Sandro Botticelli, Venere e Marte – sassi d’arte

AFRODITE E HERMES, BOTTICELLI

Sandro Botticelli, Venere e Marte (1483)

tempera su tavola, cm 69×173- Londra, National Gallery

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La scena raffigura Venere mentre osserva, consapevole e tranquilla, Marte dormiente, distesi su un prato e circondati da piccoli fauni che giocano allegri con le armi del dio. I satiri sembrano tormentare Marte disturbando il suo sonno, mentre ignorano del tutto Venere, vigile e cosciente: uno ne ha l’elmo che gli copre completamente la testa mentre, con un altro, ruba furtivo la lancia del dio; un altro suona addirittura un corno di conchiglia nell’orecchio del dio per svegliarlo, senza successo; un quarto fa capolino dalla corazza sulla quale il dio è adagiato.

Nonostante il contorno scherzoso dei fauni, nel dipinto serpeggiano anche elementi di inquietudine, come il sonno spossato e abbandonato di Marte o lo sguardo lievemente malinconico di Venere. La presenza delle vespe nell’angolo in alto a destra ha anche fatto pensare che si trattasse di un’opera commissionata dai Vespucci, già protettori di Botticelli, magari in occasione di un matrimonio. Il formato orizzontale farebbe così immaginare la decorazione di un cassone o di una spalliera e il dipinto è stato, infatti, letto anche come allegoria matrimoniale, in cui l’Amore, impersonato da Venere, avrebbe il potere di ammansire anche lo spirito bellicoso, di cui Marte risulta essere la personificazione.

La composizione si sostanzia della felice opposizione tra i due personaggi: la dea completamente abbigliata e acconciata, con le pieghe dell’abito che si increspano sul corpo e cadono mollemente come le ciocche mosse dei capelli; il dio, invece, nudo e scultoreo. Tra i due amanti, i piccoli satiri giocano con le armi, come racconta Luciano nei Dialoghi. Una lettura iconografica in chiave neoplatonica riconosce in Venere l’Humanitas, cioè il grado più alto dell’evoluzione umana, che esercita il suo controllo sulla forza della discordia.

Nell’opera sono leggibili alcune caratteristiche stilistiche tipiche dell’arte di Botticelli. La composizione è estremamente bilanciata e simmetrica, che può anche sottintendere la necessità di equilibrio nell’esperienza amorosa. Il disegno è armonico e la linea di contorno tesa ed elastica definisce con sicurezza le anatomie dei personaggi, secondo quello stile appreso in gioventù dall’esempio di Antonio del Pollaiolo. A differenza del suo maestro però, Botticelli non usò la linea di contorno per rappresentare dinamicità di movimento e sforzo fisico, ma piuttosto come tramite per esprimere valori anche interiori dei personaggi. L’attenzione al disegno inoltre non si risolve mai in effetti puramente decorativi, ma mantiene un riguardo verso la volumetria e la resa veritiera dei vari materiali, soprattutto nelle leggerissime vesti di Venere. La metà inferiore della gamba destra di Venere scompare nelle pieghe del tessuto, forse accentuate per coprire un errore anatomico.

I colori sono tersi e contrastanti, che accentuano la plasticità delle figure e l’espressionismo della scena. Grande attenzione è riposta nel calibrare i gesti e le torsioni delle figure, che assumono importanza fondamentale. La ricchezza dell’oro e l’attenta disposizione delle pieghe rimandano alla formazione da orafo di Botticelli, che in questo caso usò una tecnica mista di tempera a uovo e colori a olio per dare un aspetto più tondeggiante e realistico ai volti.

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Tratto e adattato dal commento critico di Chiara Basta per Botticelli, collana I grandi maestri dell’arte, Skira e da Wikipedia.

Domenico Ghirlandaio, L’adorazione dei pastori – sassi d’arte

Ghirlandaio Adorazione dei pastori

Domenico Ghirlandaio, L’adorazione dei pastori (1485)

tempera su tavola (167×167 cm) – basilica di Santa Trinita, Firenze

Il sasso nello stagno di AnGre, dopo tanti anni, in occasione delle festività natalizie ripropone questo sempre interessante articolo, come un momento di serenità nell’incontro con l’Arte. Grazie per l’attenzione e buona lettura!

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Conservato nella sua collocazione originaria sull’altare della cappella Sassetti nella basilica di Santa Trinita a Firenze, quest’opera completa il famoso ciclo di affreschi commissionato a Domenico Ghirlandaio da Francesco Sassetti ed è ritenuto il suo capolavoro; la pala – affiancata dagli affreschi dei due committenti inginocchiati, che si uniscono così alla sacra adorazione, formando una specie di trittico a tecnica mista – reca su un capitello l’anno 1485 ed ogni figura inclusa nel dipinto ha in sé significati religiosi e simbolici.

La cornice riporta la scritta “Ipsum quem genuit adoravit Maria” (“Maria adorava colui che aveva generato”): Maria, in primo piano su un prato fiorito, adora il Bambino poggiato sul suo mantello all’ombra di un sarcofago romano antico che fa da mangiatoia per il bue e l’asinello (che secondo la patristica rappresentano rispettivamente gli ebrei e i pagani); poco dietro si trova san Giuseppe, che scruta verso il corteo in arrivo, mentre a destra si vedono un gruppo di tre pastori ritratti con vivo realismo e al primo pastore, quello che indica il Bambino, il Ghirlandaio affidò il proprio autoritratto. ghirlandaio part.

