Czesław Miłosz, due poesie

Due poesie di Czesław Miłosz (Lituania, 1911 – Polonia, 2004) 

*

Prefazione

Tu, che non ho potuto salvare,
Ascoltami.
Cerca di capire questo linguaggio semplice, mi vergognerei di un altro.
Non possiedo, lo giuro, la magia della parola.
Ti parlo tacendo, come una nuvola o un albero.

Ciò che fortificava me, per te era mortale.
Hai scambiato il congedo di un’epoca per l’inizio di una nuova,
L’afflato dell’odio per bellezza lirica,
La forza cieca per forma compiuta.

Ecco la valle dei bassi fiumi polacchi. E il ponte enorme
Che avanza nella bianca nebbia. Ecco la città infranta
E il vento scaglia contro la tua tomba gli stridi dei gabbiani,
Mentre parlo con te.

Cos’è la poesia che non salva
I popoli né le persone?
Una complicità di menzogne ufficiali,
Una cantilena di ubriachi, a cui fra un attimo verrà tagliata la gola,
Una lettura per signorinette.

Che volevo una buona poesia, senza esserne capace,
Che ho capito, tardi, il suo fine salvifico,
Questo, e solo questo, è la salvezza.

Spargevano sulle tombe miglio e semi di papavero
Per nutrire i morti accorrenti in volo – gli uccelli.
Depongo qui questo libro per te, o trascorso,
Perché d’ora innanzi tu smetta di apparirci.

~

Sugli angeli

Vi hanno tolto le vesti bianche,
Le ali e perfino l’esistenza.
Tuttavia io vi credo, messaggeri.

Là dove il mondo è girato a rovescio,
Pesante stoffa ricamata di stelle e animali,
Passeggiate esaminando i punti veritieri della cucitura.

La vostra tappa qui è breve,
Forse nell’ora mattutina, se il cielo è limpido,
In una melodia ripetuta da un uccello,
O nel profumo delle mele verso sera
Quando la luce rende magici i frutteti.

Dicono che vi abbia inventato qualcuno
Ma non ne sono convinto.
Perché gli uomini hanno inventato anche se stessi.

La voce − senza dubbio questa è la prova,
Perché appartiene a esseri indubbiamente limpidi,
Leggeri, alati (perché no?),
Cinti dalla folgore.
Ho udito sovente questa voce in sogno
E, cosa ancor più strana, capivo pressappoco
il dettame o l’invito in lingua ultraterrena:

è presto giorno
ancora uno
fa’ ciò che puoi.

Traduzione di Pietro Marchesani

Czesław Miłosz, due poesie

AnGre luglio 2019 - Massafra vecchia

Czesław Miłosz, due poesie

Prefazione

Tu, che non ho potuto salvare,
ascoltami,
cerca di capire questo linguaggio semplice, mi vergognerei di un altro,

non possiedo, lo giuro, la magia della parola,
ti parlo tacendo, come una nuvola a un albero,

ciò che fortificava me, per te era mortale,
hai scambiato il congedo di un’epoca per l’inizio di una nuova,

l’afflato dell’odio per bellezza lirica,
la forza cieca per forma compiuta.

Ecco la valle dei bassi fiumi polacchi. E il ponte enorme
che avanza nella bianca nebbia. Ecco la città infranta
e il vento scaglia contro la tua tomba gli stridi dei gabbiani,
mentre parlo con te.

Cos’è la poesia che non salva
i popoli né le persone?
Una complicità di menzogne ufficiali,
una cantilena di ubriachi, a cui fra un attimo verrà tagliata la gola,
una lettura per signorinette.

Che volevo una buona poesia, senza esserne capace,
che ho capito, tardi, il suo fine salvifico,
questo, e solo questo, è la salvezza.

Spargevano sulle tombe miglio e semi di papavero
per nutrire i morti accorrenti in volo – gli uccelli,
depongo qui questo libro per te, o trascorso,
perché d’ora innanzi tu smetta di apparirci.

~

La speranza c’è, quando uno crede
che non un sogno, ma corpo vivo è la terra,
e che vista, tatto e udito non mentono.
E tutte le cose che qui ho conosciuto
son come un giardino, quando stai sulla soglia.

Entrarvi non si può. Ma c’è di sicuro.
Se guardassimo meglio e più saggiamente
un nuovo fiore ancora e più d’una stella
nel giardino del mondo scorgeremmo.

Taluni dicono che l’occhio ci inganna
e che non c’è nulla, sola apparenza.
Ma proprio questi non hanno speranza.
Pensano che appena l’uomo volta le spalle
il mondo intero dietro a lui più non sia,
come da mani di ladro portato via.

*

Poesie (Adelphi), traduzione di Pietro Marchesani — ph.AnGre, arcobaleno a Massafra.

Wisława Szymborska, due poesie

ph.AnGre

Maria Wisława Anna Szymborska (1923 – 2012) è stata una poetessa polacca. Premiata con il Nobel per la letteratura nel 1996 e con numerosi altri riconoscimenti, è generalmente considerata la più importante poetessa polacca degli ultimi anni e una delle poetesse più amate dal pubblico di tutto il mondo.

*

Amore a prima vista 

Sono entrambi convinti
che un sentimento improvviso li unì.
È bella una tale certezza
ma l’incertezza è più bella.

Non conoscendosi, credono
che non sia mai successo nulla fra loro.
Ma che ne pensano le strade, le scale, i corridoi
dove da molto tempo potevano incrociarsi?

Vorrei chiedere loro
se non ricordano –
una volta un faccia a faccia
in qualche porta girevole?
uno « scusi » nella ressa?
un « ha sbagliato numero » nella cornetta?
– ma conosco la risposta.
No, non ricordano.

Li stupirebbe molto sapere
che già da parecchio tempo
il caso giocava con loro.

Non ancora pronto del tutto
a mutarsi per loro in destino,
li avvicinava, li allontanava,
tagliava loro la strada
e soffocando una risata
con un salto si scansava.

Vi furono segni, segnali,
che importa se indecifrabili.
Forse tre anni fa
o lo scorso martedì
una fogliolina volò via
da una spalla a un’altra?
Qualcosa fu perduto e qualcosa raccolto.
Chissà, forse già la palla
tra i cespugli dell’infanzia?

Vi furono maniglie e campanelli
su cui anzitempo
un tocco si posava su un tocco.
Valigie accostate nel deposito bagagli.
Una notte, forse, lo stesso sogno,
subito confuso al risveglio.

Ogni inizio infatti
è solo un seguito
e il libro degli eventi
è sempre aperto a metà

~

La fine è l’inizio

Dopo ogni guerra
c’è chi deve ripulire.
In fondo un po’ d’ordine
da solo non si fa.

C’è chi deve spingere le macerie
ai bordi delle strade
per far passare
i carri pieni di cadaveri.

C’è chi deve sprofondare
nella melma e nella cenere,
tra le molle dei divani letto,
le schegge di vetro
e gli stracci insanguinati.

C’è chi deve trascinare una trave
per puntellare il muro,
c’è chi deve mettere i vetri alla finestra
e montare la porta sui cardini.

Non è fotogenico,
e ci vogliono anni.
Tutte le telecamere sono già partite
per un’altra guerra.

Bisogna ricostruire i ponti
e anche le stazioni.
Le maniche saranno a brandelli
a forza di rimboccarle.

C’è chi, con la scopa in mano,
ricorda ancora com’era.
C’è chi ascolta
annuendo con la testa non mozzata.

