Perché voler sapere in quale epoca, in quale regione? di Emily Brontë
Perché voler sapere in quale epoca, in quale regione?
Lì dimorò la nostra umanità,
Da sempre veneratori del potere,
Baciapiedi del crimine trionfante
Dominatrice dell’indifeso tormento,
Schiacciando la Giustizia, esaltando la Colpa:
Se l’una è debole, l’altra sia forte.
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Spargitori di sangue, spargitori di lacrime:
Rinnegati avidi di angoscia;
Pure scherniscono il cielo con sordide preghiere
Perché abbia pietà degli spietati.
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Era l’autunno dell’anno
Quando il grano si fa giallo nella spiga;
Giorno dopo giorno, da un mezzodì all’altro,
Il sole di agosto splendeva chiaro come in giugno.
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Ma noi con occhi incuranti
Scrutavamo la terra fremente e i cieli infuocati;
Nessuna mano che reggesse il falcetto del messore,
O che legasse i rigonfi covoni dei campi.
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Il nostro grano venne così còlto mesi addietro,
Impastato e trebbiato col sangue;
Quando le spighe erano dolci come latte macinato
Con furioso lavorìo di zoccoli e piedi;
Io, due volte dannata in terra straniera,
Non lottavo né per la mia casa né per Dio.
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poesia tratta dalla raccolta Poesie di Emily, Charlotte, Anne Brontë (curata da Erminia Passannanti, tradotta da E.Passannanti e S.Bartoli – 1989 by Edizioni Ripostes, Salerno – Roma) per L’Unità Cinema n.43, 1998.
e in un orizzonte più stretto dell’orlo di una bottiglia fluttua
al mareggiare che si accampa sollevando sferzate di punti neri
il quasi gemere della schiuma in circoli.
—————————-Dio è crudele.
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L’incessante crescendo roteante del mare
e borbottio dopo borbottio della mareggiata
sprofonda il verde ribollente senza tregua
dell’incompleto sconvolgimento.
—————————-Dio è crudele.
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I mari sono nel cavo de La Mano;
per una caritatevole azione verso un bimbo
gli oceani possono tramutarsi in uno spruzzo
spiovente dal cielo stellato.
Siccome La Mano invita il topo
gli oceani possono diventare ceneri grigie
perire con un lungo lamento e un rombo
in mezzo allo scompiglio dei pesci
e al cigolio delle navi.
In un orizzonte più piccolo del berretto d’un assassino
condannato, nerissimi tumulti ondosi
e il barcollante cielo e non cielo ubriaco,
una mano esangue scivola da un’asse levigata.
—————————-Dio è crudele.
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Il gonfiore d’un giaccone rinchiude aria:
una faccia lambisce la morte acquatica
e il pesante lento oscillare d’una mano naufraga
nel mare, il mare impellente, il mare.
—————————-Dio è crudele.
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A man adrift on a slim spar
A horizon smaller than the rim of a bottle
Tented waves rearing lashy dark points
The near whine of froth in circles.
———————————–God is cold.
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The incessant raise and swing of the sea
And growl after growl of crest
The sinkings, green, seething, endless
The upheaval half-completed.
———————————–God is cold.
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The seas are in the hollow of The Hand;
Oceans may be turned to a spray
Raining down through the stars
Because of a gesture of pity toward a babe.
Oceans may become grey ashes,
Die with a long moan and a roar
Amid the tumult of the fishes
And the cries of the ships,
Because The Hand beckons the mice.
A horizon smaller than a doomed assassin’s cap,
Inky, surging tumults
A reeling, drunken sky and no sky
A pale hand sliding from a polished spar.
———————————–God is cold.
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The puff of the coat imprisoning air:
A face kissing the water-death
A weary slow sway of a lost hand
And the sea, the moving sea, the sea.
———————————–God is cold.
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Traduzione di Alfredo de Palchi – da Hebenon, rivista internazionale di letteratura diretta da Roberto Bertoldo, Anno VIII N.1 della terza serie – Ottobre 2003
immagine d’apertura: Emil Nolde – Mezza luna sul mare 1945 acquerello
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Stephen Crane (1871-1900) è considerato uno degli iniziatori del naturalismo americano. Nonostante la morte prematura, per le sue innovazioni stilistiche e tematiche assunse il ruolo di maestro per molti scrittori delle generazioni successive, fra cui Hemingway. Nato a Newark, New Jersey, quattordicesimo figlio di un pastore metodista, si trasferì a New York per dedicarsi al giornalismo. Dopo aver raggiunto il successo come romanziere nel 1895, fu inviato come corrispondente di guerra a Cuba, in Grecia e in Messico, traendo da queste esperienze materia per le sue narrazioni. Nel 1897 emigrò in Europa, dove conobbe vari scrittori. Minato dalla tubercolosi, morì in un sanatorio della Selva Nera, in Germania.