La sella per asini (basto) e il barroccio dipinti sulla sinistra alludono al viaggio di Maria e Giuseppe; invece i tre sassi in primissimo piano, roccia naturale, pietra lavorata e mattone, sono un riferimento alla famiglia “Sassetti” e all’attività dell’uomo e sopra di essi un cardellino, simboleggia la passione e resurrezione di Cristo. Dall’arco di trionfo sullo sfondo passa il corteo dei re Magi, anch’esso con un significato anche simbolico, inteso come il lasciarsi alle spalle l’era pagana: a sinistra i primi due magi sono già vicini e guardano una luce che si intravede sul tetto della capanna, la cometa, che brilla sul tetto di paglia sorretto da monumentali pilasti romani, uno dei quali reca sul capitello la data MCCCCLXXXV (1485) e sullo sfondo, infine, si vedono i pastori con le greggi ai quali l’angelo sta annunciando la nascita del Signore.

Il sarcofago-mangiatoia, l’arco di trionfo sotto cui passa il corteo dei Magi e i pilastri che reggono la capanna sono precisi riferimenti alla nascita del Cristianesimo in ambito pagano e le colte citazioni classiche rappresentano insieme con altri elementi simbolici, il passaggio dalle religioni preesistenti al cristianesimo, sorto sulle rovine delle altre confessioni, come ricordano i due pilastri scanalati ed anche il paesaggio lontano, con le vedute cittadine: la città più lontana a destra è infatti un riferimento a Gerusalemme con l’edificio a cupola, davanti alla quale sorge un albero secco con un ramo spezzato, simbolo della conquista della medesima; mentre, la città di sinistra è, invece, un’elaborazione di Roma, dove si riconoscono i sepolcri di due imperatori profetici, Augusto, con il mausoleo e Adriano, che si pensava sepolto sotto la Torre delle Milizie, lasciando che si intraveda anche quella che sembra la Cattedrale di Santa Maria del Fiore, a ribadire il ruolo di Firenze come nuova Roma.

L’opera deriva da modelli di Filippo Lippi (come l’Adorazione del Bambino di Camaldoli), ma mostra anche chiari i segni dell’influenza sulla pittura fiorentina della pittura fiamminga, che influenzò profondamente i pittori rinascimentali, i quali cercarono di comprenderne le diversità e carpirne i segreti soprattutto nella resa della luce e nel naturalismo lenticolare. Tipicamente fiamminga è infatti l’attenzione al dettaglio, dove ogni oggetto ha un preciso ruolo simbolico, e l’uso della prospettiva aerea, con il paesaggio che sfuma in lontananza nella foschia verso una minuta rappresentazione di colline e città.

[testo adattato dal web a cura di Giorgio Chiantini & Angela Greco]

Antoniazzo Romano, Annunciazione – sassi d’arte

Riproponiamo, nel giorno dell’Annunciazione, questo articolo di Giorgio Chiantini. Buona lettura!dsvxcv-13E9A8F096B44BACABA

Questa raffinatissima Annunciazione fu dipinta e lavorata da Antonio di Benedetto degli Aquili detto Antoniazzo Romano (1430-1435 circa – Roma, 17 aprile 1508) tra il dicembre 1499 e il marzo 1500 in vista del Giubileo dello stesso anno indetto da Alessandro VI Borgia (1492-1503). Il dipinto fu commissionato per la chiesa domenicana di Roma di S. Maria sopra Minerva, nello specifico per la sua cappella privata, dal cardinal Torquemada, fondatore della confraternita dell’Annunziata. Tale confraternita era stata istituita per garantire una dote alle fanciulle, così da dare loro l’opportunità di trovare un consorte, evitando di doversi auto-sostentare attraverso attività non dignitose, ma molto comuni, come la prostituzione.

L’iconografia dell’Annunciazione di Antoniazzo è “disturbata” da alcune varianti rispetto alle iconografie classiche: la Vergine non sembra in alcun modo interessata alla presenza dell’angelo annunciante e alla discesa dello Spirito Santo ed inoltre sembra aver interrotto da tempo la lettura dell’Antico Testamento, come dimostra la distanza dal leggìo e il corpo completamente ruotato. La Madonna è altresì occupata a consegnare la dote alle giovani vestite di bianco e ordinatamente acconciate che le vengono presentate dallo stesso cardinal Torquemada.

Il gruppo delle giovani accompagnate dal cardinale è proposto secondo una scala proporzionale più piccola, per differenziare l’ordine umano da quello divino, come usava nel medioevo. Antoniazzo sembra aggiornarsi sui modelli fiorentini, come lo stesso collega Melozzo (e forse anche tramite lui) per quanto riguarda i tipi dell’angelo e della Vergine, ma appare legato ad un retaggio medievale, nella composizione; tuttavia si fa inventore di un’iconografia nuova espressa in termini di gusto apprezzabili dalla cultura del suo tempo.