Ma presto lì si aggireranno altri
che troveranno il tutto
un po’ noioso.

C’è chi talvolta
dissotterrerà da sotto un cespuglio
argomenti corrosi dalla ruggine
e li trasporterà sul mucchio dei rifiuti.

Chi sapeva
di che si trattava,
deve far posto a quelli
che ne sanno poco.
E meno di poco.
E infine assolutamente nulla.

Sull’erba che ha ricoperto
le cause e gli effetti,
c’è chi deve starsene disteso
con una spiga tra i denti,
perso a fissare le nuvole.

Traduzioni di Pietro Marchesani

Czesław Miłosz, due poesie

nuvole-rosse

Due poesie di Czeslaw Milosz (1911-2004), scrittore, traduttore, critico e diplomatico polacco, Premio Nobel per la letteratura nel 1980.

***

Prefazione

Tu, che non ho potuto salvare,
ascoltami,
cerca di capire questo linguaggio semplice, mi vergognerei di un altro,

non possiedo, lo giuro, la magia della parola,
ti parlo tacendo, come una nuvola a un albero,

ciò che fortificava me, per te era mortale,
hai scambiato il congedo di un’epoca per l’inizio di una nuova,

l’afflato dell’odio per bellezza lirica,
la forza cieca per forma compiuta.

Ecco la valle dei bassi fiumi polacchi. E il ponte enorme
che avanza nella bianca nebbia. Ecco la città infranta
e il vento scaglia contro la tua tomba gli stridi dei gabbiani,
mentre parlo con te.

Cos’è la poesia che non salva
i popoli né le persone?
Una complicità di menzogne ufficiali,
una cantilena di ubriachi, a cui fra un attimo verrà tagliata la gola,
una lettura per signorinette.

Che volevo una buona poesia, senza esserne capace,
che ho capito, tardi, il suo fine salvifico,
questo, e solo questo, è la salvezza.

Spargevano sulle tombe miglio e semi di papavero
per nutrire i morti accorrenti in volo – gli uccelli,
depongo qui questo libro per te, o trascorso,
perché d’ora innanzi tu smetta di apparirci.

*

Frammento

Sorella, dammi dell’acqua e perdona se ho peccato,
La tua cornetta abbaglia come le Alpi all’alba,
E sulle sue falde si stendono ombrose vallate,
A destra la terra di Tur, a sinistra Ghilead.
Tu hai occhi ebrei, io sono Slavo, la rabbia
Del mondo caparbio ci ha colpito e sconfitto. Tendi
E con la mia fronte incontra le tue mani lievi,
Ancora dinanzi a me la musica si levi
Dei cani di campagna, dei tintinnanti armenti.
Chiudi la finestra, là fuori Giunoni germane
Saltano nel mio fiume turbando del fondo la quiete,
Ove prima era solo il pescatore e la sua rete
Nel volteggiare intorno di rondoni e capineri.
Neri, bellici carri le pasture hanno solcato,
Volano i vessilli fiammanti e balena arrossato
Il muro del letto, e vibran sul tavolo i bicchieri.
Non andartene, resta con me. Poiché m’è parso
Un giorno, che il cuore diventasse di sasso
E che tra le lenzuola ormai un altro giacesse,
Pur ferito gravemente, grande e bambinesco,
E una suora di carità con lo sguardo socchiuso
Filasse lunghi fili dalle nubi come da un fuso.

(1935, Parigi)

Wisława Szymborska, Amore a prima vista

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Wisława Szymborska (1923 – 2012) è stata una poetessa e saggista polacca. Premiata con il Nobel nel 1996 e con numerosi altri riconoscimenti, è generalmente considerata la più importante poetessa polacca degli ultimi anni.

*

Amore a prima vista 

Sono entrambi convinti
che un sentimento improvviso li unì.
E’ bella una tale certezza
ma l’incertezza è più bella.

Non conoscendosi prima, credono
che non sia mai successo nulla fra loro.
Ma che ne pensano le strade, le scale, i corridoi
dove da tempo potevano incrociarsi?

Vorrei chiedere loro
se non ricordano –
una volta un faccia a faccia
forse in una porta girevole?
uno “scusi” nella ressa?
un “ha sbagliato numero” nella cornetta?
– ma conosco la risposta.
No, non ricordano.

Li stupirebbe molto sapere
che già da parecchio
il caso stava giocando con loro.

Non ancora del tutto pronto
a mutarsi per loro in destino,
li avvicinava, li allontanava,
gli tagliava la strada
e soffocando un risolino
si scansava con un salto.

Vi furono segni, segnali,
che importa se indecifrabili.
Forse tre anni fa
o il martedì scorso
una fogliolina volò via
da una spalla all’altra?
Qualcosa fu perduto e qualcosa raccolto.
Chissà, era forse la palla
tra i cespugli dell’infanzia?

Vi furono maniglie e campanelli
in cui anzitempo
un tocco si posava sopra un tocco.
Valigie accostate nel deposito bagagli.
Una notte, forse, lo stesso sogno,
subito confuso al risveglio.

Ogni inizio infatti
è solo un seguito
e il libro degli eventi
è sempre aperto a metà.

*

Da “Amore a prima vista”a cura di Pietro Marchesani, Piccola Biblioteca Adelphi, 2017.

Czesław Miłosz, Caffè

 “Caffè ” di Czesław Miłosz (Šeteniai, 30 giugno 1911 – Cracovia, 14 agosto 2004)

Caffè

Di quel tavolino al caffè,
Dove nei pomeriggi d’inverno brillava un giardino di brina,
Sono rimasto io solo.
Potrei entrarci, se volessi,
E tamburellando con le dita nel freddo vuoto
Richiamare le ombre.

La nebbia invernale sui vetri è la stessa,
Ma non entra nessuno.
Un pugno di cenere,
Una macchia di putridume cosparsa di calce
Non si toglie il cappello, non dice allegramente:
Facciamoci una vodka.

Incredulo tocco il freddo marmo,
Incredulo tocco la mia mano:
Ciò – è e io sono nella storia in atto,
Mentre quelli sono ormai chiusi per tutti i secoli
Nella loro ultima parola, nel loro ultimo sguardo.
E lontani, come l’imperatore Valentiniano,
Come i condottieri dei Massageti, di cui non si sa nulla,
Benché sia trascorso appena un anno o due o tre.

Posso ancora fare il taglialegna nei boschi del lontano nord,
Tenere discorsi da una tribuna o girare un film
Con tecniche a loro sconosciute.
Posso provare il sapore di frutti di isole dell’oceano
E farmi fotografare in costume della seconda metà del secolo.
Mentre loro sono sempre ormai busti in jabot e frac
D’un Larousse mostruoso.

Talvolta però, quando il bagliore vespertino tinge i tetti d’una povera strada
E fisso il cielo – vedo lassù, tra le nubi,
Un tavolino vacillante. Il cameriere volteggia col vassoio,
E loro mi guardano scoppiando a ridere.
Perché ancora non so come si muore per crudele mano d’uomo.
Loro lo sanno, lo sanno bene.

*

da Poesie, a cura di Pietro Marchesani, Biblioteca Adelphi — Immagine: Caffè Greco di Renato Guttuso.

Wisława Szymborska, due poesie

Wisława Szymborska (Kórnik, 1923 – Cracovia, 2012) , due poesie

Amore a prima vista

Sono entrambi convinti
che un sentimento improvviso li unì.
E’ bella una tale certezza
ma l’incertezza è più bella.

