Piera Oppezzo, poesie pubblicate nel febbraio del 1961 sulla rivista La nostra Rai
(per i testi si ringrazia il sito nazioneindiana)
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Passa sul Po
La nebbia di novembre,
Un’altra realtà è sommersa
Come il fiume nel suo letto.
La facile estate trascorsa
A contatto di guance
Affettuosamente comprensive,
All’orecchiabile ritmo
Del piacevole istinto
Morbidamente infedele
Al pensiero diretto.
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Una luna come un’arancia
Non si era vista in tutto l’anno
Né tale bellezza si sperava durasse
Tanto è faticoso sopportare
Che i desideri più remoti si avverino.
Quando venne il giorno
“Ho tanti ricordi”
Poteva benissimo non desiderare più.
Mentre i più giovani parlavano di questo e di quello
“Per non parlare di ciò che attendo”.
Cercavano luoghi dal mattino alla sera
Aderendo a tutto ciò che produceva sapere
Nel loro respiro
Finché a uno gli si aprirono le vene
Proprio
Come da lungo tempo invocava.
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Amo il corpo
Che ancora dorme voltato su un fianco
Quando mi sveglio al mattino.
Quello che resta con me solo un’ora
Mi tormenta più a lungo.
Ma non ne parliamo più.
L’amore si è decomposto nei lacrimatoi
Mentre voleva un dolore violento.
Il muschio è spuntato sul ricordo.
Troppe volte, inutilmente,
Lo sguardo
Si è purificato durante la notte
La vena sulla tempia
Ha rinnovato il suo sangue.
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“Nella vita, o si vive o si scrive” è l’implicito programma di vita cui Piera Oppezzo si attenne con caparbia determinazione fino alla morte – una decisione il cui prezzo si misura in termini di incompletezza esistenziale. In un’intervista del 1989 Piera affermò: «…a suo tempo decisi che l’atto di scrivere è l’atto principale che ritengo di dover compiere». E a questo ‘atto’ subordinò tutto il resto, accettando o addirittura perseguendo un destino di non-felicità.
Piera nacque a Torino nel 1934 e visse nelle ristrettezze l’infanzia e l’adolescenza, in una famiglia di modestissime condizioni economiche (il padre era cameriere) da cui si sentiva lontana e che non ne comprendeva l’ambizione letteraria. In una poesia parlò della “infanzia saccheggiata dalla famiglia, a cui tuttavia sopravvisse”. Piera Oppezzo non amava parlare di sé e del passato, perciò non si sa quasi nulla di quel periodo. Per qualche anno lavorò come apprendista in una sartoria, più tardi come commessa alla Standa e infine come dattilografa alla Rai. Totalmente autodidatta, i suoi autori di riferimento spaziarono da subito da Emily Dickinson a Marina Cvetaeva. In Rai, dove fu pubblicata appena ventenne nella rivista aziendale, entrò in contatto con gli intellettuali e artisti dell’avanguardia torinese da cui fu subito apprezzata. «La Fiera letteraria» di Vincenzo Cardarelli pubblicò alcune delle sue prime poesie, accostabili a quelle di Sandro Penna o Umberto Saba.
Con il passare degli anni, la sua poesia, anzi la sua ricerca di espressione poetica, accompagnò in modo spietatamente coerente l’evolversi della sua vicenda umana. Il suo mondo poetico ne risultò letteralmente scarnificato; le sue frasi cominciarono a omettere articoli, aggettivi, punteggiatura e connettivi vari, diventando quasi incomprensibili, almeno a una prima lettura. Nel 1966 uscì presso Einaudi una raccolta di poesie intitolata L’uomo qui presente, che fu ampiamente recensita e apprezzata.
Verso la metà degli anni Sessanta Piera si spostò a Milano dove visse fino alla morte: qui, il suo orizzonte si allargò ai temi politici e al femminismo. Per sua stessa ammissione, il decennio 1968-1978 fu il periodo più intenso della sua vita, quando il fervore delle speranze e la passione di tutta una generazione le fecero intravvedere la possibilità di conciliare vita e scrittura. Del 1967 è la raccolta pubblicata da Geiger con il titolo Sì a una reale interruzione.
A metà degli anni Settanta organizzò con altre donne il collettivo “Pentole e Fornelli” che portò per l’Italia uno spettacolo di canzoni e testi poetici. Nello spettacolo, Piera cantava in coro e recitava poesie. Pur frequentando Laura Lepetit, Rosaria Guacci e Bibi Tomasi, non fu mai parte organica della Libreria delle Donne. Con il riflusso degli ‘anni di piombo’ tornò a un’intensa attività letteraria pubblicando presso La Tartaruga il romanzo Minuto per minuto (1978), ossessionante viaggio di pensieri minuti e gesti ripetitivi nell’universo di una stanza, e, sempre per La Tartaruga, un lungo racconto che andò a far parte della raccolta Racconta (1989). Tradusse per Guanda Pel di carota di Jules Renard e per SE Il Profeta di Kahlil Gibran. Del 1987 è il lungo poema Le strade di Melanchta (Editrice nuovi autori); del 1991, il romanzo breve A note legate (Corpo 10). Molte poesie e testi di quegli anni furono pubblicati successivamente in numerose raccolte, su riviste e tradotte in tedesco e in inglese.
Per vivere, o meglio per sopravvivere, si occupava di correzione di bozze e collaborazioni editoriali, anche come lettrice, per Feltrinelli e altri editori. Dopo alcune coabitazioni, andò a vivere da sola in un appartamento, alquanto precario, della storica casa occupata di via Morigi 8 e poi in una casa “protetta” del Comune in corso Lodi. Gli ultimi due mesi furono trascorsi in una sofferta solitudine, appena alleviata dalle visite di due-tre amici, in ospedale e poi nel convalescenziario di Miazzina sul lago Maggiore. Qui morì il 19 dicembre 2009. La sua ultima raccolta di poesie, pubblicata da Manni, risale al 2003 (Andare qui).
La vita di Piera Oppezzo rimane misteriosa, così come sono appena intuibili le ragioni della sua non-felicità. Una non-felicità perseguita con accanimento, come fonte e molla di ispirazione. Per sondare il mistero, restano gli scritti: la forma dell’esistenza di Piera è la chiave di lettura delle sue poesie e dei suoi racconti. Quello che è certo è il valore assoluto che lei attribuiva alla scrittura. Per sua stessa ammissione, la caratteristica fondamentale della sua poesia è «l’espressione basata sui concetti e non sul sentimento».
Piera Oppezzo non è catalogabile. Malgrado il tentativo di schizzarne i contorni, sfugge alla definizione, E ciò, per volontà sua propria e dichiarata («il ‘ritornare’ mi è estraneo»; «…’ripassare’ tutta la propria vita, …il rischio è di svianti approssimazioni se risolte in poche righe…») e per un istinto di estrema difesa. Ecco come parla di sé, non parlando di sé, in questo stralcio da Le strade di Melanchta:
Il rispetto impone di lasciar parlare la sua voce, anche dove è imprecisa e frammentata. Ogni lettore poi la completerà con il proprio ascolto.
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