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Il rapporto tra iconografia, luogo di collocazione e committente sembra ben palesato: la confraternita dell’Annunziata, istituto che si occupa di dotare le fanciulle povere, commissiona un quadro con l’Annunciazione, che mostri anche l’opera caritativa della confraternita medesima nella cappella patrocinata dallo stesso istituto. La confraternita è qui rappresentata sinteticamente dall’effige del suo fondatore, Juan de Torquemada, defunto nel 1468, ma qualcosa nei soggetti non torna: non era la confraternita a raccogliere e distribuire l’elemosina? Qui, di fatto, è la Vergine a consegnare il sacchetto con il denaro, mentre il Torquemada (ovvero la confraternita) presenta semplicemente le fanciulle.

Molto comune in quei tempi era un’analogia che oggi a noi sfugge: la Vergine spesso nei dipinti è metafora della Chiesa fondata da Cristo e così come la Vergine nell’annunciazione riceve lo Spirito Santo, affinché il Verbo si faccia carne (Gv 1, 14), così la Chiesa riceve lo Spirito Santo per poter operare nel mondo e compiere la sua missione. Il dipinto va letto nella prospettiva della Provvidenza, per la quale “l’uomo propone e Dio dispone”, come recita un vecchio modo di dire, ed è proprio quello che vediamo in questo dipinto: l’uomo propone di fare l’elemosina, ma solo Dio, tramite la Grazia che passa attraverso la Chiesa, può trovare i mezzi materiali e spirituali per compiere la proposta dell’uomo. La Chiesa, in quanto investita dello Spirito Santo, è mediatrice presso il Padre (ed in questo ritroviamo un’altra analogia con la Vergine), ad essa l’uomo si rivolge ed in essa agisce, affinché le sue opere di beneficenza divengano opere di carità. [Giorgio Chiantini]

 

Ercole de’ Roberti, Maddalena piangente – sassi d’arte

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Ercole de’ Roberti (Ferrara, 1451\1456 – 1496), Maddalena piangente (1490)

affresco staccato, 25,5 x 28,5 cm – Bologna, Pinacoteca Nazionale

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Questo volto costituisce l’unico lacerto superstite del celebre ciclo di affreschi che decorava la cappella dell’Assunzione in San Pietro a Bologna. Dopo la morte di Francesco del Cossa (1478), che aveva avviato i lavori su commissione di Domenico Garganelli, toccò ad Ercole de’ Roberti completare l’impresa entro il 1486: se Francesco aveva fatto in tempo a dipingere le figure dei profeti e dei padri della chiesa sugli otto spicchi della volta e l’Annunciazione sulla controfacciata, Ercole si occupò di redigere le due scene parietali con la Crocifissione di Cristo e la Morte della Vergine. Da questo glorioso avvicendamento scaturì “il più gran fatto figuarativo di tutta Italia tra il 1475 e il 1485” (Longhi, 1934).

Negli ultimi anni del Cinquecento, a causa dei lavori di ampliamento della cattedrale imposti dal vescovo in carica, si decise di abbattere alcune colonne cruciformi della navata centrale, causando il crollo della volta di San Pietro: il fragoroso incidente avvenne il 2 giugno 1599 e comportò, tra le altre cose, la rovine della cappella Gargnelli. Prima che il sacello fosse definitivamente demolito nel 1605, furono ingaggiati dal fabbricere Alessandro Tanari, Francesco Carboni e Giacinto Giglioli per eseguire delle copie su tela – oggi divise tra la Pinacoteca di Bologna, il Louvre e il museo Ringling di Sarasota – delle due scene con la Crocifissione e la Morte della Vergine dipinte da Ercole de’ Roberti. Lo stesso Tanari ordinò lo stacco a massello di alcune porzioni degli affreschi che fece trasferire nella sua abitazione di via Galliera dove rimasero incorniciati fino al 1820, anno in cui vennero donati all’Accademia di Belle Arti di Bologna e abbandonati in un deposito.

Il lacerto della Maddalena piangente, invece, giunto in Pinacoteca nel 1958, fu ritrovato nel 1943 in casa della famiglia Boschi a Bologna; a scoprirlo fu Guido Zucchini che ne intuì il collegamento con la Crocifissione proprio grazie alla copia seicentesca di Carboni. Il volto di donna, inserito in un’antica intelaiatura chiusa da una tavoletta, apparteneva infatti alla figura della Maddalena, slanciata in una corsa disperata verso la croce di Cristo. maddalenadipinto

Il barano pittorico, seppur lacunoso, dimostra la straordinaria cura impiegata dall’autore sulle pareti della cappella petrina, che secondo l’iperbolica testimonianza di Vasari (1568) richiese ben dodici anni di lavori, “sette per condurla a fresco e cinque in ritoccarla a secco”. maddalenadipintoFu con miracolosa perizia, ben degna di un maestro fiammingo, che Roberti si impegnò nel descrivere le turgide stille adamantine, le gote imporporate dallo spasmo, i fili scarmigliati della chioma, perfino il lucore stridente della finissima dentatura. La potenza espressiva dell’immagine non si esaurisce però in questa fenomenologia analitica del dolore, ma trova sfogo nell’urlo lacerante della donna sconvolta d’amore e di pietà: un sibilo sordo, capace di gelare le lacrime e di impetrare il creato, secondo la lezione altamente drammatica delle passioni troppo umane messe in scena nel gran teatro del Compianto di Cristo, imbastito da Nicolò dell’Arca in Santa Maria della Vita a Bologna già a partire dal 1463. (Giacomo Calogero)

tratto e adattato dal catalogo La Maddalena tra peccato e penitenza, SilvanaEditoriale

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Approfondimento: cliccando sul link della scheda in pdf , è possibile visionare l’opera di Francesco Carboni, Crocifissione di Gesù, copia da Ercole de’ Roberti – sec. XVII, Pinacoteca Nazionale di Bologna, in deposito nella sagrestia della Cattedrale di San Pietro – ed altri dettagli sull’articolo odierno.