Non conoscendosi prima, credono
che non sia mai successo nulla fra loro.
Ma che ne pensano le strade, le scale, i corridoi
dove da tempo potevano incrociarsi?

Vorrei chiedere loro
se non ricordano –
una volta un faccia a faccia
forse in una porta girevole?
uno “scusi” nella ressa?
un “ha sbagliato numero” nella cornetta?
– ma conosco la risposta.
No, non ricordano.

Li stupirebbe molto sapere
che già da parecchio
il caso stava giocando con loro.

Non ancora del tutto pronto
a mutarsi per loro in destino,
li avvicinava, li allontanava,
gli tagliava la strada
e soffocando un risolino
si scansava con un salto.

Vi furono segni, segnali,
che importa se indecifrabili.
Forse tre anni fa
o il martedì scorso
una fogliolina volò via
da una spalla all’altra?
Qualcosa fu perduto e qualcosa raccolto.
Chissà, era forse la palla
tra i cespugli dell’infanzia?

Vi furono maniglie e campanelli
in cui anzitempo
un tocco si posava sopra un tocco.
Valigie accostate nel deposito bagagli.
Una notte, forse, lo stesso sogno,
subito confuso al risveglio.

Ogni inizio infatti
è solo un seguito
e il libro degli eventi
è sempre aperto a metà.

.da “Amore a Prima vista”, Adelphi, trad. di Pietro Marchesani.

*

Ogni caso 

Poteva accadere.
Doveva accadere.
È accaduto prima. Dopo.
Più vicino. Più lontano.
È accaduto non a te.

Ti sei salvato perché eri il primo.
Ti sei salvato perché eri l’ultimo.
Perché da solo. Perché la gente.
Perché a sinistra. Perché a destra.
Perché la pioggia. Perché un’ombra.
Perché splendeva il sole.

Per fortuna là c’era un bosco.
Per fortuna non c’erano alberi.
Per fortuna una rotaia, un gancio, una trave, un freno,
un telaio, una curva, un millimetro, un secondo.
Per fortuna sull’acqua galleggiava un rasoio.

In seguito a, poiché, eppure, malgrado.
Che sarebbe accaduto se una mano, una gamba,
a un passo, a un pelo
da una coincidenza.

Dunque ci sei? Dritto dall’attimo ancora socchiuso?
La rete aveva solo un buco, e tu proprio da lì?
Non c’è fine al mio stupore, al mio tacerlo.
Ascolta
come mi batte forte il tuo cuore.

da “Ogni caso”, Libri Scheiwiller, trad. di Pietro Marchesani

Wisława Szymborska, L’acrobata

Marc Chagall acrobat 1930

L’acrobata di Wisława Szymborska

Da trapezio a
a trapezio, nel silenzio dopo
dopo un rullo di tamburo di colpo muto, attraverso
attraverso l’aria stupefatta più veloce del
del peso del suo corpo che di nuovo
di nuovo non ha fatto in tempo a cadere.
Solo. O anche meno che solo,
meno, perché imperfetto, perché manca di
manca di ali, gli mancano molto,
una mancanza che lo costringe
a voli imbarazzati su una attenzione
senza piume ormai soltanto nuda.
Con faticosa leggerezza,
con paziente agilità,
con calcolata ispirazione. Vedi
come si acquatta per il volo? Sai
come congiura dalla testa ai piedi
contro quello che è? Lo sai, lo vedi
con quanta astuzia passa attraverso la sua vecchia forma e
per agguantare il mondo dondolante
protende le braccia di nuovo generate?
Belle più di ogni cosa proprio in questo
proprio in questo momento, del resto già passato.

*

da Wisława Szymborska, Vista con granello di sabbia, Adelphi 2009 — in apertura, Marc Chagall, L’acrobata (1930), olio su tela, 65x 32 cm. – Parigi, Centro Georges Pompidou

Czesław Miłosz, Sortilegio

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Sortilegio

Bello e invincibile è l’intelletto umano.
Né inferriata, né filo spinato, né libri al macero,
Né verdetto di bando possono niente contro di lui.
Egli stabilisce nella lingua le idee generali
E ci guida la mano, scriviamo quindi con la maiuscola
Verità e Giustizia, e con la minuscola menzogna e offesa.
Egli sopra ciò che è innalza ciò che dovrebbe essere.
Nemico della disperazione, amico della speranza.
Non conosce Ebreo né Greco, schiavo né signore,
Affidandoci in gestione il comune patrimonio del mondo
Dall’immondo strepito di parole slabbrate
Salva frasi austere e chiare.
Egli ci dice che tutto è sempre nuovo sotto il sole.
Apre la mano rappresa di ciò che è già stato.
Bella e giovane assai è Filo-Sofìa
E la poesia sua alleata al servizio del Bene.
Appena ieri la natura ha festeggiato la loro nascita.
Ai monti ne hanno dato notizia l’unicorno e l’eco.
Famosa sarà la loro amicizia, il tempo loro senza confini.
I loro nemici si sono condannati alla distruzione.

Berkeley, 1968

*

Da “Czesław Miłosz, Poesie”, a cura di P. Marchesani, Adelphi, 2013 – Immagine d’apertura: Konstantin Juon, La Nouvelle Planète 1921, © Moscou, galerie nationale Tretiakov / ADAGP

Wisława Szymborska, Nulla è in regalo

un soffione

Nulla è in regalo

Nulla è in regalo, tutto è in prestito.
Sono indebitata fino al collo.
Sarò costretta a pagare per me
con me stessa,
a rendere la vita in cambio della vita.
.
È così che è stabilito,
il cuore va reso
e il fegato va reso
e ogni singolo dito.
.
È troppo tardi per impugnare il contratto.
Quanto devo
mi sarà tolto con la pelle.
.
Me ne vado per il mondo
tra una folla di altri debitori.
Su alcuni grava l’obbligo
di pagare le ali.
Altri dovranno, per amore o per forza,
rendere conto delle foglie.
.
Nella colonna Dare
ogni tessuto che è in noi.
Non un ciglio, non un peduncolo
da conservare per sempre.
.
L’inventario è preciso,
e a quanto pare
ci toccherà restare con niente.
.
Non riesco a ricordare
dove, quando e perché
ho permesso che aprissero
questo conto a mio nome.

La protesta contro di esso
la chiamiamo anima.
E questa è l’unica voce
che manca nell’inventario.

