Il sogno
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John Donne, Poesie amorose poesie teologiche, a cura di Cristina Campo (Einaudi) — in foto: Alba sullo Jonio ad Aci Trezza, dal web.
Il sogno
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John Donne, Poesie amorose poesie teologiche, a cura di Cristina Campo (Einaudi) — in foto: Alba sullo Jonio ad Aci Trezza, dal web.
Due poesie di Michel Faber
Nato in Olanda nel 1960 e cresciuto in Australia oggi vive nel nord della Scozia. È uno degli autori in lingua inglese più acclamati degli ultimi anni. Il romanzo che lo ha consacrato a livello internazionale è stato “Il petalo cremisi e il bianco”, uscito nel 2002. Dopo la morte della moglie, di cui si è preso cura fin dalla scoperta della malattia, interrompendo il suo lavoro di narratore, si è dedicato alla composizione di poesie incentrate sul dolore e sul tema della perdita.
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Non sapevamo mai
quando sarebbe stata
l’ultima volta.
Era importante
non saperlo.
Facevamo l’amore
la penultima volta,
sempre la penultima volta,
tante volte
quanto il tempo ne concedeva.
Andavamo a letto
e accostavamo le teste,
cercando di scoprire
dov’eri andata.
La tua malattia era un terreno
vasto ma, in un modo o nell’altro,
ancora e sempre,
ti trovavamo.
~
Ecco come stanno le cose:
trascorreremo la notte separati.
Ho il tuo nuovo indirizzo
stampato su un bigliettino
ma non conosco la città abbastanza bene
da figurarmi il posto dove stai dormendo.
Inoltre, è tutto finito ormai.
Non sono più necessario ai tuoi bisogni.
Sei con altri della tua stessa razza
e io, alfine, sono assente dalla tua mente.
Ci sono così tante persone alle quali dovrei dire
che mi hai lasciato.
Una sfida per un altro giorno.
Che caldo c’è! Ormai è luglio.
Alzo gli occhi mentre cammino e in cielo
vedo la prima delle lune
che non condivideremo.
Tre poesie di Dylan Thomas (Swansea, Galles, 1914 – New York, 1953)
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E la morte non avrà più dominio
E la morte non avrà più dominio.
I morti nudi saranno una cosa
Con l’uomo nel vento e la luna d’occidente;
Quando le loro ossa saranno spolpate e le ossa pulite scomparse,
Ai gomiti e ai piedi avranno stelle;
Benché impazziscano saranno sani di mente,
Benché sprofondino in mare risaliranno a galla,
Benché gli amanti si perdano l’amore sarà salvo;
E la morte non avrà più dominio.
E la morte non avrà più dominio.
Sotto i meandri del mare
Giacendo a lungo non moriranno nel vento;
Sui cavalletti contorcendosi mentre i rendini cedono,
Cinghiati ad una ruota, non si spezzeranno;
Si spaccherà la fede in quelle mani
E l’unicorno del peccato li passerà da parte a parte;
Scheggiati da ogni lato non si schianteranno;
E la morte non avrà più dominio.
E la morte non avrà più dominio.
Più non potranno i gabbiani gridare ai loro orecchi,
Le onde rompersi urlanti sulle rive del mare;
Dove un fiore spuntò non potrà un fiore
Mai più sfidare i colpi della pioggia;
Ma benché pazzi e morti stecchiti,
Le teste di quei tali martelleranno dalle margherite;
Irromperanno al sole fino a che il sole precipiterà,
E la morte non avrà più dominio.
~
Amore in manicomio
Un’estranea è venuta
A spartire con me la mia stanza nella casa lunatica,
Una ragazza folle come gli uccelli
Che spranga la notte della porta col suo braccio di piuma.
Stretta nel letto delirante
Elude la casa a prova di cielo con nubi invadenti
E la stanza da incubi elude col suo passeggiare
Su e giù come i morti,
O cavalca gli oceani immaginati delle corsie maschili.
Venne invasata,
Chi fa entrare dal muro rimbalzante l’ingannevole luce,
Invasata dal cielo
Dorme nel truogolo stretto e tuttavia cammina sulla polvere
E a piacer suo vaneggia
Sopra l’assito del manicomio consumato dalle mie lacrime ambulanti.