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Andrea Mantegna, Cristo morto

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Andrea Mantegna, Cristo morto (1480 c.a.)

tempera su tela, cm 66×81 – Milano, Pinacoteca di Brera

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Per il giorno della commemorazione dei defunti i Sassi di Arte propongono quest’opera eseguita da Andrea Mantegna (1431-1506) in epoca matura – alla morte del pittore si trovava ancora nello studio dell’artista; si trattava probabilmente di un quadro a uso privato, forse destinato alla sua cappella funebre – ritrae la figura del Cristo morto, occupando quasi tutto lo spazio del dipinto; disteso su una lastra sepolcrale di pietra rossastra, il corpo è avvolto nel sudario, mentre sulla destra, all’estremità,  lascia che si veda il vasetto degli unguenti. La figura pare quasi contrarsi e accorciarsi sotto l’effetto di un arditissimo punto di vista, che porta lo spettatore direttamente dentro la scena, ovvero in piedi davanti alla figura dell’uomo esanime.cristo10

La volumetria del corpo è esaltata dalla particolare prospettiva leggermente rialzata e anche i particolari anatomici assumono una valenza specifica: vediamo il capo abbandonato, il torace rigonfio e le piaghe causate dai chiodi, conferire una veridicità a cui non si può rimanere indifferenti e Cristo, così, assume una dimensione monumentale simile a quella di un eroe antico scolpito nella pietra, in un’immagine di intensa drammaticità.

 297-andrea_mantegna_-_the_dead_christAndrea Mantegna elimina quasi del tutto l’ambientazione circostante, lasciando appena che si intravedano i volti, segnati dalle rughe, della Madonna, che si asciuga le lacrime con un fazzoletto, e di San Giovanni, che piange e tiene le mani unite, e, più in ombra, quello della Maddalena.

Il colore opaco e quasi monocromo della tempera e la luce un po’ livida che colpisce il corpo da destra definiscono le forme e i piani prospettici della composizione in profondità, mentre la luce si concentra su pochi elementi, quali il volume squadrato e rigido della lastra sepolcrale, le pieghe del sudario, l’ambiente cupo e spoglio.

Cristo noIl mese successivo alla morte del Mantegna (13 settembre 1506), suo figlio Ludovico, accennando ai dipinti rimasti nello studio del padre, in una lettera inviata al marchese Francesco Gonzaga (nel 1460 Andrea Mantegna si era trasferito a Mantova, lavorando come pittore di corte per la famiglia Gonzaga) ricorda “un Cristo scurto” (ossia scorcio). Il dipinto rimase di proprietà della famiglia Gonzaga almeno fino al 1627, quando tutta la collezione fu dispersa. Nel 1806 il Cristo morto venne acquistato a Roma dal pittore e scrittore Giuseppe Bossi (1777-1815) e nel 1824 venne ceduto all’Accademia di Brera di Milano. (tratto ed adattato dal web)

nota: Mantegna in quest’opera adotta due sistemi di proiezione: parallelo per il corpo di Cristo e centrale per la pietra dell’unzione.

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– articolo a cura di Giorgio Chiantini & Angela Greco –

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Masaccio, La Crocifissione – sassi di arte

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Masaccio, La Crocifissione

ovvero il più grande urlo di dolore nella storia dell’arte

di Giorgio Chiantini

Osservando questo dipinto di Masaccio è lecito pensare a lui come ad un genio. Scomparso all’età di 27 anni e con la maturità artistica già raggiunta è inimmaginabile cosa avrebbe potuto lasciare in eredità la sua arte, se soltanto fosse vissuto ulteriormente. La genialità di questo artista in questa opera sta nell’essere riuscito a trasmettere all’osservatore, quasi a livello fisico, l’urlo di dolore e di angoscia della Maddalena, raffigurandola soltanto di spalle e, perciò, lasciando solo immaginare la scena di disperazione. ‘Il più grande urlo di dolore della storia dell’arte’ (G.Chiantini).

Masaccio, soprannome di Tommaso di ser Giovanni di Mone Cassai (Castel San Giovanni in Altura, 21 dicembre 1401 – Roma, estate 1428) nel 1426 realizzò un polittico per la chiesa del Carmine a Pisa; smembrato in seguito, di tale opera le parti sono oggi conservate in cinque diversi musei. Il pannello che qui consideriamo – attualmente conservato al Museo di Capodimonte a Napoli – è uno dei più famosi ed interessanti: su fondo oro è rappresentata la Crocifissione, con ai piedi della croce la Madonna e San Giovanni in posizione eretta, mentre la Maddalena è inginocchiata, con le braccia protese verso l’alto; sulla croce è raffigurato un piccolo albero a simboleggiare l’albero della vita.