*

da “La fine e l’inizio” (1993)

Wisława Szymborska (Kórnik, 1923 – Cracovia, 2012), daVista con granello di sabbia, Adelphi 2009

Czesław Miłosz,Trattato poetico (tavola rotonda sull’opera) – III parte

Czesław Miłosz,Trattato poetico 

Tavola rotonda: Alfonso Berardinelli, Valeria Rossella, Giovanna Tomassucci, 21 novembre 2012 – Vengono pubblicati – qui, su Il sasso nello stagno, divisi in tre parti – gli interventi di Alfonso Berardinelli, Valeria Rossella (poetessa e traduttrice del libro), Giovanna Tomassucci (docente di Letteratura Polacca, Università di Pisa) in occasione della presentazione del Trattato poetico di Czesław Miłosz (Milano, Adelphi, 2012), tenutasi presso la “Fondazione del Fiore” di Firenze il 16 ottobre 2012, con il coordinamento di Maria Giuseppina Caramella. [per questo articolo si ringrazia di cuore la rivista “L’ospite ingrato”]

*

Valeria Rossella: Quando noi leggiamo, dico nella nostra stessa lingua, compiamo sempre un’opera di traduzione, leggere non è mai un atto puro. La traduzione da un’altra lingua non è che l’aspetto macroscopico di questa contaminazione, pensiamo soltanto a come esista un unico originale, e tante traduzioni, in tempi e in lingue diverse. La traduzione, e soprattutto quella poetica, è dunque un sosia, ma non una copia: un gemello, che vive di vita propria. Quando si affronta un testo scritto in una lingua molto lontana dalla propria, aumenta esponenzialmente la responsabilità del traduttore che diviene, per il lettore, l’unica voce del poeta. In questo caso si tratta di affrontare con la splendida, ma anche ingombrante armatura della sintassi italiana, la duttile e sgusciante sinuosità di una lingua slava. Miłosz qui usa l’endecasillabo, tranne che in alcuni frammenti, io ho pensato di adottare una misura elastica, che si sviluppa modulandosi dal doppio settenario all’endecasillabo. Del resto anche il verso libero non è mai libero veramente, poiché mantiene dentro una sintassi aliena, che è il respiro della poesia.

Il Trattato poetico è un grande affresco epico-storico (siamo in un’altra dimensione rispetto ai cammei perfetti della Szymborska). È un saggio-racconto-poema con ampi e potenti squarci lirici in cui i singoli destini sono sbalzati ad altorilievo su questo magma che li produce.

La poesia di Miłosz è arditamente anti-novecentesca nel tono gnomico che spesso assume, nel suo rifiutare il narcisismo, l’astrazione formale, l’estetica del dolore. Più volte Miłosz dichiara di non amare la poesia confessionale, l’espressione esclusiva di stati d’animo, individuando anzi come caratteristica fondamentale della poesia polacca il suo essere in costante connubio con la storia. Da questa radice nasce la vocazione del letterato a essere voce corale e guida, come Mickiewicz, e a proporre il modello dantesco del poeta come testimone.

Nel Trattato troviamo il ruolo del poeta come testimone e rabdomante:

Saranno i poeti i tuoi bastioni,
segno che l’unica patria è nella lingua. (p. 24)
.
In Polonia il poeta è un barometro. (p. 29)
.
Il poeta sentinella nel buio (lo steso Miłosz)
.
In via Tamka il tacchettìo di una ragazza.
Cinguetta a mezza voce, camminano in due
su piazze erbose e la sentinella (tacendo invisibile
in una macchia d’ombra) presta orecchio
al loro fievole ridere nel lenzuolo del buio.
.
Non sa come reggere a tanta compassione.
Non sa come esprimere quel comune destino.
La piccola prostituta e l’operaio di Tamka.
Davanti a loro il terrore del sole che nasce.
.
E forse penserà più di una volta
cos’è stato di loro nei giorni e negli anni. (p. 33)
.
Non ama nemmeno, Miłosz, la poesia pura, mallarmeana per intenderci, tanto che spesso parla del «difetto dell’armonia» (skaza harmonii) come una gabbia a cui sfuggire. Già in Ars poetica?, un testo del ’68, inizia a formulare la teoria di una forma spuria:
.
Sempre ho desiderato una forma più capiente,
che non fosse né troppo poesia né troppo prosa.2
.

I libri successivi infatti saranno mobilissimi zibaldoni costituiti da testi poetici propri, brani di prosa, traduzioni, stralci di epistolario e così via.La poesia è del resto per Miłosz la ricostruzione di un ordine armonico in cui ogni esistenza trova la sua casa, al di là del tempo storico. Perché l’individuo è minacciato da una parte dallo Spirito della Storia che lo fa precipitare nell’obnubilamento della mente e in un sonno di pietra, dall’altra dalla Natura il cui unico interesse è il perpetuarsi della Specie.
La storia infatti è eraclitea, tutto scorre, ma la poesia è parmenidea: un eterno presente dove tutto è.

* * *

Di seguito si riporta la traduzione del frammento della III parte del Trattato poetico e di seguito il link di un video dello stesso Miłosz in una registrazione degli anni Settanta.

Lo spirito della Storia
.
La goffa lingua dei contadini slavi
a lungo rime fruscianti ha elaborato
per intonare alfine un canto anonimo
che si sente oggi ancora nell’aria tremolante,
là dove fra le palme sibilano spume bianche,
là dove l’aquila pescatrice tra le fredde
correnti del Labrador si tuffa, aratro
di splendore fra gli abeti del Maine.
Semplice era quel canto. Un madrigale, un tempo
cantato alle donzelle,
con l’accompagnamento di una viola,
suonava nella bella stagione
per la prima volta a ritroso. E questo è tutto.
.
L’inverno passerà
.

Ragazze ebree marciando esprimevano
l’unica gioia, la vendetta.
Sì, nottettempo le gru saran scacciate,
la neve secca non più ferirà la mano.
Sì, un ciottolo, roseo come labbra, scricchiolerà
sotto i piedi nel letto di un torrente.

Arriverà la primavera

Sì, gonfierà i tulipani un succo verde,
il maggiolino ronzando picchietterà sui vetri,
sì, il fidanzato intreccerà alla promessa sposa,
una corona di giovani foglie di quercia.

Su di noi la colpa

Su di noi. Perché adesso siam un corpo solo.
Non mie, ma nostre ossa e carne, nervi.
I nomi di Miriam, Sonia e Rachele
si spengono piano e gelano nell’aria.

Cresceva l’erba

Erba sconfitta dall’ironia del canto.

Cetrioli in salamoia nel barattolo
appannato con un gambo di aneto.
Sono eterni. E al mattino
schioccano nel focolare rami secchi.
Nella scodella zuppa e cucchiai di legno.
Zappe e canestri all’ingresso, sotto il muro,
là dove sta appollaiata la gallina.
E campi, ancora campi, interminabili.
Fino a Skierniewice distese piatte e nebbia.
E ancora nebbia e piatte distese giù fino agli Urali.
Su, non fermarti, lontano è il mezzogiorno.

Convoco infine in cerchio la gioventù alla moda
che indossa una stoffa di leggero nanchino
in abiti eleganti trascorriamo il mattino
e ci dilettiamo in conversazioni argute.

Sui campi di patate, sulla terra autunnale
scintilla, fiocco di neve, un aeroplano.
Volteggia, fa capriole in alto, sulle nubi.

Dite, parlate, su, cosa vi manca,
chi di voi ha fame, chi ha sete.

Non servono più grani amari di senape.
La poesia esige porcellane calde,
di una cerchia di Grazie affascinanti.
Un succo distillato da erbe greche e latine.
Fumando la pipa, vestendo stoffe di nanchino
lasciate che il poeta sogni ancora.
Casa di legno, ma con le fondamenta.

Là c’erano il Fedone, la Vita di Catone.
O se il venerdì in casa si accendevano
le candele sui candelabri che brillavano,
dai versetti di Daniele e di Isaia
il giovane per sempre serbava la lezione
su quando tacere o comporre versi.

Sulle alture di Nowogródek, un castello.

Servono acque chiara e colline boscose.
Un uomo qui mai dovrà difendersi.
Giacché circondato da un orizzonte vuoto
mai crederà di abitarne il centro. Sua sola
consigliera, l’ombra che con lui si muove.