E rapito alla fine (cara fine) nelle sue braccia dalla luce
Io posso senza venir meno
Sopportare la prima visione che diede fuoco alle stelle.
~
Nel mio mestiere, ovvero arte scontrosa
Nel mio mestiere, ovvero arte scontrosa
Che nella quiete della notte esercito
Quando solo la luna effonde rabbia
E gli amanti si giacciono nel letto
Tenendo fra le braccia ogni dolore,
A una luce che canta mi affatico
E non per ambizione, non per pane,
Né per superbia o traffico di grazie
Su qualche palcoscenico d’avorio,
Ma solo per la paga consueta
Del loro sentimento più segreto.
Non è per il superbo che si apparta
Dalla luna infuriata che io scrivo
Su questa spruzzaglia di pagine,
E non per i defunti che torreggiano
Con i loro usignoli e i loro salmi,
Ma solo per gli amanti che trattengono
Fra le braccia i dolori delle età,
E non offrono lodi né compensi,
Indifferenti al mio mestiere o arte.
Piliph Morre, una poesia con traduzione
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Grey Blues
The colour of your absence is rather
an absence of colour, the no-colour
of soldiering on, getting through
– this day and the next – of making do.
Call it grey if you must, the schwa
of colours, say a washed-out grisaille,
say cinereal – and no such thing as a
silver lining: cloud-cover’s here to stay.
I used to see you as the intensest
seam of luck in my life’s bleu-de-travail,
less reason-for-living than recompense:
the gods’s apology for the hoax they play!
They’re still up there, riffling the packs
on their holiday mountain, bickering
over who gets to cruise this evening
in the swan costume, sleeving the jacks …
And you? I can’t even say for certain
what country you’re in: but just yesterday
saw your blue coat through the rain-curtain
hiking the headland, not heading this way.
*
Grey Blues
Il colore della tua assenza è piuttosto
un’assenza di colore, il non-colore
del tirare avanti, del far passare
– domani e dopodomani – del far bastare.
Chiamalo grigio se vuoi, lo schwa
dei colori, chiamalo grisaglia sbiadita –
o cinereo – e non pretendiamo nemmeno
che dopo la pioggia venga sempre il sereno.
Ti vedevo come la più sgargiante rifinitura
nel bleu-de-travail della mia vita,
non tanto ragione-di-vita quanto ricompensa;
le scuse degli dei per lo scherzo che tirano!
Sono ancora lassù, loro, in quel villaggio olimpico,
a mescolare le carte, a bisticciare – a chi toccherà
rimorchiare in costume da cigno stasera?
– mentre infilano i fanti nelle maniche …
E tu? Non so neanche dire per certo
in che paese ti trovi: ma giusto ieri ho visto
la tua giacca blu attraverso una cortina di pioggia
scarpinare sul promontorio, non in questa direzione.
*
Traduzione di Giorgia Sensi e Philip Morre — per questi versi si ringrazia il sito Interno Poesia, che ha pubblicato uno dei due libri tradotti in italiano di questo autore britannico contemporaneo.
John Donne, “Notturno sopra il giorno di Santa Lucia, che è il più breve dell’anno”
Questa è la mezzanotte dell’anno e lo è del giorno
di Lucia, che per sole sette ore
solleva la sua maschera.
Il sole è esausto e ora le sue fiasche
spremono tenui sprazzi, nessun raggio costante.
Tutta la linfa del mondo è caduta.
L’universale balsamo bevve la terra idropica;
là, quasi a piè del letto, s’è ritratta la vita
morta e interrata. Eppure tutto ciò sembra ridere
appetto a me che sono il suo epitaffio.
Dunque studiatemi, voi che sarete amanti
in altro mondo, un’altra primavera:
sono ogni cosa morta onde operò l’amore
nuova alchimia. Perché una quintessenza
distillò la sua arte anche dal nulla,
da opache privazioni e da scarne vuotezze.
Mi distrusse. E ora mi rigenerano
assenza, buio, morte, le cose che non sono.
Tutti gli altri da tutte le cose
traggono tutto ciò che è buono: vita, anima,
spirito, forma e ne hanno esistenza.
Io, grazie all’alambicco dell’amore,
son la fossa di tutto ciò che è nulla.
