  *  *

Costantino Kavafis (1863 – 1933)

Idi di marzo

Anima, temi le cose grandi.
E se non puoi sconfiggere le ambizioni,
assecondale almeno con prudenza,
con esitazione. E più procedi,
con tanta maggior cura indaga.

Raggiunto che avrai il culmine, Cesare ormai,
quando figura d’uomo famoso avrai assunto,
soprattutto allora sii vigile, se esci in strada,
sovrano insigne, con il tuo corteo,
se avviene che ti si accosti dalla folla
un Artemidoro con in mano una lettera
e che ti dica in fretta: «Leggi subito questa,
è una cosa importante, t’interessa»,
fermati pure, allora, dilaziona
ogni affare o discorso; scosta pure
chi ti saluta e ti s’inchina
(li vedrai più tardi); lascia che aspetti
anche il Senato, e leggi subito
le cose gravi che scrive Artemidoro.

da poesie 1905 – 1915 in Costantino Kavafis, Le poesie, trad.e cura di Nicola Crocetti, Einaudi 2015

*  *  *

Nikitas Randos (1907 – 1989)

Villa Asphodela

Vicino al mare s’ergerà la casa che ospiterà i miei sogni
e davanti alla casa – casa piccola e brutta, tutta finestre e porte –
un giardino enorme senza molti alberi, senza aiuole,
e come fiori, solo di marzo, asfòdeli.
Invece di vialetti, rocce a strapiombo
e per ombra le grasse foglie dei cactus.
Un cipresso rinsecchito annuncerà i venti.
Ma tranne i gabbiani nessun uccello a intralciare con superflui gorgheggi la vista del —–[paesaggio.
A un’estremità del giardino, più ripida, più secca, più pericolosa del passo ignaro,
nei vasi pianterò capelli d’un colore
d’un ritmo che ricordi le chiome delle poche teste che ho veramente amato.
Quotidianamente li innaffierò d’acqua marina che porterò nel cavo delle mani.
Solo i cactus e gli asfòdeli berranno acqua piovana –
hanno il potere di non perdere i loro tratti austeri nonostante la carezza letale degli —–[acquazzoni.
Di giorno con il sole di notte con la luna
d’estate con il caldo consolatore che viene dalla Libia
e d’inverno con il vento che impara l’arte di bruciare su praterie gelate
quando le febbri del ricordo mi cacceranno fuori di casa seguirò
le strane giravolte della mia ombra in mezzo ai vasi, ai cactus, agli asfòdeli. –
Quando la stanchezza avrà sovvertito il ritmo del mio respiro
e i miei piedi nudi non soffriranno più gli spunzoni delle rocce
proverò a trovare il ristoro che le veglie insonni m’hanno tolto
poserò la testa presso la terra dove crescono i capelli
così da sentire la mia stessa chioma perdersi nei vasi d’argilla.
Questo rito dei miei perduti amori nessuno lo vedrà
le foglie dei cactus alte e larghe celeranno ogni cosa
l’onda scaccerà con gli urli dei gabbiani ogni sembianza umana
e i corpi secchi degli asfòdeli col grido acuto della morte
quando piedi d’uomo li spezzano – nella mia casa avranno la funzione del cane —–[fedele.
Vivrò così indisturbato finché mi nutrirà la fantasia di storie immobili nel tempo.
.
Sui cactus, con le spine stesse inciderò profonde le iniziali dei nomi per me dolci.
E con le unghie sulle stesse superfici scriverò epistole a un unico indirizzo: la vita —–[delle foglie.
Ciò che ancora serberò per pegno delle esistenze che mi esiliarono dalle gioie del [mondo,
insieme ai sassi lo butterò nelle fiamme verdi attizzate dai cactus impudichi.
La cenere di tante speranze l’annaffierà senza posa una schiuma bianca
che il vento pazzo d’una primavera impetuosa spargerà con sabbia abbondante sulle —–[rocce sepolcrali.
Quel vento recherà alle care piante del mio giardino il seme prezioso che eternerà la —–[saldezza delle linee intorno a me.
Così potrò sempre, tornando sfinito a casa mia,
addobbarla tutta, da cima a fondo – dopo aver chiuso ermeticamente porte e —–[finestre
con l’aroma degli asfòdeli.
.
(da Quaderno I, 1933)
da Antologia della poesia greca contemporanea (Crocetti Editore)