Chi non è nato tra queste pianure
solcherà il mare, viaggerà via terra
sotto i meli lungo le rive del Weser
sotto i pini del Maine inseguendo il riflesso
dei fiumi neroverdi della patria,
come in una folla di visi stranieri
si insegue quell’unico volto, un tempo amato.

Mickiewicz è troppo difficile per noi,
Non è nostra la scienza dei signori o degli ebrei.
Abbiamo solo spinto un erpice o un aratro.
Era altra la musica ei giorni di festa.

O là là
i pastori per i campi
o là lì
i pastori sono qui
venite venite alla capanna
a vedere la Madonna
e Bartolo contadino
dirà un raccontino

I contrabbassi bussano, dal grosso ventre vibrano:

du du du
a maggio un omaggio
per il Signore Gesù
suoniamo orsù

Violini di tiglio pigolano flebili:

frin frin frin frin
suoniamo così
lallera lallera
da mane a sera

Il vecchio Bartolo soffia e comprime la zampogna:

Lirum la, lirum li,
per il piccino suoniamo così

A gara risponde il clarinetto:

dlin dlin dlin dle
per mamma e bebè

E dei contrabbassi l’accompagnamento:

Per Cristo Signore
a tutte le ore
suoniamo suoniamo

Sono passate tante cose, tante.
E se nessuna opera ci aiuta
verrà Czyżewski coi canti di Natale.
E i contrabbassi che han già vibrato, vibreranno.

Arrotolai il tabacco, leccando la cartina,
feci schermo al cerino col palmo della mano.
Perché non un’esca? Perché non l’acciarino?
Soffiava il vento. Sedevo a bordo campo,
pensando e ripensando. Accanto a me, patate. (pp. 45-49)

.
.
.

Tutte le citazioni, se non altrimenti indicato, sono tratte da Czesław Miłosz, Trattato poetico, Milano, Adelphi, 2012

*

Note:
1 C. Miłosz, Poesie, trad. it. di P. Marchesani, Milano, Adelphi, 1983, p. 118.
2 Ivi.

Czesław Miłosz,Trattato poetico (tavola rotonda sull’opera) – II parte

Czesław Miłosz,Trattato poetico 

Tavola rotonda: Alfonso Berardinelli, Valeria Rossella, Giovanna Tomassucci, 21 novembre 2012 – Vengono pubblicati – qui, su Il sasso nello stagno, divisi in tre parti – gli interventi di Alfonso Berardinelli, Valeria Rossella (poetessa e traduttrice del libro), Giovanna Tomassucci (docente di Letteratura Polacca, Università di Pisa) in occasione della presentazione del Trattato poetico di Czesław Miłosz (Milano, Adelphi, 2012), tenutasi presso la “Fondazione del Fiore” di Firenze il 16 ottobre 2012, con il coordinamento di Maria Giuseppina Caramella. [per questo articolo si ringrazia di cuore la rivista “L’ospite ingrato”]

*

Giovanna Tomassucci: Czesław Miłosz ha scritto il suo Trattato poetico dall’esilio, tra il dicembre ’55 e la primavera ’56. Nella difficile condizione di poeta senza pubblico, transfuga in una Francia ostile, negli anni precedenti si era soprattutto dedicato alla prosa con il saggio La mente prigioniera (1953), ritratto di vecchi amici convertiti allo Stalinismo, e il romanzo autobiografico La valle dell’Issa (1955). In quello stesso periodo si accingeva a scrivere uno dei suoi più bei libri, Europa familiare (1959, tradotto in italiano da Adelphi con il titolo La mia Europa), atto di amore verso la sua terra natale, la Lituania, crogiuolo di lingue e culture, che per l’Occidente continuava (ma oggi è forse diverso?) a essere una «regione nebulosa» su cui si «danno poche notizie e se mai errate».

Dopo la sua richiesta di asilo politico del 1951, molti compagni di un tempo lo avevano duramente bollato di tradimento. In patria il suo nome sarebbe rimasto all’indice quasi fino al conferimento del Nobel (1980). Per raggiungere i propri connazionali, a parte certe equilibristiche apparizioni (La valle dell’Issa verrà immediatamente confiscata dalle autorità ancor prima di uscire in libreria), potrà solo contare sulle edizioni dell’emigrazione di Parigi e Londra e più tardi sulle quelle samizdat’.

Ben diversa era stata la diffusione prima dell’esilio di un altro suo trattato in versi, il politico Trattato morale (1947, nel 2002 ne scriverà un terzo, il Trattato teologico) che aveva avuto grande eco tra migliaia di lettori che se lo erano trascritto a macchina dalla rivista «Twórczość» e passato di mano in mano.

Nel 1955 la Polonia si trovava in un momento di transizione cruciale: con la destalinizzazione e il tramonto definitivo del Realismo Socialista si era aperta la nuova, breve stagione del Disgelo. In agosto la rivista varsaviana «Nowa Kultura» aveva coraggiosamente stampato il manifesto antistalinista di Adam Ważyk, Poema per adulti, andato subito a ruba e presto tradotto in Occidente (in Italia da Franco Fortini su «Ragionamenti» [Dicembre 1956-Gennaio 1957], in Francia dal sartriano «Les Temps Modernes» [Février-Mars 1957]).

Nel Trattato poetico Miłosz continua a fare i conti con la conversione allo stalinismo degli intellettuali polacchi: alcuni di loro (come il poeta Gałczyński, il Delta della Mente prigioniera, che lo aveva ferocemente attaccato per la sua richiesta di asilo politico) verranno effigiati nella II parte, La capitale. Per individuare le radici della fascinazione del comunismo arretra nel tempo, indagando il mito del Progresso, tanto diffuso non solo durante la Belle Époque e gli anni Venti, ma anche tra le generazioni che attraverso varie e opposte ideologie hanno creduto nel senso e nell’opera di riscatto della Storia. Così facendo il poeta (che in seguito diverrà professore di Letterature slave a Berkeley e pubblicherà una Storia della letteratura polacca) scopre una linea che accomuna i più diversi movimenti poetici: il Simbolismo, le avanguardie e i giovani poeti martiri della Resistenza.

Il poema è infatti anche un repertorio critico della poesia polacca della prima metà del Novecento e insieme un ambizioso progetto di rivisitazione dei generi della poesia per renderne elastici i confini. Per un poeta polacco un’operazione simile è in qualche modo più naturale, perché può fare riferimento a una ricca tradizione otto-novecentesca di drammi in versi e poemi dal carattere filosofico o narrativo.

Ma Miłosz è anche un grande estimatore della poesia anglosassone. Nell’abisso della Polonia occupata da nazisti e sovietici era stato il primo a tradurre la Waste Land, e proprio Eliot aveva costituito per lui una sorta antidoto alla retorica patriottica dei giovani poeti della Resistenza. Se il Trattato si ispira alla tradizione dei Didactic poems e in particolare all’Essay on rime di Karl Shapiro (che Miłosz aveva invano cercato di pubblicare in patria), vi si potrebbe anche cogliere un’impronta eliotiana: costituisce infatti un materiale composito, frammentario, ma intellettualmente compatto, dalle molteplici voci e dalla spiccata vena satirica. I suoi ritratti dei poeti polacchi del Novecento sono fulminanti, spesso crudeli, con il retrogusto dell’aforisma. L’Ars poetica si veste qui da pastiche, alterna leggende, fiabe e aneddoti, micronarrazioni, particolari autobiografici (la guerra, l’incontro con la natura selvaggia dell’America), digressioni filosofiche e poetiche, canzoni e citazioni poetiche. La registrazione degli anni ’70 che ascolteremo fra poco, in cui lo stesso Miłosz legge un frammento della III parte del Trattato, ce lo farà parzialmente intuire. Vi si avvicendano due motivi musicali, l’uno legato alla Shoah (il canto di un gruppo di ragazze ebree condotte sul luogo di esecuzione), l’altro al folklorismo di certa poesia polacca degli anni Venti (le scoppiettanti onomatopee di un’orchestrina ambulante della poesia di Tytus Czyżewski Canto di Natale, rivisitate da Miłosz in maniera bonariamente satirica). A essi si aggiungono le citazioni di versi del romantico Adam Mickiewicz.