Crucifix_Masaccio-Maddalena part.Sulla tavola lignea lo sfondo è ricoperto a fogli d’oro, tecnica in voga in epoca bizantina e alto medievale, ma quasi in disuso in un’opera del ‘400; le figure sono dipinte a tempera e rappresentano la disperazione della Madonna, di san Giovanni e di Maria Maddalena dinanzi a Cristo appena spirato sulla croce. Maria, sulla sinistra è rivolta alla croce stessa, impietrita nel suo mantello blu: il dolore sul viso, che rimane a bocca aperta, la mani giunte, che restituiscono ancora di più la disperazione della madre.

Sulla destra dell’osservatore si staglia la figura di Giovanni che, con lo sguardo perso nel vuoto, ha le mani giunte a reggere il volto gemente di dolore. Interessante è la figura di Maria Maddalena che, in una congiuntura così statica di figure, è l’unica che dà vitalità alla scena: inginocchiata ai piedi della croce è di spalle, posizione attraverso la quale Masaccio ci trasmette tutta la sua disperazione tramite il solo gesto delle braccia aperte verso l’alto, quasi a voler toccare l’anima di Cristo che sta salendo al Padre.

La figura di Cristo, appena spirato sulla croce, si imprime al centro della tavola, ad attirare l’interesse e lo sguardo di studiosi e visitatori; quello che subito colpisce – e potrebbe indurre a valutazioni errate sulle capacità dell’artista toscano – è che Gesù, avendo la testa leggermente piegata sulla spalla destra, pare presentarsi senza il collo, con il capo praticamente attaccato alle spalle. Quello che a molti potrebbe sembrare un difetto è semplicemente un accorgimento prospettico, operato sapientemente dal Masaccio, essendo questa tavola il pannello posto più in alto del polittico di cui era parte. Difatti, se osservassimo quasi schiacciati a terra, il Cristo ci apparirebbe perfettamente disegnato come fosse alla considerevole altezza a cui era posta la “Crocifissione” nel grande quadro composto di Pisa.

Questo dipinto è una testimonianza di come Masaccio sia sicuramente il pittore più innovativo e moderno della sua epoca, avendo perfettamente compreso il concetto di relatività dell’immagine: gli oggetti e le persone non hanno un’immagine unica, così come ci aspetteremmo per convenzione, ma hanno infinite immagini, sempre diverse, a seconda del punto di vista dal quale si osserva la realtà. Concetto oggi per noi ovvio, che altri pittori, invece, hanno compreso dopo molti decenni.

rappresentazione del polittico di Pisa

Polittico di Pisa

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Polittico-Pisa-Ricostruzione-probabile

L’Adorazione dei Magi di Gentile da Fabriano (a cura di G.Chiantini & A.Greco)

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Gentile da Fabriano, Adorazione dei Magi (1423)

tempera e oro su tavola (cm 173 x 228 cm; con cornice e predella cm 303 x 282); dipinto conservato nella Galleria degli Uffizi di Firenze tranne la scena della Presentazione al Tempio inserita nella predella (che è una copia) il cui originale si trova al Museo del Louvre a Parigi.

Vera e propria pietra miliare del Gotico italiano ed internazionale e capolavoro dell’artista, l’opera è firmata sopra la predella “OPVS GENTILIS DE FRABRIANO M CCCC XX III MENSIS MAIJ” e conserva ancora l’elaborata cornice scolpita in legno dorato, in larga parte originale. Commissionato a Gentile da Fabriano da Palla Strozzi per essere collocata nella cappella di famiglia nella Chiesa di Santa Trinita a Firenze, il dipinto è incorniciato entro tre archi a tutto sesto sormontati da cuspidi in legno dorato al cui interno sono inseriti tre medaglioni con il Cristo giudice, l’Angelo annunziante e la Vergine Annunziata, di diametro inferiore al Cristo, mentre sulla predella sono raffigurate le scene della Natività, della Fuga in Egitto e della Presentazione al Tempio.

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La narrazione avviene secondo il gusto tipico della pittura gotica di corte ed i tre Magi sono rappresentati più volte: la prima volta mentre osservano la cometa che li guiderà nel cammino; la seconda, colti nel bel mezzo del loro viaggio per terre sconosciute; la terza, nell’atto di ingresso nella città e la quarta, mentre ormai giunti alla meta, offrono i doni a Gesù Bambino. Il corteo dei Magi si dispiega su tutta la parte centrale del dipinto, sfruttando la forma tripartita nella parte alta per dare origine a più focolai d’azione, arricchiti da una miriade di dettagli naturalistici e di costume, che creano un effetto vibrante, dove l’occhio dello spettatore si sposta da un particolare all’altro. Lo spazio prescinde da qualsiasi regola prospettica, nonostante la profondità della scena, con i personaggi che si sovrappongono in maniera caotica e festosa, creando un insieme irreale e fiabesco.

Fuga in Egitto-1

Vi è una grande profusione di applicazioni in oro e argento, nelle vesti, nei finimenti dei cavalli (dettaglio a destra qui sotto) , dei cani da caccia, nelle corone, nelle spade e nei doni: i metalli, applicati in foglie sottilissime, venivano poi incisi a mano libera, punzonati o coperti da leggere velature, creando un effetto di luce diffusa; effetti a rilievo, invece, sono stati ottenuti, tramite l’applicazione di “pastiglia” (gesso e colla) rivestita d’oro e pigmenti.