Bandiera-grecia

Il sasso nello stagno di AnGre - 20 maggio 2016

Pontormo, La Deposizione – sassi d’arte

Deposizione PontormoPontormo, La Deposizione – a cura di Giorgio Chiantini & AnGre

Jacopo Carucci, detto Pontormo, nacque a Pontorme, vicino Empoli nel 1494 e morì a Firenze il primo gennaio 1557. Enfant prodige della pittura, lodato da Raffaello, Michelangelo e da Vasari, entra appena quattordicenne nella bottega fiorentina di Mariotto Albertinelli, poi di Piero di Cosimo fino ad approdare in quella di Andrea del Sarto a fianco di Rosso Fiorentino,  in quel contesto socio- politico di guerre, incertezze, cambiamenti profondi che fu l’epoca della riforma luterana e della rivoluzione copernicana, che scardinarono le certezze culturali, religiose e scientifiche garantite fino ad allora dalla visione tolemaica e da quella biblica.

Nelle prime opere più significative fino alla Visitazione affrescata nel 1516 nel chiostro della SS. Annunziata, egli esaspera tutta la regola e la perfezione rinascimentale del suo maestro, Andrea del Sarto, introducendo un segno nervoso e vibrante iniziando quel processo di corrosione della dimensione classica che appare già avanzato nella “Pala Pucci” del 1518 in S. Michele Visdomini. Da questo momento il percorso artistico del Pontormo rappresenta la fase più tormentata del manierismo fiorentino. Ricordiamo che per “manierismo” si intende la corrente pittorica sviluppatasi in Italia tra il 1520 e il 1620, che rielaborava in maniera profonda i motivi classici, producendo una rottura con gli schemi dell’arte rinascimentale ed esibendo una molteplicità di maniere – dalla nettezza dei contorni, al gusto per le forme geometriche; dalla deformazione espressiva, alla crudezza del colore; dalla preziosità e gestualità, alla bizzarria e ambiguità -. Nelle opere mature le forme dei corpi si allungano e si ‘gonfiano’ oltre misura, invadendo lo spazio, come nella “Deposizione” del 1526- 28 conservata nella chiesa di S. Felicita di Firenze.

6668403023_64209c9556_b

«Accucciato, un pochino stempiato – con sotto la chioma ricciolona mezza roscia, gli occhi infossati, le ciglia spioventi e le mascelle un po’ troppo tonde e grosse […] un manto lo cerchia fino a raccogliersi sulla coscia, giallo grano, sopra la mutanda di quel solito, stinto, crudele, disseccato verdino». (Pier Paolo Pasolini)

Le parole di Pasolini consentono di entrare nel dipinto, dal basso, dove è collocata la figura di un giovane i cui occhi e l’espressione del viso, trasmettono lo smarrimento e la disperata ricerca di una spiegazione a quanto accaduto. La posizione del corpo di questa figura dà l’idea di quanta forza sia occorsa per reggere il peso della tragedia che gli stava gravando addosso, mentre sopra di lui, sullo sfondo di un cielo grigio-azzurro, un gruppo di altre figure dolenti sorregge il corpo del Cristo morto. Siamo in un momento sospeso, al di là del tempo e dello spazio. In un’assenza, quasi totale, di gravità.