Spesso noi due piangemmo
un diluvio e ne fu sommerso il mondo:
noi due. E tramutammo spesso
fino a due caos quando mostrammo cura
d’altri che noi, e talora l’assenza,
rubandoci le anime, fece di noi carcasse.
Ma, grazie alla sua morte (parola che l’offende),
dal primitivo nulla io son fatto elisir;
fossi uomo, dovrei sapere d’esserlo;
preferirei, se fossi bestia, un qualche
fine od un qualche mezzo, se persino le piante,
persin le pietre detestano od amano:
tutto, tutto s’investe di qualche proprietà;
fossi un nulla qualunque, come l’ombra,
dovrebb’esservi un corpo ed una luce. Ma
sono nulla. E non vuole rinnovarsi il mio sole.
Voi, amanti, pei quali il minor sole
a quest’ora è passato in Capricorno
per succhiarne voluttà nuova e donarla a voi,
o voi tutti, godetevi l’estate.
Poiché ella gode la sua lunga festa
notturna, lasciate ch’io m’accinga
verso di lei, lasciate che io chiami quest’ora
la sua Vigilia, la sua Veglia. Questa
è mezzanotte fonda, e dell’anno e del giorno.
~
da “Poesie amorose, poesie teologiche”, Einaudi, 1971, traduzione di Cristina Campo.
Scritti probabilmente fra il 1595 e i primi anni del 1600, i Sonetti di Shakespeare costituiscono uno dei grandi vertici della letteratura d’amore di tutti i tempi, rappresentano anche un momento centrale della produzione letteraria del grande drammaturgo inglese.(dal sito shakespeareitalia.com)
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Sonetto 46
I miei occhi e il cuore sono in conflitto estremo
per contendersi l’immagine della tua persona:
gli occhi al cuor vorrebbero celare la tua effigie,
agli occhi il cuor contesta la libertà di tal diritto.
Il cuore a difesa adduce che tu dimori in lui
– un tempio mai violato da sguardi penetranti –
ma gli accusati negano tal dissertazione,
dicendo che in loro giace il tuo bel sembiante.
Per attribuir questo diritto si convoca in giuria
un esame dei pensieri che al cuore son fedeli,
e per verdetto loro viene aggiudicata
la parte dei puri occhi e quella del caro cuore:
così: agli occhi spetta la tua esteriorità,
e diritto del mio cuore è il tuo profondo amore.
~
Sonetto 47
I miei occhi e il cuore son venuti a patti
ed or ciascuno all’altro il suo ben riversa:
se i miei occhi son desiosi di uno sguardo,
o il cuore innamorato si distrugge di sospiri,
gli occhi allor festeggian l’effigie del mio amore
e al fantastico banchetto invitano il mio cuore;
un’altra volta gli occhi son ospiti del cuore
che a lor partecipa il suo pensier d’amore.
Così, per la tua immagine o per il mio amore,
anche se lontano sei sempre in me presente;
perché non puoi andare oltre i miei pensieri
e sempre io son con loro ed essi son con te;
o se essi dormono, in me la tua visione
desta il cuore mio a delizia sua e degli occhi.
Walter John de la Mare (1873 – 1956), scrittore e poeta inglese; dotato di una fantasia singolarmente incline al misterioso e al fiabesco continua in parte quella tradizione di letteratura anglosassone che conta come sommi rappresentanti Coleridge e Poe. In questa vena sono concepiti i più dei suoi versi, tra i quali The Listeners and Other Poems (1912), Collected Poems (1920).
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The listeners
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Gli ascoltatori
All’autunno di John Keats
Stagione di nebbie e morbida abbondanza,
tu, intima amica del sole al suo culmine,
che con lui cospiri per far grevi e benedette d’uva
le viti appese alle gronde di paglia dei tetti,
tu che fai piegare sotto le mele gli alberi muscosi del casolare,
e colmi di maturità fino al torsolo ogni frutto;
tu che gonfi la zucca e arrotondi con un dolce seme
i gusci di nocciola e ancora fai sbocciare
fiori tardivi per le api, illudendole
che i giorni del caldo non finiranno mai
perché l’estate ha colmato le loro celle viscose:
chi non ti hai mai vista, immersa nella tua ricchezza?