Le opere – Nel primo romanzo, Maggie: a girl from the street (Maggie: una ragazza di strada, 1893), la storia di una ragazza che per fuggire alla prostituzione si uccide, Crane ritrae la New York degli emigrati e dei diseredati, fino a quel momento sconosciuta al mondo della letteratura, utilizzando uno stile crudo e una costruzione moderna, quasi cinematografica. Accolta favorevolmente della critica, l’opera non suscitò l’interesse del pubblico. Grande successo riscosse, invece, il secondo romanzo, The red badge of courage (Il segno rosso del coraggio, 1895), ambientato durante la guerra civile americana: ne era protagonista un ragazzo di campagna che, arruolatosi volontario, sogna grandi battaglie, ma si trova invece a vivere la guerra delle retroguardie e al primo scontro fugge come un codardo, per poi riprendersi e combattere valorosamente. Crane proponeva nel romanzo la sua visione pessimistica del mondo: tutto è caos e l’unico valore in grado di salvare l’uomo è la solidarietà. L’analisi accurata dei sentimenti del protagonista durante le varie fasi della storia (il sottotitolo del romanzo è “Uno studio sulla paura”), unita a uno stile narrativo nuovo e originale, fanno del libro un precursore del romanzo del Novecento.
Dopo altri romanzi del filone dell’ambiente di New York e due raccolte di liriche, Crane si affermò definitivamente con alcune raccolte di racconti: The little regiment (Il piccolo reggimento, 1896), sui temi della guerra civile; The open boat and other tales of adventure (La scialuppa e altri racconti d’avventura, 1898), in cui narra l’avventura capitatagli nel 1897, quando si salvò con alcuni compagni su una scialuppa dopo il naufragio del cargo che portava armi ai ribelli della rivoluzione cubana. Nel racconto The blue hotel (La locanda azzurra, 1897) l’ambiente sono i territori della frontiera, in The young bride comes to Yellow Sky (La giovane sposa arriva a Yellow Sky, 1897) i ruoli tradizionali uomo-donna, visti nel West, sono ironicamente rovesciati. (notizie tratte dal sito sapere.it)
Ashraf Fayadh, poesie (si ringrazia il sito editoriaraba)
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I baffi di Frida Kahlo (di Ashraf Fayadh, traduzione dall’arabo di Silvia Moresi)
Ignorerò l’odore del fango, il rimprovero della pioggia
e il tormento che da lungo tempo dimora nel mio petto.
Cercherò un giusto conforto per la mia situazione che non mi permette di descrivere le tue labbra come desidero,
non mi permette di far cadere gocce di rugiada sui tuoi petali rossastri,
né placa l’enorme smania che mi tormenta quando comprendo che non sei al mio fianco, ora,
e che non ci sarai neppure quando dovrò spiegare la mia condizione al silenzio…quel silenzio con cui la notte, sempre, mi punisce!
Dimostrami che la terra è silenziosa così come appare da lontano, e che tutto ciò che è accaduto tra noi non era altro che uno sgradevole imprevisto; no, non è possibile sia questa la conclusione!
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Cosa pensi dei miei giorni che ho assassinato senza di te?
Delle mie parole che sono svanite in fretta,
della mia misera condizione,
delle sofferenze oramai sedimentate nel mio petto come alghe secche?
Ho dimenticato di dirti che mi sono abituato alla tua reale assenza,
che i desideri hanno smarrito la strada che li portava a te,
e che anche i ricordi han cominciato a svanire!
Io continuo ad inseguire la luce ma non è desiderio di vedere…le tenebre rimangono spaventose
anche se ad esse ci si abitua!
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Ti bastano le mie scuse?
Le scuse per tutto ciò che accadeva mentre tentavo di giustificarmi
quando la gelosia si agitava in qualche angolo del mio petto,
quando la delusione distruggeva un nuovo giorno della mia triste vita,
quando ti ripetevo che la giustizia avrebbe continuato a soffrire per i dolori del ciclo mestruale,
e che l’amore è come un uomo impotente che sopravvive nell’autunno della vita…
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Sarò costretto ad ingannare i ricordi
e mentirò dicendo che il mio sonno è tranquillo.