Non c’è nessuna croce che chiarisca l’iconografia della scena. La potenza della tragedia che si sta consumando, accatasta caoticamente le figure l’una sull’altra: si ammassano intorno al corpo di Cristo e della Madonna dolorosa, senza più nulla di visibile a sorreggerle; i colori irreali, chiari, cangianti dove il rosa si tramuta nell’azzurro e il verde nel giallo in una nota cromatica dominante di azzurro freddo che, talvolta, si confonde col grigio dello sfondo. Le vesti del giovane in primo piano e di quello che, in alto, sorregge la Madonna sono talmente aderenti da essere indistinguibili dalla pelle, se non per i colori. Ogni personaggio è avvolto nel proprio dolore.  Qualcuno guarda con gli occhi spalancati e attoniti di chi sta vivendo un dramma terrificante.

590px-7_il_lino_per_le_lacrime_della_Vergine

Esperienza fondamentale per Pontormo fu la visione del soffitto della Cappella Sistina di Michelangelo, a Roma, nel 1512. Di quella gigantesca costruzione aveva colto proprio l’elemento inquieto, irrazionale: le sproporzioni delle figure, l’uso complesso e scomposto della prospettiva, l’introduzione di personaggi e di iconografie complicate, i colori freddi innaturali, interiorizzando, dolorosamente, che il tempo dell’equilibrio classico e dell’armonia era finito. A lui si sono interessati artisti come Carlo Emilio Gadda e Pasolini, che ripropose la Deposizione di Santa Felicita come un tableau vivant nel suo film la Ricotta (foto in basso).

(fonti varie dal web con particolare ringraziamento a storied’arteblogspot)

10-pier-paolo-pasolini-la-ricotta

 

Nâzım Hikmet, Mosca 1961

marc-chagall-lovers-with-half-moon-1926.jp_

Nâzım Hikmet – Mosca, 1961

Le sei del mattino.
Ho aperto la porta del giorno ci sono entrato
ho assaporato
l’azzurro nuovo nelle finestre
le rughe della mia fronte di ieri
sono rimaste sullo specchio

sulla mia nuca una voce di donna
tenera peluria di pesca
e le notizie del mio paese alla radio

vorrei correre d’albero in albero
nel frutteto delle ore

verrà il tramonto, mia rosa
e al di là della notte
mi aspetterà
spero
il sapore di un nuovo azzurro.

*

da N.Hikmet, Poesie d’amore (trad di Joyce Lussu, OscarMondadori, 2006 — immagine: Marc Chagall, Lovers with half moon, 1926)

Pablo Picasso, La gioia di vivere – sassi d’arte

 Pablo Picasso, La Joie de Vivre (1946)

Una donna danza in riva al mare. Una figura ondulata, dalla lunga chioma castano rossiccia e dalle curve generose, animata dal ritmo della musica suonata da un centauro e da fauno. Sullo sfondo, l’azzurro del mare. In primo piano, la sabbia gialla su cui poggiano i piedi gli attori di questo “baccanale”. In alto, un cielo di madreperla dai riflessi iridati.

Da questa donna-fiore, icona di bellezza visionaria, da questa comitiva danzante inondata di luce, dove i colori sembrano accesi di un’energia vitale, si sprigiona un’impressione di felicità, di contentezza, di appagamento. E’ la “Gioia di vivere” di Pablo Picasso, l’opera emblematica del ’46, che appartiene a quella sua produzione del secondo dopoguerra, quando l’artista ritrovò la Costa Azzurra, riscoprì le suggestioni del Mediterraneo, che alimentarono colori forti e accesi e il brio della sperimentazione di nuove tecniche, dopo la fine di quella spossante occupazione nazista che aveva eliminato tutti i possibili ostacoli alla circolazione in Europa, tra zone occupate e quelle non occupate.

E’ questa l’opera più significativa, la più lirica, simbolo totemico quasi del periodo che va dal 1945 al 1948, momento in cui Picasso soggiornò frequentemente tra Cannes, Golfe-Juan e Antibes, insieme alla sua nuova amante-musa-compagna-modella Françoise Gilot, di quarant’anni più giovane, subentrata dopo aver liquidato Dora Maar, e con la quale vivrà fino al 1953 e da cui avrà due figli, Claude e Paloma.