Può trovarti, a volte, chi ti cerca,
seduta senza pensieri sull’aia
coi capelli sollevati dal vaglio del vento,
o sprofondata nel sonno in un solco solo in parte mietuto,
intontita dalle esalazioni dei papaveri, mentre il tuo falcetto
risparmia il fascio vicino coi suoi fiori intrecciati.
A volte, come una spigolatrice, tieni ferma
la testa sotto un pesante fardello attraversando un torrente,
o, vicina a un torchio da sidro, con uno sguardo paziente,
sorvegli per ore lo stillicidio delle ultime gocce.
E i canti di primavera? Dove sono?
Non pensarci, tu, che una musica ce l’hai.
Nubi striate fioriscono il giorno che dolcemente muore,
e toccano con rosea tinta le pianure di stoppia:
allora i moscerini in coro lamentoso, in alto sollevati
dal vento lieve, o giù lasciati cadere,
piangono tra i salici del fiume,
e agnelli già adulti belano forte del baluardo dei colli,
le cavallette cantano, e con dolci acuti
il pettirosso zufola dal chiuso del suo giardino:
si raccolgono le rondini, trillando nei cieli.
Emily Dickinson, tre poesie sugli angeli
Angeli vedi nella prima luce
tra la rugiada curvarsi,
Cogliere e volar via con un sorriso:
crescon per loro i fiori?
Angeli vedi quando il sole infuria
tra le sabbie roventi,
cogliere e volar via con un sospiro:
ed i fiori avvizziti con sé portano.
~
L’anima dovrebbe sempre star socchiusa
perché ove il cielo chieda
non sia obbligato ad aspettare
o temendo di disturbarla
se ne vada, prima che lei faccia scorrere
il chiavistello nella porta
per scoprire che il cortese ospite,
il suo visitatore, non c’è più –
~
Io so bene che dentro la mia stanza
c’è un amico invisibile,
non si rivela con qualche movimento
né parla per darmi una conferma.
Non c’è bisogno che io gli trovi posto:
è una cortesia più conveniente
l’ospitale intuizione
della sua compagnia.
La sola libertà che si concede
è di essere presente.
Né io né lui violiamo con un suono
l’integrità di questa muta intesa.
Non non potrei mai stancarmi di lui:
sarebbe come se un atomo ad un tratto
si annoiasse di stare sempre insieme
agli innumerevoli elementi dello spazio.
Ignoro se visti anche altri,
se rimanga con loro oppure no.
Ma il mio istinto lo sa riconoscere:
il suo nome è Immortalità.
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(In apertura opera di Joanna Sierko Filipowska; poesie dal web)
Ode a Psiche di John Keats
Ascolta, o Dea, questi versi dissonanti
Strappati dalla dolce violenza e dal ricordo caro;
E che sin entro la morbida conchiglia del tuo orecchio
Sian cantati i tuoi segreti, perdona.
Certo ho sognato, oggi – o davvero l’alata Psiche
Ho visto con i miei occhi aperti?
Giravo spensierato per un bosco
Quando di colpo estasiato per la sorpresa
Due belle creature vidi, coricate fianco a fianco,
Nell’erba folta, sotto un sussurrante tetto
Di foglie e tremuli fiori, ove un ruscello
Appena visibile scorreva:
Tra i taciti fiori dalle fresche radici, azzurri lunari,
Dolcemente profumati nei purpurei boccioli,
Giacevano con quieto respiro sopra un letto d’erba,
Le braccia intrecciate e le ali,
Solo le labbra non si toccavano, ché ancora non s’eran dette addio.
Come se sperate dalle mani dolci del sonno
Fosser pronte a superare il numero dei baci passati
Quando l’alba l’occhio tenero aprisse dell’amore nascente.
Conoscevo bene il fanciullo alato;
Ma tu, o felice colomba felice, chi eri?
La sua Psiche fedele!
Oh tu, ultima nata visione, più dolce
Sei di tutta la svanita gerarchia Dell’Olimpo,
Più bella di Diana nelle sue regioni di zaffiro,
Più bella di Venere, la lucciola amorosa del cielo,
Tu, la più bella sei, pur se tempio non hai,
Né altare colmo di fiori,
O coro di vergini che dolcemente piangano
La tua mezzanotte,
E non voce, o liuto, o flauto, o incenso squisito
Che fumi dal turibolo scosso,
O santuario, bosco, oracolo o ardore
Di profeta sognante della pallida bocca.