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Altra grandissima abilità di Gentile, quale quella di riuscire a rendere l’idea persino della componente materica delle stoffe, la morbidezza degli incarnati, la freschezza della vegetazione; il racconto evangelico di Gentile consiste nel dipingere i personaggi con una minuzia di particolari: egli sembra preferire la somma di tante viste parziali dove linee e colori si trasformano in elaboratissimi elementi decorativi, come i sontuosi abiti dei Magi, il prezioso broccato trapunto d’oro o i copricapo dei cavalieri. (dettaglio a sinistra qui sopra)

18 gentile da fabriano - pala dell'adorazione dei magi

In tutto questo si noti che la minor dimensione delle figure in lontananza non è frutto di una reale visione prospettica, ma l’espediente per poter contenere nel dipinto un numero maggiore di personaggi, che sono sempre perfettamente definiti anche nelle caratteristiche più piccole, contraddicendo ogni legge della visione dove il puntiglioso eccesso di realismo finisce per generare l’effetto contrario, quello dell’astrazione e dell’irrealtà.

[tratto da fonti varie a cura di Giorgio Chiantini e Angela Greco per Sassi di arte]

Domenico Ghirlandaio, L’adorazione dei pastori (a cura di G.Chiantini & A.Greco)

Ghirlandaio Adorazione dei pastori

Domenico Ghirlandaio, L’adorazione dei pastori (1485)

tempera su tavola (167×167 cm) – basilica di Santa Trinita, Firenze

Conservato nella sua collocazione originaria sull’altare della cappella Sassetti nella basilica di Santa Trinita a Firenze, quest’opera completa il famoso ciclo di affreschi commissionato a Domenico Ghirlandaio da Francesco Sassetti ed è ritenuto il suo capolavoro; la pala – affiancata dagli affreschi dei due committenti inginocchiati, che si uniscono così alla sacra adorazione, formando una specie di trittico a tecnica mista – reca su un capitello l’anno 1485 ed ogni figura inclusa nel dipinto ha in sé significati religiosi e simbolici.

ghirlandaioLa cornice riporta la scritta “Ipsum quem genuit adoravit Maria” (“Maria adorava colui che aveva generato”): Maria, in primo piano su un prato fiorito, adora il Bambino poggiato sul suo mantello all’ombra di un sarcofago romano antico che fa da mangiatoia per il bue e l’asinello (che secondo la patristica rappresentano rispettivamente gli ebrei e i pagani); poco dietro si trova san Giuseppe, che scruta verso il corteo in arrivo, mentre a destra si vedono un gruppo di tre pastori ritratti con vivo realismo e al primo pastore, quello che indica il Bambino, il Ghirlandaio affidò il proprio autoritratto. ghirlandaio part.

La sella per asini (basto) e il barroccio dipinti sulla sinistra alludono al viaggio di Maria e Giuseppe; invece i tre sassi in primissimo piano, roccia naturale, pietra lavorata e mattone, sono un riferimento alla famiglia “Sassetti” e all’attività dell’uomo e sopra di essi un cardellino, simboleggia la passione e resurrezione di Cristo. Dall’arco di trionfo sullo sfondo passa il corteo dei re Magi, anch’esso con un significato anche simbolico, inteso come il lasciarsi alle spalle l’era pagana: a sinistra i primi due magi sono già vicini e guardano una luce che si intravede sul tetto della capanna, la cometa, che brilla sul tetto di paglia sorretto da monumentali pilasti romani, uno dei quali reca sul capitello la data MCCCCLXXXV (1485) e sullo sfondo, infine, si vedono i pastori con le greggi ai quali l’angelo sta annunciando la nascita del Signore.

Il sarcofago-mangiatoia, l’arco di trionfo sotto cui passa il corteo dei Magi e i pilastri che reggono la capanna sono precisi riferimenti alla nascita del Cristianesimo in ambito pagano e le colte citazioni classiche rappresentano insieme con altri elementi simbolici, il passaggio dalle religioni preesistenti al cristianesimo, sorto sulle rovine delle altre confessioni, come ricordano i due pilastri scanalati ed anche il paesaggio lontano, con le vedute cittadine: la città più lontana a destra è infatti un riferimento a Gerusalemme con l’edificio a cupola, davanti alla quale sorge un albero secco con un ramo spezzato, simbolo della conquista della medesima; mentre, la città di sinistra è, invece, un’elaborazione di Roma, dove si riconoscono i sepolcri di due imperatori profetici, Augusto, con il mausoleo e Adriano, che si pensava sepolto sotto la Torre delle Milizie, lasciando che si intraveda anche quella che sembra la Cattedrale di Santa Maria del Fiore, a ribadire il ruolo di Firenze come nuova Roma.

Ghirlandaio Adorazione dei pastoriL’opera deriva da modelli di Filippo Lippi (come l’Adorazione del Bambino di Camaldoli), ma mostra anche chiari i segni dell’influenza sulla pittura fiorentina della pittura fiamminga, che influenzò profondamente i pittori rinascimentali, i quali cercarono di comprenderne le diversità e carpirne i segreti soprattutto nella resa della luce e nel naturalismo lenticolare. Tipicamente fiamminga è infatti l’attenzione al dettaglio, dove ogni oggetto ha un preciso ruolo simbolico, e l’uso della prospettiva aerea, con il paesaggio che sfuma in lontananza nella foschia verso una minuta rappresentazione di colline e città.