La gioia di vivere, “La Joie de Vivre”, opera su una tavola di fibrocemento di grandi dimensioni appare, scrisse la Gilot, “come il quadro più colorato di Antibes perché vuol esprimere con la massima intensità la folle felicità di cui era colmo allora”;  un periodo, quello di Antibes appunto, durante il quale Picasso si sente attratto dall’esplorazione di grandi temi mitologici fortemente influenzati dalla cultura mediterranea. (tratto dall’articolo di Laura Larcan per Repubblica, novembre 2006)

Giacomo Leopardi, Il tramonto della luna (Canti, XXXIII)

Giacomo Leopardi, Il tramonto della luna (Canti, XXXIII)

Quale in notte solinga,
Sovra campagne inargentate ed acque,
Là ’ve zefiro aleggia,
E mille vaghi aspetti
E ingannevoli obbietti
Fingon l’ombre lontane
Infra l’onde tranquille
E rami e siepi e collinette e ville;
Giunta al confin del cielo,
Dietro Apennino od Alpe, o del Tirreno
Nell’infinito seno
Scende la luna; e si scolora il mondo;
Spariscon l’ombre, ed una
Oscurità la valle e il monte imbruna;
Orba la notte resta,
E cantando, con mesta melodia,
L’estremo albor della fuggente luce,
Che dianzi gli fu duce,
Saluta il carrettier dalla sua via;

Tal si dilegua, e tale
Lascia l’età mortale
La giovinezza. In fuga
Van l’ombre e le sembianze
Dei dilettosi inganni; e vengon meno
Le lontane speranze,
Ove s’appoggia la mortal natura.
Abbandonata, oscura
Resta la vita. In lei porgendo il guardo,
Cerca il confuso viatore invano
Del cammin lungo che avanzar si sente
Meta o ragione; e vede
Che a sé l’umana sede,
Esso a lei veramente è fatto estrano.

Troppo felice e lieta
Nostra misera sorte
Parve lassù, se il giovanile stato,
Dove ogni ben di mille pene è frutto,
Durasse tutto della vita il corso.
Troppo mite decreto
Quel che sentenzia ogni animale a morte,
S’anco mezza la via
Lor non si desse in pria
Della terribil morte assai più dura.
D’intelletti immortali
Degno trovato, estremo
Di tutti i mali, ritrovàr gli eterni
La vecchiezza, ove fosse
Incolume il desio, la speme estinta,
Secche le fonti del piacer, le pene
Maggiori sempre, e non più dato il bene.

Voi, collinette e piagge,
Caduto lo splendor che all’occidente
Inargentava della notte il velo,
Orfane ancor gran tempo
Non resterete; che dall’altra parte
Tosto vedrete il cielo
Imbiancar novamente, e sorger l’alba:
Alla qual poscia seguitando il sole,
E folgorando intorno
Con sue fiamme possenti,
Di lucidi torrenti
Inonderà con voi gli eterei campi.
Ma la vita mortal, poi che la bella
Giovinezza sparì, non si colora
D’altra luce giammai, né d’altra aurora.
Vedova è insino al fine; ed alla notte
Che l’altre etadi oscura,
Segno poser gli Dei la sepoltura.

(immagini: opere di Catrin Welz-Stein)

Quattro sassi con…autori contemporanei in 4 poesie: Flavio Ermini

Quattro sassi con - Il sasso nello stagno di AnGre

Da: Flavio Ermini, Il giardino conteso (Bergamo, Moretti&Vitali, 2016)

