Jorge Luis Borges, due poesie da Elogio dell’ombra
IL LABIRINTO
Zeus non potrebbe sciogliere le reti
di pietra che mi stringono. Ho scordato
gli uomini che fui; seguo l’odiato
sentiero di monotone pareti
ch’è il mio destino. Dritte gallerie
che si curvano in circoli segreti,
passati che sian gli anni. Parapetti
in cui l’uso dei giorni ha aperto crepe.
Nella pallida polvere decifro
orme temute. L’aria m’ha recato
nei concavi crepuscoli un bramito
o l’eco d’un bramito desolato.
Nell’ombra un Altro so, di cui la sorte
è stancare le lunghe solitudini
che intessono e disfanno questo Ade
e bramare il mio sangue, la mia morte.
Ci cerchiamo l’un l’altro. Fosse almeno
questo l’ultimo giorno dell’attesa.
§
LE COSE
Le monete, il bastone, il portachiavi,
la pronta serratura, i tardi appunti
che non potranno leggere i miei scarsi
giorni, le carte da gioco e la scacchiera,
un libro e tra le pagine appassita
la viola, monumento d’una sera
di certo inobliabile e obliata,
il rosso specchio a occidente in cui arde
illusoria un’aurora. Quante cose,
atlanti, lime, soglie, coppe, chiodi,
ci servono come taciti schiavi,
senza sguardo, stranamente segrete!
Dureranno piú in là del nostro oblio;
non sapran mai che ce ne siamo andati.
*
da J.L.Borges, Elogio dell’ombra – trad. di Francesco Tentori Montalto, Einaudi, 1971
(immagine d’apertura: opera di Colleen-Corradi-Brannigan)
José Eduardo Degrazia, tre poesie da Pioggia Antica
LA NITIDEZZA DELLE COSE
Nel silenzio di casa, quando il legno si spezza,
aspetto i movimenti degli ingranaggi del tempo,
la manifestazione evidente della macchina del mondo,
le pale del mulino che macinano la farina dei giorni,
i denti che recidono la pelle della feroce esistenza,
lo scorrere dei minuti dell’orologio naufrago dei domani.
Il ronzio della mosca contro la sua immagine nel vetro.
Nel silenzio di casa, quando tremano i mobili
e oscillano gli elettrodomestici nel riflesso del vetro,
stridendo in un coro liturgico tra le monete
nitide sotto il sole e le pale che tritano emozioni,
e la puleggia che bisbiglia parole contro l’indifferenza,
il destino delle posate e piatti prigionieri, lentamente
si disfano in argilla e ruggine mortale.
Le cose muoiono senza panico mentre guardiamo
distratti il vento che solleva le tende della stanza.
Soltanto le cose sono nitide e hanno un’anima, e credono
nella vita eterna.
§
A NITIDEZ DAS COISAS
No silêncio da casa, quando as madeiras estalam, espero o movimento da engrenagem do tempo, a manifestação evidente da máquina do mundo, as pás do moinho moendo a farinha dos dias, os dentes trincando a pele da feroz existência, o rolar dos minutos no relógio náufrago da manhã, o zumbido da mosca contra sua imagem no vidro.
No silêncio da casa, quando estremecem os móveis e trepidam os eletrodomésticos nas redomas de vidro, zunindo em uníssono cantochão entre as moedas nítidas do sol e as moendas trituradoras de emoções, a polia que range a palavra contra a indiferença, o destino dos pratos e talheres prisioneiros, lentamente desfazendo-se em barro e mortal ferrugem.
As coisas morrem sem pânico enquanto olhamos distraídos o vento que levanta as cortinas da sala.
Só as coisas são nítidas e têm alma, e acreditam na vida eterna.
*
IL TAVOLO DELLA FAMIGLIA
Legno invecchiato dal tempo.
Resina impregnata di tempo.
Cosi il tavolo e la famiglia riunita,
e i rischi del coltello nella carne del legno,
e il vino versato, la macchia,
il sale, la lacrima, sole sul legno.
La mano che levigò il solco, la vena,
la mano graffiata dal tempo: legno.
Albero notturno caduto, abbattuto dall’ascia,
albero piantato dal tempo.
Seduti attorno al tavolo, il padre,
la madre, i figli: album di ritratti.
Il tavolo rimane in mezzo alla stanza:
o di più: ombre.
§
A MESA DA FAMÍLIA
Madeira crestada de tempo. Resina impregnada de tempo. Assim a mesa e a família reunida, e os riscos de faca no cerne da madeira, e o vinho derramado, a mancha, o sal, a lágrima, sol na madeira. A mão que alisou o sulco, o veio, a mão gretada de tempo: madeira. Árvore noturna caída, pelo machado abatida, árvore do tempo plantada. À volta da mesa sentados, o pai, a mãe, os filhos: álbum de retratos. A mesa permanece no meio da sala: o mais: sombras.
*
SILENZIO
Non pensare che questo silenzio
sia semplice assenza di voci,
c’è lo stupore del fiore che sboccia
abisso del passero notturno
che gratta furtivo lo specchio della memoria.
(Il silenzio è il seme di qualcosa di più antico.)