Distruggerò tutto ciò che resta delle domande…
quelle domande che han preso a cercare alibi per ottenere risposte convincenti,
dopo che tutta l’abituale punteggiatura è stata fatta crollare
per motivi strettamente personali!
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Chiedi allo specchio di spiegarti quanto sei bella!
Spargi come polvere le mie parole ammassate,
respira profondamente, e ricorda quanto ti ho amata…
Come è possibile che ora la nostra storia sia diventata un semplice contatto elettrico
che stava per incendiare solo un enorme magazzino vuoto!
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Ashraf Fayadh, leggi qui – Il poeta, artista e curatore palestinese Ashraf Fayadh è in carcere ad Abha, in Arabia Saudita, da più di un anno senza aver mai subito un processo, con le accuse, assolutamente poco chiare, di aver “offeso la religione” con le poesie della sua raccolta “Le istruzioni sono all’interno” e di “portare i capelli lunghi”. (tratto da editoriaraba)
i tuoi specchi e i tuoi abissi hanno ingannato il mio esilio,
ferito il mio mesto corpo dell’Est
davanti ai falsi altari impietriti.
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Addio Europa di muri, impronte delle dita e tombe d’acqua.
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La mia patria castrata mi ha costretto ad andare via,
i tuoi santi eunuchi mi hanno abbandonato sotto la pioggia,
come straniero.
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Domani, di buon ora,
partirò con la prima nave del Tirreno,
dal porto del Circeo,
accompagnato dai canti mortali delle Sirene,
verso la Croce del Sud
senza voltarmi indietro.
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Nei deserti lontani m’aspettano viandanti sconosciuti,
guerrieri di tribù antiche, danzatrici del ventre;
ruberò fanciulle dalle corti dei re di confini,
come Halìl di Jutbìna delle Bjeshkëve të Nëmuna, …………..(*)
per donarle in sposa al mio signore
e dare vita ad una nuova stirpe.
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Incendierò le vecchie lingue arrugginite,
mi scrollerò di dosso identità, cittadinanze e patrie matrigne;
voglio trascorrere i miei anni in prigione,
lontano dai miei libri,
con banditi onesti e fuorilegge.
Addio Europa del sangue versato in nome dei confini assassini
e delle bandiere insanguinate.
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Domani, di buon ora,
partirò con la prima nave del Tirreno,
dal porto del Circeo,
accompagnato dai canti mortali delle Sirene,
verso la Croce del Sud.
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(pagg.18-19)
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(*) Halìl: personaggio leggendario dell’epos albanese. / Jutbìna: territorio di confine tra l’Albania e l’ex Jugoslavia. / Bjeshkëve të Nëmuna: le Montagne Maledette, così vengono chiamate le Alpi albanesi del nord.
Gëzim Hajdari è il massimo poeta albanese vivente e uno dei maggiori poeti contemporanei. Ha pubblicato numerose raccolte di poesia. Ha scritto anche libri di viaggio e saggi e tradotto in albanese e in italiano vari autori. E’ vincitore di numerosi premi letterari. E’ presidente del Centro Internazionale Eugenio Montale. le sue recenti pubblicazioni sono : Nûr. Eresia e besa (Ensemble, 2012), I canti dei Nizam (Besa, 2012), Evviva il canto del gallo nel villaggio comunista (Besa, 2013) e Poesie scelte (Controluce, 2014).
Ho sempre aspirato a una forma più capace,
che non fosse né troppo poesia né troppo prosa
e permettesse di comprendersi senza esporre nessuno,
né l’autore né il lettore, a sofferenze insigni.
Nell’essenza stessa della poesia c’è qualcosa di indecente:
sorge da noi qualcosa che non sapevamo ci fosse,
sbattiamo quindi gli occhi come se fosse sbalzata fuori una tigre,
ferma nella luce, sferzando la coda sui fianchi.
Perciò giustamente si dice che la poesia è dettata da un daimon,
benché sia esagerato sostenere che debba trattarsi di un angelo.
È difficile comprendere da dove venga quest’orgoglio dei poeti,
se sovente si vergognano che appaia la loro debolezza.
Quale uomo ragionevole vuole essere dominio dei demoni
che si comportano in lui come in casa propria, parlano molte lingue,
e quasi non contenti di rubargli le labbra e la mano
cercano per proprio comodo di cambiarne il destino?