In questa personale galleria omissioni e silenzi non sono meno importanti dei richiami. Lo stesso Miłosz – la cui opera aveva pur costituito una svolta importante fin dai primi anni Trenta – è qui presente non come poeta, ma come “sentinella” (II parte), testimone o anonimo osservatore della Storia (III parte, Lo spirito della Storia) e della Natura (IV parte, La natura). Nel Trattato è assente anche la poesia del secondo dopoguerra, quasi che l’avvento dello Stalinismo e del Realismo socialista, movimento antipoetico per eccellenza, abbia costituito un’insormontabile cesura. Manca lo stesso recentissimo Poema per adulti di A. Ważyk, che pur allora andava destando scalpore in Polonia e in Europa. Miłosz manifesta così il suo scetticismo nei confronti del Disgelo (Ważyk stesso era stato fino a poco prima uno dei più accaniti sostenitori dello stalinismo in Polonia) e dichiara necessaria una profonda riflessione critica.

Lo scopo del Trattato è infatti la ricerca di una nuova collocazione identitaria della poesia, non solo di quella polacca… E anche quella, più ardita, di nuove forme e generi poetici, che non siano «né troppo poesia né troppo prosa» – come scriverà anni dopo nella sua splendida poesia Ars poetica?

Con la fine dello stalinismo, dopo compromissioni ed evasioni – si chiede – la poesia può forse rivendicare un ruolo etico? Denunciare (o addirittura contrastare) i demoni della Storia?

La risposta non può che essere affermativa. Figlio di una cultura che da tempo aveva riservato ai poeti la guida spirituale della nazione, Miłosz delega la poesia a intrattenere un legame profondo (e ambivalente) con Storia e Natura, rappresentate nel Trattato come figure demoniache. Lo Spirito della Storia, che affascinerà Brodskij, viene qui raffigurato in maniera surrealisticamente orrifica: in frac, simbolo della sua appartenenza alla civiltà, ma con al collo una collana di teste rinsecchite, da idolo primitivo.

Legata strettamente ai demoni della Storia, la poesia si rivela così prossima allo spiritismo, all’esorcismo e alla magia, come verrà dichiarato qualche anno dopo nella già citata Ars poetica?:

Nell’essenza stessa della poesia c’è qualcosa di indecente:
sorge da noi qualcosa che non sapevamo ci fosse,
sbattiamo quindi gli occhi come se fosse sbalzata fuori una tigre,
ferma nella luce, sferzando la coda sui fianchi.
.
Perciò giustamente si dice che la poesia è dettata da un daimon,
benché sia esagerato sostenere che debba trattarsi di un angelo.
È difficile comprendere da dove venga quest’orgoglio dei poeti,
se sovente si vergognano che appaia la loro debolezza.
.
Quale uomo ragionevole vuole essere dominio dei demoni
che si comportano in lui come in casa propria, parlano molte lingue,
e quasi non contenti di rubargli le labbra e la mano
cercano per proprio comodo di cambiarne il destino?
.
[…]L’utilità della poesia sta nel ricordarci
quanto sia difficile rimanere la stessa persona,
perché la nostra casa è aperta, la porta senza chiave
e ospiti invisibili entrano ed escono.Ciò di cui parlo non è, d’accordo, poesia,
perché è lecito scrivere versi di rado e controvoglia,
spinti da una costrizione insopportabile e solo con la speranza
che spiriti buoni, non maligni, facciano di noi il loro strumento.1

.

Il rapporto della poesia, “dominio dei demoni”, con la demoniaca Storia non può quindi dirsi di tipo astratto o intellettuale. Tra le due si instaura un rapporto doloroso, ma produttivo. Nell’Ode finale esso si manifesta nella fantasmagorica «bufera che ha soffocato la strofe di Orazio» (p. 66), nella I e II parte invece sotto le forme di un incessante dialogo con i poeti del passato, in una sorta di rito di evocazione dei morti, simile a quello già messo in scena in due basilari drammi in versi polacchi: la IV parte degli Avi (1822) di Mickiewicz e Le nozze (1901) del simbolista Wyspiański, entrambi apertamente citati nel Trattato.Cercando di aprire vie nuove alla poesia, Miłosz dialoga con i suoi maestri, con gli amici e oppositori della giovinezza, lasciando aperta l’ancora incerta questione della poesia del proprio tempo…

Mi piace infine ricordare che in quello stesso 1957, anno in cui apparve il Trattato poetico, in Polonia usciranno le opere di due grandi protagonisti della poesia polacca: Ermes, il cane e la stella di Zbigniew Herbert e Appello allo Yeti di Wisława Szymborska.

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Tutte le citazioni, se non altrimenti indicato, sono tratte da Czesław Miłosz, Trattato poetico, Milano, Adelphi, 2012

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Note:
1 C. Miłosz, Poesie, trad. it. di P. Marchesani, Milano, Adelphi, 1983, p. 118.
2 Ivi.

Czesław Miłosz,Trattato poetico (tavola rotonda sull’opera) – I parte

Czesław Miłosz,Trattato poetico 

Tavola rotonda: Alfonso Berardinelli, Valeria Rossella, Giovanna Tomassucci, 21 novembre 2012 – Vengono di seguito pubblicati – qui, su Il sasso nello stagno, in tre parti pubblicate in tre giorni consecutivi – gli interventi di Alfonso Berardinelli, Valeria Rossella (poetessa e traduttrice del libro), Giovanna Tomassucci (docente di Letteratura Polacca, Università di Pisa) in occasione della presentazione del Trattato poetico di Czesław Miłosz (Milano, Adelphi, 2012), tenutasi presso la “Fondazione del Fiore” di Firenze il 16 ottobre 2012, con il coordinamento di Maria Giuseppina Caramella. [per questo articolo si ringrazia di cuore la rivista “L’ospite ingrato”]

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Alfonso Berardinelli: È certo (e non sono io a decretarlo) che il Trattato poetico di Miłosz è uno dei poemi più potenti e labirintici del Novecento, un’opera audace e insolita che non sa ancora dire se ha segnato un’epoca della poesia europea o ne ha aperta una nuova. Probabilmente tutte e due le cose: il bilancio del Novecento che viene compiuto nelle sue pagine, una tappa dopo l’altra, una dimensione contro un’altra, ha spinto l’autore alla costruzione di un modello formale che poteva avere, e forse non ha ancora avuto, un’influenza sulla poesia successiva, non solo polacca. Per fare un solo esempio, citerei, restando nel cuore dell’Europa, almeno i due ‘poemi saggistici’ di Hans Magnus Enzensberger, più giovane di Miłosz di quasi vent’anni e che esordì esattamente nel 1957, l’anno di pubblicazione del Trattato poetico. Sia con Mausoleum che con La fine del Titanic, entrambi degli anni Settanta, Enzensberger uscì dai limiti della composizione breve e sperimentò il poema storico, fra narrazione e interpretazione. Contro una poetica che era sembrata dominante, ma che non esauriva certo le potenzialità dello stile moderno, Miłosz abolisce i confini tematici e linguistici della poesia; non solo perché le vicende e le tragedie storiche si impongono ai poeti, ma perché il linguaggio poetico, con la sua duttilità, varietà di registri e capacità di condensazione può essere uno strumento conoscitivo ed espressivo almeno altrettanto efficace della narrativa e della saggistica. Nella rappresentazione di un’intera epoca, Trattato poetico è un ossimoro, sovrappone e fonde due generi letterari distanti, disparati, facendo uscire la poesia dai suoi confini più convenzionali.