Tu, più splendida sei, pur troppo tardi nata
Per gli antichi voti o per l’ingenua lira appassionata,
Quando sacri erano i rami della foresta
Incantata, sacra era l’aria, l’acqua, il fuoco:
Pure, anche un questi giorni tanto lontani
Dalle fedi felici, le tue ali lucenti
Che volteggiano tra gli olimpi in rovina io vedo,
E canto, ai miei soli occhi credendo.
Si, lascia sia io il tuo coro e il pianto
Alzato per la tua mezzanotte,
Lascia sia io la tua voce, il tuo liuto, il tuo flauto,
Il tuo incenso squisito che fuma dal turibolo scosso,
Il tuo santuario, il tuo bosco, il tuo oracolo e l’ardore
Di un profeta sognante dalla pallida bocca.
Voglio essere io il tuo sacerdote, e costruirti un tempio
Nelle inesplorate regioni della mia mente,
Dove ramosi pensieri, appena nati con piacevole dolore,
Mormoreranno al vento sostituendo i pini:
E lontano lontano, di vetta in vetta macchie oscure d’alberi
Vestiranno tutt’intorno i gioghi selvaggi dei monti
E zefiri, fiumi, uccelli e api culleranno
Nel sonno le driadi coricate sul muschio:
Tra questa ampia quiete
Adornerò un roseo santuario
Con la trama inintrecciata d’una mente al lavoro,
Con boccioli, campanule e stelle senza nome,
Con tutto ciò che l’alma fantasia sa inventare,
Lei, che creando fiori, sempre diversi li crea:
Per te sarà li ogni dolce piacere
Che l’ombroso pensiero può conquistare,
Una torcia splendente, un finestra aperta alla notte
Perché caldo l’amore vi possa entrare.
Malcolm Lowry (Birkenhead, Regno Unito, 1909 – Ripe, 1957), due poesie
Felicità
Azzurre montagne innevate, fredde acque azzurre di torrente,
un cielo selvaggio brulicante di stelle nascenti
e Venere e la luna gibbosa dell’alba,
gabbiani seguono controvento un motoscafo,
alberi coi rami radicati in aria –
sedendo al sole di mezzogiorno, con l’ombra
del camino furiosamente fumante della baracca –
le aquile seguono unite la strada del vento,
le rondini marine virano all’indietro,
alle undici un’altra presa di tabacco,
e il mio amore tornato con l’autobus delle quattro
– Mio Dio, perché proprio a noi donasti tutto questo?
*
Joseph Conrad
• In apertura: Giovanni Fattori, La torre rossa (o La torre rossa sul mare), forse 1866; olio su tavola, cm 14 x 28; Museo civico Giovanni Fattori, Livorno (immagine dal web)
Canzone
Se spazio e tempo, come i saggi dicono,
sono cose che mai potranno essere,
la mosca che è vissuta un solo giorno
vissuta è a lungo proprio come noi.
Dunque viviamo per quanto ci è possibile,
finché l’amore e la vita sono liberi:
il tempo è il tempo, e il tempo scorre via,
per quanto i saggi non siano d’accordo.
I fiori a te inviati allorché la rugiada
tremolava sul tralcio rampicante,
prima che l’ape volasse a suggere
la roseIlina di macchia erano già appassiti.
Ma noi affrettiamoci a coglierne ancora
senza tristezza se poi languiranno;
se i fiori della vita sono pochi
facciamo almeno che siano divini.
§
Song
If space and time, as sages say,
Are things that cannot be,
The fly that lives a single day
Has lived as long as we.
But let us live while yet we may,
While love and life are free,
For time is time, and runs away,
Though sages disagree.
The flowers I sent thee when the dew
Was trembling on the vine
Were withered ere the wild bee flew
To suck the eglantine.
But let us haste to pluck anew
Nor mourn to see them pine,
And though the flowers of life be few
Yet let them be divine.