Perché ciò che è morboso è oggi apprezzato,
qualcuno può pensare che io stia solo scherzando
o abbia trovato un altro modo ancora
per lodare l’Arte servendomi dell’ironia.
C’è stato un tempo in cui si leggevano solo libri saggi
che ci aiutavano a sopportare il dolore e l’infelicità.
Ciò tuttavia non è lo stesso che sfogliare mille
opere provenienti direttamente da una clinica psichiatrica.
Eppure il mondo è diverso da come ci sembra
e noi siamo diversi dal nostro farneticare.
La gente conserva quindi una silenziosa onestà,
conquistando così la stima di parenti e vicini.
L’utilità della poesia sta nel ricordarci
quanto sia difficile rimanere la stessa persona,
perché la nostra casa è aperta, la porta senza chiave
e ospiti invisibili entrano ed escono.
Ciò di cui parlo non è, d’accordo, poesia,
perché è lecito scrivere versi di rado e controvoglia,
spinti da una costrizione insopportabile e solo con la speranza
che spiriti buoni, non maligni, facciano di noi il loro strumento.
Czesław Miłosz, Poesie Adelphi, Milano, 1983, traduzione di Pietro Marchesani
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Commento di Giorgio Linguaglossa
Che cosa vuole dirci Miłosz nella poesia citata con l’espressione «una forma più capace»?
Proviamo a ragionare intorno a ciò che vuole dirci il poeta polacco nella poesia sopra citata: Il momento espressivo-metaforico della forma-poesia è uno spazio espressivo integrale (che può essere colto in un sistema concettuale filosofico, che oggi non c’è per via della latitanza di pensiero estetico da parte dei filosofi). Il momento espressivo coincide con il linguaggio, e il linguaggio è condizionato dai linguaggi che l’hanno preceduto… se il momento espressivo si erige come un qualcosa di più di esso, degenera in non-forma (si badi non parlo qui di informale in pittura come in poesia!), degenera in mera visione del mondo, cioè in politica, in punto di vista condizionato dagli interessi di parte, in chiacchiera, in opinione, in varianti dell’opinione, in sfoghi personali, in personalismi etc. (cose legittime, s’intende ma che non appartengono alla poesia intesa come «forma» di un «evento»).
Il problema di fondo (filosofico, e quindi estetico) della poesia della seconda metà del Novecento (che si prolunga per ignavia di pensiero in questo post-Novecento che è il nuovo secolo), è il non pensare che il problema di una «forma» non può essere disgiunto dal problema di uno «spazio» e quest’ultimo non può essere disgiunto dal problema del «tempo» (tempus regit actum, dicevano i giuristi romani). Ora, il digiuno di filosofia di cui si nutrono molti auto poeti, dico il problema di pensare questi tre concetti in correlazione reciproca, ha determinato, in Italia, una poesia scontatamente lineare, cioè che procede in una sola dimensione: quella della linea, della superficie… ne è derivata una poesia superficiaria e unidimensionale. E, si badi: io dico e ripeto da sempre che il maggiore responsabile di questa situazione di imballo della poesia italiana è stato il maggior poeta del Novecento: Eugenio Montale con “Satura” (1971), seguito a ruota da Pasolini con “Trasumanar e organizzar” (1968). Ma queste cose io le ho già spiegate nel mio studio “Dalla lirica al discorso poetico. Storia della poesia italiana 1945-2010” edito da EiLet di Roma nel 2011.
In questa sede posso solo tracciare il punto di arrivo di questo lungo processo: il minimalismo e il post-minimalismo. Con questa conclusione intendevo tracciare una linea di riflessione che attraversa la poesia del secondo Novecento, una linea di riflessione che diventa una linea di demarcazione. Delle due l’una: o si accetta la poesia unidirezionale del post-minimalismo magrelliano (legittima s’intende), che prosegue la linea di una poesia superficiaria e unidirezionale che ha antichi antenati e antichi responsabili (parlo di responsabilità estetica) precisi; o si tenta una linea di inversione di tendenza da una poesia superficiaria a una poesia tridimensionale che accetta di misurarsi con una «forma più spaziosa», seguendo e traendo le conseguenze dalla impostazione che ha dato Milosz al problema della poesia dell’avvenire. La poesia citata di Milosz è un vero e proprio manifesto per la poesia dell’avvenire, chi non comprende questo semplice nesso non potrà che continuare a fare poesia superficiaria (beninteso, legittimamente), ma un tipo di poesia di cui possiamo sinceramente farne a meno. (Giorgio Linguaglossa – dal blog L’Ombra delle Parole)