Mi sono inoltrato senza strumenti, armato solo della mia curiosità, nella lettura di quest’opera, per capire come sia possibile e come possa funzionare un poema epico scritto dopo la metà del secolo scorso. L’ho letto nella traduzione, che mi sembra ammirevole, di Valeria Rossella, che fa intuire (e questo è un pregio) difficoltà spesso insormontabili del testo originale. Una buona traduzione credo che debba saper alludere a quanto c’è di irraggiungibile nell’originale. Una traduzione che sa alludere, traduce l’intraducibile, indica una distanza incolmabile.

L’opera è di una complessità, energia e originalità che intimidiscono e travolgono il lettore non specialista di Miłosz, trascinandolo tuttavia in una specie di stato ipnotico. Fa parte dell’opera anche un apparato di note insolitamente esteso, redatto dall’autore stesso, che nella apparente modestia esplicativa integra i versi, estendendone l’effetto narrativo e intellettuale e potenziandone perfino l’impatto emotivo. Così lo stato ipnotico, indotto nel lettore dall’eccezionale potenza evocativa, simbolica, descrittiva e aforistica dei versi, si trasforma in qualcosa che oscilla tra il visionario, il cronistico e l’allegorico. Nella poesia di Miłosz quest’oscillazione è frequente, anzi è caratteristica. Fa parte della sua poetica non trascendere gli eventi, affrontare i fenomeni; senza per questo evitare quell’ampliamento speculativo che istituisce una terza dimensione: allegorica o mitica o contemplativa.

Si può avere l’impressione che l’autore proceda a volte per semplice linearità descrittiva o paratattica, a volte per libere associazioni oniriche e surreali. Ma poi ci si rende conto che al di là dell’accostamento e dall’urto di materiali e strati semantici eterogenei si stende un fitto tessuto di meditazioni e letture sul senso della Storia e sulle operazioni della Natura: fra cronache d’epoca, autobiografia, simbolismo esoterico, filosofia e storia del Novecento.

Miłosz ha letto sia Hegel che Linneo, sia il teosofo settecentesco Emanuel Swedenborg che Marx. È stato influenzato negli anni Trenta da Yeats, Eliot e forse da Auden; ma prima soprattutto dall’enigmatico profetismo di William Blake, a sua volta influenzato del neoplatonismo e dalla Bibbia.

Lo stile poetico di Miłosz si presenta perciò stratificato e dilatato in più direzioni e dimensioni che convivono in un insieme sconcertante di intarsi e impulsi dinamici, sia tragici che vitalistici. Gli orrori storici (le spartizioni e occupazioni tedesche e russe della Polonia, la Shoah) invadono la natura, la sconvolgono, la avvelenano. Ma le potenze metamorfiche della Natura non si fermano: continuano a estrarre caparbiamente dalla morte materia per una nuova vita.

È questa sfrenatezza eclettica e sincretistica, capace di mescolare, al di là di ogni coerenza, sistemi culturali eterogenei, ciò che permette a Miłosz di elaborare un linguaggio poetico, un pensiero, una percezione polimorfica della realtà che nessuno sgomento riesce a depauperare e paralizzare.

Il Trattato poetico è diviso cronologicamente e tematicamente in quattro parti. Nella prima (Bei tempi) torniamo nella Cracovia colta, sofisticata e frivola della Belle Époque, tra caffè affollati di artisti d’avanguardia, musica all’aperto e fuga di emigranti verso le città industriali del Nord America.

Nella seconda (La capitale) siamo a Varsavia tra il 1918 e il 1939, l’anno dell’invasione nazista. Con la terza e quarta sezione entrano in scena le due dimensioni manifestamente contrapposte e segretamente comunicanti: Lo Spirito della Storia (Varsavia 1939-1949, da Hitler a Stalin) e La Natura (Pennsylvania 1948-1949). Il tono della nota scritta da Miłosz per introdurre questa ultima parte è sdrammatizzante. Finalmente lontani dalle tragedie europee e polacche, l’America è un altro mondo e un’altra vita (tema non banale, che si ritrova in Nabokov e in Singer). Miłosz parla di sé in terza persona:

‘Il sole è qui. Chi, ‘Mentre nel capitolo precedente il narratore si confrontava con eventi storici e decisioni politiche, qui cerca di dimenticare per un attimo l’Europa stretta nella morsa di forze demoniache, e di ritrovare un certo equilibrio osservando la natura e l’eterno succedersi delle stagioni. (p 105)
.
Là è il nostro inizio. Inutile schermirsi,
inutile ricordare antiche Età dell’Oro.
È meglio accettare e riappropriarsi
del baffo impomatato insieme alla bombetta,
del tintinnio di catenelle in similoro.Riappropriarsi dei canti intonati
nei neri borghi industriali
reggendo il boccale della birra.
Alzarsi all’alba, dodici ore lavorare,
nel fumo creare progresso e ricchezza.Piangi, Europa, aspettando una carta d’imbarco.
Una sera, a dicembre, nel porto di Rotterdam
starà silenziosa la nave di emigranti.
Sotto pennoni diacci, come pini innevati,
sgorgano litanie in qualche idioma
contadino, sloveno o polacco.Colpita da un proiettile, prende a suona una pianola.
Nella taverna quadriglie per coppie scalmanate. (p. 16)

Là dove il vento porta il fumo del crematorio
e viene il suono dell’Angelus dai campi
lo Spirito della Storia si aggira sibilando.
Ama queste contrade lavate dal diluvio
informi da allora e da allora pronte.
Gli piace una gonna che brilla fra le siepi
Così in Polonia, come in Arabia o in India.

Allarga in cielo le sue spesse dita.
Sotto il palmo disteso in bici se ne va
chi organizza reti di sicurezza,
il delegato del partito militare a Londra.
Pioppi, minuti come segale in un baratro
conducono dal bosco al tetto di un castello,
là, in sala da pranzo seduti intorno a un tavolo
ragazzi stanchi con indosso gli stivali. Agli staffieri
dai cespugli cade la polvere sui baffi.

Già lo vide e riconobbe il poeta, è il nume
peggiore cui è soggetto il tempo, ed i destini
di effimeri reami la cui durata è un giorno.
Il suo viso è come dieci lune,
al collo una catena di teste ora spiccate.
Chi non lo riconosce, toccato da una verga,
inizia a balbettare perdendo la ragione.
Chi gli s’inchina sarà soltanto un servo,
il suo nuovo padrone lo disprezzerà.