*
T.S.Eliot, Poesie (Bompiani, a cura di Roberto Sanesi, 2011 – ph.Elisabeth Lindroth)
Perché voler sapere in quale epoca, in quale regione? di Emily Brontë
poesia tratta dalla raccolta Poesie di Emily, Charlotte, Anne Brontë (curata da Erminia Passannanti, tradotta da E.Passannanti e S.Bartoli – 1989 by Edizioni Ripostes, Salerno – Roma) per L’Unità Cinema n.43, 1998.
immagine d’apertura: Jean-François Millet (1814-1875), L’Angelus (1857-1859) – Olio su tela, cm 55,5 x 66 © RMN-Grand Palais (Musée d’Orsay)
immagine qui a lato: Ritratto di Emily Brontë, dipinto dal fratello nel 1833 circa
Emily Dickinson, da Sillabe di seta, (trad.e cura di Barbara Lanati, Feltrinelli) – immagine d’apertura: Vincent Van Gogh, Ramo di mandorlo fiorito, 1890
.[Thoughts on Freedom]
Byron e l’esperienza poetica
George Gordon Noel Byron, VI barone di Byron, meglio noto come Lord Byron (Londra, 22 gennaio 1788 – Missolungi, 19 aprile 1824), è stato un poeta e politico inglese; pochi protagonisti della storia letteraria moderna hanno saputo fondere, come lui, la propria esperienza di vita con gli elementi e i temi della poesia. Tra i poeti romantici inglesi, infatti, egli è il pioniere di un ideale poetico nuovo, in cui l’ispirazione appartiene e, al contempo, trascende la condizione quotidiana, i sentimenti, le emozioni vissute; ideali e passioni non vivono più di linfa propria, in una sorta di purgatorio dell’immaginazione, ma sono dettati, circoscritti e partoriti direttamente dall’infinita varietà sensitiva del mondo reale. Realtà che viene così prepotentemente trascesa e universalizzata. “Egli era uomo prima e poeta poi”, afferma all’inizio del secolo scorso Arthur Symons sulla scia di quello che, del resto, aveva già ben compreso John Keats: “Vi è grande differenza tra di noi. Lui descrive ciò che vede, io ciò che immagino”.
Le poesie di Byron, i suoi poemi e i suoi componimenti offrono di incanto immagini vive e concrete che il poeta registra – non senza qualche contraddizione istrionica – nella sua particolare retina ottica e li effonde nelle pagine bianche del proprio cahier. Non vi sono grandi cesure, non vi sono complessi artifici infusi da un’ispirazione forzata a ipocrita, tutto è lì davanti ai nostri occhi, come in quelli di Byron. Poeta della realtà, dunque. Ma soprattutto poeta della passione, spesso drammatica e violenta; una passione emancipata, figlia di una morale priva degli angusti confini imposti dai cliché della società a dalle rigide regole delle etichette formali. Una libertà che è apparsa spesso – non senza ragione – scandalosa e provocatoria, ma che è, tutto sommato, coraggiosa coerenza esistenziale.
Anticonformista, impulsivo, tenace e rude ma anche sottile e astuto calcolatore. Temperamento complesso, di animo solitario e ribelle. In lui era insita una profonda e indomabile tensione emotiva e spirituale che lo indusse a travalicare il mondo autoritario e arcaico in cui viveva attraverso una vita eccessiva e arrogante, contrassegnata da una libertà sessuale, una trasgressione sociale e da un esotismo insolito e irresistibile. Byron per primo, infatti, rende l’ascendente esotico un fatto cruciale dell’esperienza poetica, solida base con cui trascendere definitivamente le coordinate culturali del suo tempo, cui aggiungere, qualificandola e indirizzandola, anche una straordinaria attenzione nei confronti della libertà dei popoli soffocati e oppressi, tra tutti la Grecia minacciata nell’intima identità secolare dal dominio turco, mito e allegoria di tanta poetica byroniana.
Il continuum espressivo, sempre in bilico tra esperienza reale e visione creativa, segna profondamente tutta l’opera del poeta inglese, in un medium di straordinaria forza e, per certi aspetti, di sconvolgente attualità. (Estratto da “Vita e poetica” – testi di Paolo Damiano Franzese)
Tratto da “Byron, I grandi poeti” – Il Sole 24 ORE, 2008