
Czesław Miłosz,Trattato poetico
Tavola rotonda: Alfonso Berardinelli, Valeria Rossella, Giovanna Tomassucci, 21 novembre 2012 – Vengono di seguito pubblicati – qui, su Il sasso nello stagno, in tre parti pubblicate in tre giorni consecutivi – gli interventi di Alfonso Berardinelli, Valeria Rossella (poetessa e traduttrice del libro), Giovanna Tomassucci (docente di Letteratura Polacca, Università di Pisa) in occasione della presentazione del Trattato poetico di Czesław Miłosz (Milano, Adelphi, 2012), tenutasi presso la “Fondazione del Fiore” di Firenze il 16 ottobre 2012, con il coordinamento di Maria Giuseppina Caramella. [per questo articolo si ringrazia di cuore la rivista “L’ospite ingrato”]
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Alfonso Berardinelli: È certo (e non sono io a decretarlo) che il Trattato poetico di Miłosz è uno dei poemi più potenti e labirintici del Novecento, un’opera audace e insolita che non sa ancora dire se ha segnato un’epoca della poesia europea o ne ha aperta una nuova. Probabilmente tutte e due le cose: il bilancio del Novecento che viene compiuto nelle sue pagine, una tappa dopo l’altra, una dimensione contro un’altra, ha spinto l’autore alla costruzione di un modello formale che poteva avere, e forse non ha ancora avuto, un’influenza sulla poesia successiva, non solo polacca. Per fare un solo esempio, citerei, restando nel cuore dell’Europa, almeno i due ‘poemi saggistici’ di Hans Magnus Enzensberger, più giovane di Miłosz di quasi vent’anni e che esordì esattamente nel 1957, l’anno di pubblicazione del Trattato poetico. Sia con Mausoleum che con La fine del Titanic, entrambi degli anni Settanta, Enzensberger uscì dai limiti della composizione breve e sperimentò il poema storico, fra narrazione e interpretazione. Contro una poetica che era sembrata dominante, ma che non esauriva certo le potenzialità dello stile moderno, Miłosz abolisce i confini tematici e linguistici della poesia; non solo perché le vicende e le tragedie storiche si impongono ai poeti, ma perché il linguaggio poetico, con la sua duttilità, varietà di registri e capacità di condensazione può essere uno strumento conoscitivo ed espressivo almeno altrettanto efficace della narrativa e della saggistica. Nella rappresentazione di un’intera epoca, Trattato poetico è un ossimoro, sovrappone e fonde due generi letterari distanti, disparati, facendo uscire la poesia dai suoi confini più convenzionali.
Mi sono inoltrato senza strumenti, armato solo della mia curiosità, nella lettura di quest’opera, per capire come sia possibile e come possa funzionare un poema epico scritto dopo la metà del secolo scorso. L’ho letto nella traduzione, che mi sembra ammirevole, di Valeria Rossella, che fa intuire (e questo è un pregio) difficoltà spesso insormontabili del testo originale. Una buona traduzione credo che debba saper alludere a quanto c’è di irraggiungibile nell’originale. Una traduzione che sa alludere, traduce l’intraducibile, indica una distanza incolmabile.
L’opera è di una complessità, energia e originalità che intimidiscono e travolgono il lettore non specialista di Miłosz, trascinandolo tuttavia in una specie di stato ipnotico. Fa parte dell’opera anche un apparato di note insolitamente esteso, redatto dall’autore stesso, che nella apparente modestia esplicativa integra i versi, estendendone l’effetto narrativo e intellettuale e potenziandone perfino l’impatto emotivo. Così lo stato ipnotico, indotto nel lettore dall’eccezionale potenza evocativa, simbolica, descrittiva e aforistica dei versi, si trasforma in qualcosa che oscilla tra il visionario, il cronistico e l’allegorico. Nella poesia di Miłosz quest’oscillazione è frequente, anzi è caratteristica. Fa parte della sua poetica non trascendere gli eventi, affrontare i fenomeni; senza per questo evitare quell’ampliamento speculativo che istituisce una terza dimensione: allegorica o mitica o contemplativa.
Si può avere l’impressione che l’autore proceda a volte per semplice linearità descrittiva o paratattica, a volte per libere associazioni oniriche e surreali. Ma poi ci si rende conto che al di là dell’accostamento e dall’urto di materiali e strati semantici eterogenei si stende un fitto tessuto di meditazioni e letture sul senso della Storia e sulle operazioni della Natura: fra cronache d’epoca, autobiografia, simbolismo esoterico, filosofia e storia del Novecento.
Miłosz ha letto sia Hegel che Linneo, sia il teosofo settecentesco Emanuel Swedenborg che Marx. È stato influenzato negli anni Trenta da Yeats, Eliot e forse da Auden; ma prima soprattutto dall’enigmatico profetismo di William Blake, a sua volta influenzato del neoplatonismo e dalla Bibbia.
Lo stile poetico di Miłosz si presenta perciò stratificato e dilatato in più direzioni e dimensioni che convivono in un insieme sconcertante di intarsi e impulsi dinamici, sia tragici che vitalistici. Gli orrori storici (le spartizioni e occupazioni tedesche e russe della Polonia, la Shoah) invadono la natura, la sconvolgono, la avvelenano. Ma le potenze metamorfiche della Natura non si fermano: continuano a estrarre caparbiamente dalla morte materia per una nuova vita.
È questa sfrenatezza eclettica e sincretistica, capace di mescolare, al di là di ogni coerenza, sistemi culturali eterogenei, ciò che permette a Miłosz di elaborare un linguaggio poetico, un pensiero, una percezione polimorfica della realtà che nessuno sgomento riesce a depauperare e paralizzare.