O liuti e broli e corone d’alloro!
O dame, o principi mitrati, dove siete!
Vi si poteva compiacere con l’adulazione,
afferrando
la borsa di monete d’oro
con un abile guizzo. Lui vuole di più. Vuole
la carne e il sangue. (pp. 38-39)

La Natura:
.
Il sole è qui. Chi, bambino, ha creduto
basti comprendere lo schema dell’azione per infrangere
il replicarsi delle cose è umiliato,
marcisce nella pelle altrui, per i colori
di una farfalla ha muta ammirazione
priva di forma e all’arte ostile.Perché non cigolassero i remi negli scalmi
li avvolgevo in un fazzoletto. L’oscurità scendeva
dalle Rocky Mountains, dal Nebraska e Nevada,
radunando in sé i boschi di tutto il continente.
Le braci del cielo, una nuvola acre,
e i voli degli aironi, gli alberi della torbiera,
le frasche secche, illividite e nere. Dispersa dal canotto
l’aerea utopia delle zanzare ricomponeva
i propri castelli rutilanti. Frusciò l’ombra
della ninfea affondata dalla chiglia.È notte ormai, si fa cinerea l’acqua.
Suonate, musiche, ma impercettibili
come il ronzio dell’orologio, perché aspetto.
Il mio centro è la tana del castoro.
L’acqua del lago s’increspava, arata in cerchio
dalla nera luna di una bestia salita
dall’abisso, gorgogliante di metano.
Non sono immateriale né mai lo sarò.
Uno sguardo incorporeo, no, non m’appartiene. (pp. 54-55)
Alla fine è dunque l’energia vitale della natura indomabile, madre di tutti i simboli magici e metafisici, a vincere la sinistra superbia dello Spirito della Storia, invenzione umana. Il più deciso, efficace disprezzo che meritano le tragedie storiche è quello che viene dunque dalla contemplazione della Natura e della sua inesauribile varietà:
.
Solo la rosa, simbolo sessuale
o di amore e bellezza ultraterrena,
apre un abisso che mai conosceremo a fondo. (p. 60)
.
Dunque:
.
Perché non scrivere un’ode all’antica
sul ciclo delle stagioni dettato dalle stelle,
seduti a un rozzo tavolo in campagna,
scacciando uno scarabeo con il pennino? (p. 61).
.
*
.
.Tutte le citazioni, se non altrimenti indicato, sono tratte da Czesław Miłosz, Trattato poetico, Milano, Adelphi, 2012

Wisława Szymborska, Il cielo

Wisława Szymborska, Il cielo (da Vista con granello di sabbia, Adelphi)

Da qui si doveva cominciare: il cielo.
Finestra senza davanzale, telaio, vetri.
Un’apertura e nulla più,
ma spalancata.

Non devo attendere una notte serena,
né alzare la testa,
per osservare il cielo.
L’ho dietro a me, sottomano e sulle palpebre.
Il cielo mi avvolge ermeticamente
e mi solleva dal basso.

Perfino le montagne più alte
non sono più vicine al cielo
delle valli più profonde.
In nessun luogo ce n’è più
che in un altro.
La nuvola è schiacciata dal cielo
inesorabilmente come la tomba.
La talpa è al settimo cielo
come il gufo che scuote le ali.
La cosa che cade in un abisso
cade da cielo a cielo.

Friabili, fluenti, rocciosi,
infuocati e aerei,
distese di cielo, briciole di cielo,
folate e cumuli di cielo.
Il cielo è onnipresente
perfino nel buio sotto la pelle.

Mangio cielo, evacuo cielo.
Sono una trappola in trappola,
un abitante abitato,
un abbraccio abbracciato,
una domanda in risposta a una domanda.

La divisione in cielo e terra
non è il modo appropriato
di pensare a questa totalità.
Permette solo di sopravvivere
a un indirizzo più esatto,
più facile da trovare,
se dovessero cercarmi.
Miei segni particolari:
incanto e disperazione.

Czesław Miłosz, Inno

Czesław Miłosz , Inno 

Non c’è nessuno fra te e me.
Né pianta che attinge i succhi dal profondo della terra,
né animale, né uomo,
né vento che cammina fra le nuvole.

I più bei corpi sono vetro trasparente.
Le fiamme più ardenti acqua che lava i piedi stanchi
dei viaggiatori.

Gli alberi più verdi piombo fiorito nel cuore della notte.
L’amore è sabbia inghiottita da labbra aride.
L’odio una brocca salata offerta all’assetato.
Scorrete, fiumi; alzate le vostre mani,
città! Io, fedele figlio della terra nera, farò ritorno
alla terra nera,
come se la mia vita non fosse stata,
come se canzoni e parole create le avesse
non il mio cuore, non il mio sangue,
non il mio esistere,
ma una voce sconosciuta, impersonale,
solo lo sciabordio delle onde, solo il coro dei venti,
solo il dondolio autunnale
dei grandi alberi.

Non c’è nessuno fra te e me,
e a me è data la forza.
Le montagne bianche pascolano sulle pianure della terra,
vanno verso il mare, alla loro abbeverata,
soli sempre nuovi si inchinano
sulla valle del piccolo e stretto fiume dove sono nato.
Non ho saggezza, né talento, né fede,
ma ho avuto la forza, essa lacera il mondo.
Onda pesante mi infrangerò sulle sue rive
e me ne andrò, farò ritorno nei territori delle acque eterne,
e un’onda nuova ricoprirà di schiuma le mie orme.
Oscurità!

Tinta dal primo chiarore dell’alba,
come il polmone strappato da una bestia squarciata
ti dondoli, ti immergi.
Quante volte ho navigato con te
trattenuto nel mezzo della notte,
sentendo una voce sulla tua chiesa agghiacciata,
il grido dell’urogallo, il fruscio dell’erica,
e due mele brillavano sulla tavola
o le forbici aperte rilucevano –
– e noi eravamo simili:
mele, forbici, oscurità e io –
sotto la stessa, immobile,
assira, egiziana e romana
luna.

Si alternano le stagioni, uomini e donne si accoppiano,
i bambini nel dormiveglia fanno correre le mani sui muri,
disegnando terre oscure col dito bagnato nella saliva,
si alternano le forme, crolla ciò che sembrava invincibile.

Ma fra gli Stati sorgenti dal fondo dei mai,
fra le vie scomparse, al cui posto
si innalzeranno monti costruiti con un pianeta caduto,
contro tutto ciò che è passato, tutto ciò che passa,
si difende la giovinezza, limpida come pulviscolo solare,
né del bel né del male invaghita,
inviata sotto i tuoi immensi piedi,
perché tu la schiacci, la calpesti,
perché tu col tuo alito faccia muovere la ruota
e l’esile struttura tremi al suo movimento,
perché a lei tu dia fame, e agli altri sale, pane e vino.

Ancora non risuona la voce del corno
che chiama gli sbandati, chi giace nelle valli.
La ruota dell’ultimo carro ancora non rimbomba
sul suolo gelato.

Fra te e me non c’è nessuno.

Parigi, 1935
da Tre inverni – tratta da Poesie, a cura di Pietro Marchesani, Adelphi

Czesław Miłosz, Šeteniai (Lituania),1911 – Cracovia, 2004, poeta e saggista polacco, è stato, secondo Josif Brodskij “uno dei più grandi poeti del nostro tempo e forse il più grande”. Nel 1980 gli è stato conferito il Premio Nobel per la letteratura, con la seguente motivazione: «Who with uncompromising clear-sightedness voices man’s exposed condition in a world of severe conflicts.» («A chi, con voce lungimirante e senza compromessi, ha esposto la condizione dell’uomo in un mondo di duri conflitti.»)