.
Il castello in aria e l’alto dei cieli
.
segue il formarsi imperfetto della luce l’ombra
così come si levano dal grembo della terra le apparenze
allorché insieme quiete e movimento sembrano assentire
al mobile orizzonte che da noi si allontana
desituandoci dalle nostre abitudini cognitive
per esporci al contrasto assoluto che si afferma
nel principio di ascensione al cielo tra essere e divenire
*
all’incessante moto del sangue verso la dissipazione
si oppone il sangue che bagna costantemente il cuore
per il mistero del mutamento cui ogni vivente è sottoposto
quando testimonia l’esistenza di un altro sguardo
in base al quale i mortali stabiliscono il luogo dove fuggire
pur essendo destinato ciascuno di loro a perdersi nel tumulto
di una trasformazione che poche volte appare così compiuta
da poter essere con una certa precisione misurata
.
.
§
.
.
L’altare dei sacrifici e il giardino destinato alla vita
.
con il grido che dal folto si leva ci consegna alla pena la natura
nell’indurci ad accogliere ciò che viene alla conoscenza
al fine di svelare quanto si sottrae solitamente allo sguardo
lasciando appena intravvedere le più lontane stelle
per non esporre alla cecità l’essere umano
alla cui vista è insopportabile persino la terra
che di ombra e fioca luce è fatta
*
a causa dell’ostinato levarsi delle tenebre
se non proprio dell’annientamento cui porta lo sprofondare
sempre di nuovo si ripete l’ascensione al cielo
in omaggio all’anima che in terra si distende
sullo sfondo originario cui l’u mano vivente si sottrae
mettendo senza una parola il sacro recinto a soqquadro
.
.
§
.
.
La rupe delle ali e il cielo disabitato
.
s’incarna in molteplici forme quanto all’apparenza è familiare
lungo questa china distruttiva che determina l’accadere
senza che nelle tenebre siano costretti i nascenti a valicare
la valle pietrosa entro la quale le stesse creature animali
espulse dall’alto dei cieli nel loro insistente decadere
trovano con il tempo dimora al riparo della rupe e delle ali
*
diviene la propria negazione e in pari tempo se stesso
l’essere mortale divorato in alto dalle ombre
quale efflorescenza cresciuta su poca terra e nell’esitazione
allorché sul bordo di un precipizio arretra con sgomento
strettamente connesso com’è all’opaco fondo preumano
da cui si erge l’essere che di carne e fragile argilla è fatto
.
.
§
.
.
L’ingannevole terraferma e il regno intermedio
.
sotto uno spazio definito da stelle inerti e tenebre
prelude all’incontro con la morte l’atto di cadere
secondo il silenzioso modo di muoversi e di agire del padre
alle soglie di un deserto tra le cui dune il figlio mai
si sarebbe spinto se ciò non gli avesse consentito
di farsi più vicino alla casa imponente da espugnare
*
profondamente lacerata da un dolore senza rimedio
è in espansione la materia e svela che c’è il deserto
dopo questo regno intermedio e notte fonda sul divenire
dov’è soppressa ogni nozione di assoluto per l’uomo
che si volge ciecamente alle forze che fondano l’inizialità
per negarsi con vana ostinazione all’angusto mondo che lo limita
.
∼ ∼ ∼

 

Flavio Ermini (Verona, 1947), poeta, narratore e saggista. Dirige dalla fondazione la rivista di ricerca letteraria “Anterem”. Per Moretti&Vitali cura la collana di saggistica “Narrazioni della conoscenza”.
Tra le sue ultime pubblicazioni:
– per la poesia: Poema n. 10. Tra pensiero (2001; pubblicato in Francia nel 2007 da Champ Social), Il compito terreno dei mortali (2010; pubblicato in Francia nel 2012 da Lucie Éditions);
– per la narrazione: Ali del colore (2007), L’originaria contesa tra l’arco e la vita (2009), Il matrimonio del cielo con la terra (2010);
– per la saggistica: Il secondo bene (2012), Essere il nemico (2013), Rilke e la natura dell’oscurità (2015), Il giardino conteso (2016).
Suoi testi sono stati tradotti in francese, inglese, spagnolo, slavo, russo. Collabora all’attività culturale degli “Amici della Scala” di Milano. Partecipa a seminari e convegni in molte istituzioni accademiche italiane e straniere. Vive a Verona, dove lavora in editoria.
Flavio Ermini