Il Trattato poetico è diviso cronologicamente e tematicamente in quattro parti. Nella prima (Bei tempi) torniamo nella Cracovia colta, sofisticata e frivola della Belle Époque, tra caffè affollati di artisti d’avanguardia, musica all’aperto e fuga di emigranti verso le città industriali del Nord America.
Nella seconda (La capitale) siamo a Varsavia tra il 1918 e il 1939, l’anno dell’invasione nazista. Con la terza e quarta sezione entrano in scena le due dimensioni manifestamente contrapposte e segretamente comunicanti: Lo Spirito della Storia (Varsavia 1939-1949, da Hitler a Stalin) e La Natura (Pennsylvania 1948-1949). Il tono della nota scritta da Miłosz per introdurre questa ultima parte è sdrammatizzante. Finalmente lontani dalle tragedie europee e polacche, l’America è un altro mondo e un’altra vita (tema non banale, che si ritrova in Nabokov e in Singer). Miłosz parla di sé in terza persona:
‘Il sole è qui. Chi, ‘Mentre nel capitolo precedente il narratore si confrontava con eventi storici e decisioni politiche, qui cerca di dimenticare per un attimo l’Europa stretta nella morsa di forze demoniache, e di ritrovare un certo equilibrio osservando la natura e l’eterno succedersi delle stagioni. (p 105)
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Là è il nostro inizio. Inutile schermirsi,
inutile ricordare antiche Età dell’Oro.
È meglio accettare e riappropriarsi
del baffo impomatato insieme alla bombetta,
del tintinnio di catenelle in similoro.Riappropriarsi dei canti intonati
nei neri borghi industriali
reggendo il boccale della birra.
Alzarsi all’alba, dodici ore lavorare,
nel fumo creare progresso e ricchezza.Piangi, Europa, aspettando una carta d’imbarco.
Una sera, a dicembre, nel porto di Rotterdam
starà silenziosa la nave di emigranti.
Sotto pennoni diacci, come pini innevati,
sgorgano litanie in qualche idioma
contadino, sloveno o polacco.Colpita da un proiettile, prende a suona una pianola.
Nella taverna quadriglie per coppie scalmanate. (p. 16)
Là dove il vento porta il fumo del crematorio
e viene il suono dell’Angelus dai campi
lo Spirito della Storia si aggira sibilando.
Ama queste contrade lavate dal diluvio
informi da allora e da allora pronte.
Gli piace una gonna che brilla fra le siepi
Così in Polonia, come in Arabia o in India.
Allarga in cielo le sue spesse dita.
Sotto il palmo disteso in bici se ne va
chi organizza reti di sicurezza,
il delegato del partito militare a Londra.
Pioppi, minuti come segale in un baratro
conducono dal bosco al tetto di un castello,
là, in sala da pranzo seduti intorno a un tavolo
ragazzi stanchi con indosso gli stivali. Agli staffieri
dai cespugli cade la polvere sui baffi.
Già lo vide e riconobbe il poeta, è il nume
peggiore cui è soggetto il tempo, ed i destini
di effimeri reami la cui durata è un giorno.
Il suo viso è come dieci lune,
al collo una catena di teste ora spiccate.
Chi non lo riconosce, toccato da una verga,
inizia a balbettare perdendo la ragione.
Chi gli s’inchina sarà soltanto un servo,
il suo nuovo padrone lo disprezzerà.
O liuti e broli e corone d’alloro!
O dame, o principi mitrati, dove siete!
Vi si poteva compiacere con l’adulazione,
afferrando
la borsa di monete d’oro
con un abile guizzo. Lui vuole di più. Vuole
la carne e il sangue. (pp. 38-39)
La Natura:
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Il sole è qui. Chi, bambino, ha creduto
basti comprendere lo schema dell’azione per infrangere
il replicarsi delle cose è umiliato,
marcisce nella pelle altrui, per i colori
di una farfalla ha muta ammirazione
priva di forma e all’arte ostile.Perché non cigolassero i remi negli scalmi
li avvolgevo in un fazzoletto. L’oscurità scendeva
dalle Rocky Mountains, dal Nebraska e Nevada,
radunando in sé i boschi di tutto il continente.
Le braci del cielo, una nuvola acre,
e i voli degli aironi, gli alberi della torbiera,
le frasche secche, illividite e nere. Dispersa dal canotto
l’aerea utopia delle zanzare ricomponeva
i propri castelli rutilanti. Frusciò l’ombra
della ninfea affondata dalla chiglia.È notte ormai, si fa cinerea l’acqua.
Suonate, musiche, ma impercettibili
come il ronzio dell’orologio, perché aspetto.
Il mio centro è la tana del castoro.
L’acqua del lago s’increspava, arata in cerchio
dalla nera luna di una bestia salita
dall’abisso, gorgogliante di metano.
Non sono immateriale né mai lo sarò.
Uno sguardo incorporeo, no, non m’appartiene. (pp. 54-55)
Alla fine è dunque l’energia vitale della natura indomabile, madre di tutti i simboli magici e metafisici, a vincere la sinistra superbia dello Spirito della Storia, invenzione umana. Il più deciso, efficace disprezzo che meritano le tragedie storiche è quello che viene dunque dalla contemplazione della Natura e della sua inesauribile varietà:
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Solo la rosa, simbolo sessuale
o di amore e bellezza ultraterrena,
apre un abisso che mai conosceremo a fondo. (p. 60)
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Dunque:
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Perché non scrivere un’ode all’antica
sul ciclo delle stagioni dettato dalle stelle,
seduti a un rozzo tavolo in campagna,
scacciando uno scarabeo con il pennino? (p. 61).
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.Tutte le citazioni, se non altrimenti indicato, sono tratte da Czesław Miłosz, Trattato poetico, Milano, Adelphi, 2012