[testo adattato dal web a cura di Giorgio Chiantini & Angela Greco per sassi di arte]

Masolino, Madonna dell’umiltà

Masolino - Madonna dell'umiltà
Masolino, Madonna dell’umilità, tempera su tavola, cm 110,5×62 – Firenze, Galleria degli Uffizi

 

Destinata verosimilmente a un piccolo altare di cappella o alla parete di un’ignota residenza patrizia, questa tavola, dalla comparsa sul mercato antiquario a Londra nel 1930, venne pubblicata per la prima volta da Longhi nel 1940 confermando il lavoro a Masolino e togliendolo definitivamente dalla scuola dell’Angelico alla quale era stato riferito nella vendita londinese.

Il dipinto raffigura la Madonna dell’umiltà secondo un’iconografia fiorentina diffusasi alla fine del Trecento e sempre lo studioso Longhi propose una datazione tra il 1430 e il 1435, successivo al sodalizio con Masaccio, interrottosi per la prematura scomparsa di quest’ultimo nel 1428, e precedente il ciclo pittorico masoliniano di Castiglione Olona. Il Longhi faceva osservare infatti, accanto all’eleganza sinuosa delle pieghe che poteva far pensare a un’opera giovanile influenzata da Lorenzo Monaco, una tonalità scura del colore e una tornitura delle forme impensabili senza il precedente masaccesco. Sebbene il riferimento della pittura a Masolino abbia incontrato il favore di quasi tutta la critica, non sono mancate alcune voci discordanti, che vorrebbero l’opera attribuita ad altre personalità di spicco del primo Quattrocento fiorentino vicine al già menzionato Lorenzo Monaco.

Masolino - Madonna dell'umiltà

Tommaso di Cristoforo Fini, detto Masolino, era probabilmente nato a Panicale di Renacci (1383 e morto a Firenze nel 1440 circa), nel Valdarno superiore, non molto lontano da San Giovanni, luogo natio di Masaccio. Quando si iscrisse all’Arte dei Medici e Speziali, nel 1423, era un uomo di quarant’anni e, per questa ragione, più che di un discepolato fra Masaccio – peraltro sui ventidue anni e già pittore autonomo – e lui, si deve parlare di una collaborazione tra personalità di diversa indole artistica: quella di Masolino programmaticamente ancorata alle seduzioni naturalistiche del gotico, e quella di Masaccio già predisposta al rigore formale determinato dal rinnovato studio dell’antico. [adattamento da Masaccio e i pittori del suo tempo agli Uffizi – Skira per Sassi di arte scelti da AnGre]

Allegoria della Primavera di Sandro Botticelli (per i lunedì dell’Arte)

botticelli-primavera

S.Botticelli, Allegoria della Primavera (1481 – 1482)

tempera su tavola, cm 203 x 314 – Firenze, Galleria degli Uffizi

http://www.uffizi.org/it/sale/

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In questo dipinto – riconosciuto in quello citato in un inventario del 1499, in cui viene detto che si trovava sopra un “lettuccio” nella stanza attigua alla camera da letto di Lorenzo di Pierfrancesco de’Medici nel palazzo di famiglia in Via Larga – uno tra i più celebrati di Botticelli, sul quale intere generazioni di storici, letterati, storici dell’arte si sono cimentati, sono riconoscibili il tono di racconto collocato al di là del tempo reale, in un’atmosfera di “favola mitologica”, e la natura entro la quale si compie una sorta di rito pagano.  Le ragioni della committenza sembrano sottrarsi a tutt’oggi a ogni certezza; ciò che appare assodato è la centralità del ruolo attribuito a Venere e il legame con quel circolo di idee neoplatoniche condiviso presso la corte medicea.

Venere è anche collocata la centro del dipinto e dinnanzi a un mirto, pianta a lei tradizionalmente sacra; si è immessi in una sorta di paradiso mitologico, in cui, sulla destra, Zefiro, il vento primaverile, è raffigurato nell’atto di afferrare la ninfa Clori, che sta per fuggire e dalla cui bocca escono i fiori che si depositano sul trasparente abito di Flora. A sinistra, le Tre Grazie, le ancelle di Venere, intrecciano una danza e accanto a loro Mercurio allontana le nubi con il caduceo, suo tipico attributo. In alto, sopra Venere, Cupido, il dio dell’Amore, lancia i suoi dardi verso una delle Grazie. Alle spalle dei personaggi si trova una quinta arborea di aranci, mentre un tappeto erboso, intessuto di decine e decine di fiori, costituisce il piano su cui le figure sembrano muoversi danzando.

Dare un significato ultimo e univoco alla scena appena descritta è un’impresa inesauribile; anche l’identificazione dei personaggi, che sembrava unanimamente accettata dalla critica, è stata ultimamente messa in discussione da una recente, affascinante e precisa rilettura, che propone di interpretare il soggetto non tanto come Allegoria della Primavera, quanto come Le nozze di Filologia e Mercurio. Rimane indiscussa la collocazione dell’opera entro un complesso insieme di rimandi culturali al tema dell’Amore, così come non può essere discussa la matrice neoplatonica che la informa, né la straordinaria qualità esecutiva: oltre alla disarmante minuzia descrittiva di fiori e piante, va rimarcato il rapporto formale con la scultura, sia classica, di cui anche a Firenze esistevano importanti esemplari, che contemporanea al Botticelli, cui va riferita anche la particolare tensione conferita alla linea, che crea il ritmo dolce  e pacato delle figure e ne sostanzia i reciproci rapporti. (dal saggio di Chiara Basta in Botticelli, I grandi maestri dell’arte – Skira)

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La camera degli sposi di Andrea Mantegna a Mantova, seconda parte (per i lunedì dell’Arte)

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“Nella Camera Picta (Camera degli Sposi) dipinta da Andrea Mantegna a Mantova lo spettatore non è esterno allo spazio prospettico dove si manifesta l’evento, ma è inserito al centro dello spazio prospettico illusivo che si dispiega da ogni parte, e anche in alto, verso l’esterno. Le figurazioni della volta e delle pareti continuano lo spazio agito dallo spettatore che diviene il protagonista dell’evento e della presenza reale come pure dell’evento e della presenza nella finzione pittorica. […] La variata complessità che sa proporsi con precisa evidenza e studiato decoro spiega l’importanza che i contemporanei seppero cogliere nella decorazione dipinta dal Mantegna e il costante interesse e l’attenzione che ricevette per tutto il corso del Rinascimento maturo, di cui è anticipazione e perfetta espressione.”

Di tutto il ciclo pittorico presente nella Camera degli Sposi in questa seconda parte ad essa dedicata verrà considerato il cosiddetto “Oculo”, un dipinto presente al centro della volta di ricercata particolarità.

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“Il campo centrale della volta, risultante dall’incrocio dei costoloni, è lo spazio in cui si apre il grande oculo, rivolto verso un cielo azzurro solcato da nubi e perfettamente inscritto nel quadrato più esteso delimitato dagli stessi costoloni. Da lì si diparte una serie di cerchi concentrici, sottolineati nella parte più esterna dalla grande ghirlanda di foglie e frutti. Popolano questo spazio alcuni enigmatici personaggi femminili in due gruppi di tre e due, separati da un mastello contenente una pianta di agrumi che sta in bilico tra la sommità della balaustra e un bastone sospeso nel vuoto. Un primo gruppo di tre donne mostra il capo scoperto, soltanto due di esse hanno i capelli cinti da un nastro, la terza tiene in mano un pettine. Il secondo gruppo vede invece la presenza di una donna riccamente ornata, con il capo coperto da un velo bianco – segno con cui si identificava la condzione di donna maritata -, e un personaggio dalla pelle scura, individuato a volte come un uomo a volte come una donna, anch’esso con il capo coperto da un velo bainco prima e, sovrapposto, una sorta di turbante orientale a righe.

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Una serie di tre putti alati si affaccia alla balaustra, sporgendo il capo verso il basso; altri tre sono in piedi sulla cornice e si reggono all’esterno della balaustra; altri tre infilano la testa negli stretti anelli della balaustra stessa. Uno mostra nelle mani un pomo, un altro una canna, un altro è colto mentre si posa sul capo un serto di foglie. Di un decimo si osserva solo la mano che regge un bastone. Un grande pavone posato sulla balaustra completa la figurazione. In realtà la sagoma in luce di una nube allude con chiarezza al profilo di un volto umano, visibile nello spazio vuoto accosto al mastello, vicino alla prima donna con il nastro sui capelli.

part.1

part.2

L’oculo è la parte di più dubbia interpretazione, al punto che non pochi studiosi vi hanno riconosciuto semplicemente una scena gioiosa e quasi una burla, come se i personaggi raffigurati stessero rovesciando il contenuto del mastello all’interno della Camera.”

[testo tratto e adattato da La Camera degli Sposi di Andrea Mantegna, Electa]

Pallade che doma il centauro – sassi d’arte

Sandro Botticelli - Pallade doma il centauro

Pallade che doma il centauro, Sandro Botticelli

1482-1483, tempera su tela, cm 207×148 – Galleria degli Uffizi, Firenze

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“Fu dipinto per Lorenzo di Pierfrancesco de’ Medici (ramo cadetto, che permetterà a Botticelli di entrare in contatto con la colta e intellettualistica cerchia neoplatonica le cui idee si rifletteranno nel suo quadro più noto, la Primavera) ed è ricordato nei registri della sua casa.

La figura femminile è vestita di un abito bianco impreziosito da un motivo decorativo costituito da tre anelli intrecciati con diamante, riferibile alla famiglia Medici; rami d’ulivo cingono il capo della donna e si attorcigliano anche lungo le braccia e il seno. Sulle spalle pende un grosso scudo e in mano regge un’alabarda da parata. E’ raffigurata nell’atto di trattenere per i capelli un centauro dall’espressione tra il corrucciato e triste;  figura quest’ultima probabilmente desunta da modelli antichi di età ellenistica, visto il forte patetismo dell’atteggiamento.

La lettura più convincente tra quelle proposte risultata essere quella che collega il dipinto al circolo neoplatonico di Careggi, attribuendogli il significato allegorico del dominio esercitato dalla ragione e dalla castità sul cieco istinto.”

(da I grandi maestri dell’arte, Skira editore)

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