Nel silenzio l’esistenza attenua
una realtà di frutto.
Non pensare che questo silenzio
sia semplice assenza di voci.
§
SILÊNCIO
Não penses que este silêncio é simples ausência de vozes,
há o espanto da flor nascendo abismo de pássaro noturno
riscando o espelho furtivo da memória. (O silêncio é semente de algo mais antigo.)
No silêncio a vivência adelgaça uma realidade de fruto.
Não penses que este silêncio é simples ausência de vozes.
*
da Pioggia Antica: Antologia Poetica (a cura di Gaetano Longo, trad. di Iris Faion, Franco Puzzo Editore, Trieste, 2013). Poesie e nota bio-bibliografica tratte da “Fili d’aquilone num.38” — In apertura: opera fotografica di Francesca Woodman
*
José Eduardo Degrazia, poeta e narratore brasiliano, nonché medico oftalmologo, nasce a Porto Alegre nel 1951. È membro dell’Accademia Rio-Grandense di Lettere e ha pubblicato vari volumi di poesia, fra i quali Lavra Permanente (1975), Cidade Submersa (1979), A porta do sol (l982), O Amor essa Palavra (1982), Piano Arcano (1999), Três livros de poesia (antologia, 2002), A urna Guarani (2004), Um animal espera (2010), Corpo do Brasil (2011), A flor fugaz (2011), Nova Iorque – New York (2014). Ha dato alle stampe anche racconti, romanzi e libri per l’infanzia ed è presente in importanti antologie della poesia brasiliana contemporanea. In Italia sono uscite due raccolte, Lavoro Perenne (Trieste, 1996) e Pioggia antica (Franco Puzzo Editore, 2013), entrambe curate da Gaetano Longo. L’autore ha vinto prestigiosi premi in Brasile e all’estero, in Italia ha ricevuto nel 2013 il Premio Internazionale Trieste di Poesia. In lui, parallela alla genesi poetica, troviamo il certosino lavoro del traduttore di grandi scrittori, molti dei quali di lingua spagnola, come Pablo Neruda. È come se tra un libro e l’altro il poeta avesse bisogno di estraniarsi da se stesso, stabilendo un dialogo vivo con altri autori. Il contatto con poeti di lingua spagnola latinoamericani è probabilmente favorito non solo dalla posizione geografica della regione in cui è nato e cresciuto, al confine con l’Argentina, il Paraguay e l’Uruguay, ma anche dalla sua straordinaria apertura, curiosità e disponibilità ad accogliere l’altro, il che fa sì che rompa le frontiere tradizionali che da sempre separano gli scrittori di lingua portoghese da quelli di lingua spagnola, frontiera che si è proiettata dal Portogallo e dalla Spagna sulle loro colonie sudamericane e che dura fin quasi ai nostri giorni.
Pablo Neruda, da I versi del Capitano (PassigliPoesia)
Appena ti ho lasciata,
vieni con me, cristallina
o tremante,
o inquieta, da me ferita
o colmata d’amore, come quando i tuoi occhi
si chiudono sul dono della vita
che senza cessa ti affido. .
Amore mio,
ci siamo incontrati
assetati e ci siamo
bevuta tutta l’acqua e il sangue,
ci siam trovati
affamati
e ci siam morsi
come morde il fuoco,
lasciandoci ferite. .
Ma attendimi,
conservami la tua dolcezza.
Io ti darò anche
una rosa. .
Ho commesso il peggiore dei peccati
che un uomo possa commettere.
Non sono stato felice.
Che i ghiacciai dell’oblio
possano travolgermi e disperdermi, senza pietà.
I miei mi generarono per il gioco
rischioso e stupendo della vita,
per la terra, l’acqua, l’aria, il fuoco.
Li frodai. Non fui felice.
Realizzata non fu la giovane loro volontà.
La mia mente
si applicò alle simmetriche ostinatezze
dell’arte che intreccia inezie.
Ereditai valore. Non fui valoroso.
Non mi abbandona, mi sta sempre a lato
l’ombra d’essere stato un disgraziato.
*
Rimorso per qualsiasi morte
Libero dalla memoria e dalla speranza,
illimitato, astratto, quasi futuro,
il morto non è un morto: è la morte.
Come il Dio dei mistici,
al Quale si devono rifiutare tutti i predicati,
il morto ubiquamente estraneo
non è che la perdizione e assenza del mondo.
Tutto gli abbiamo rubato,
non gli abbiamo lasciato né un colore né una sillaba:
qui è il patio che non condividono più i suoi occhi,
là è il marciapiede dove fu in agguato la sua speranza.
Perfino ciò che pensiamo
potrebbe stare pensandolo anche lui;
ci siamo spartiti come ladri
il flusso delle notti e dei giorni.
per questi versi si ringrazia liosite.com — immagine d’apertura: Piet Mondrian, Albero grigio.
Tutta la notte ho dormito con te
vicino al mare, nell’isola.
Eri selvaggia e dolce tra il piacere e il sonno,
tra il fuoco e l’acqua.
Forse assai tardi
i nostri sogni si unirono,
nell’alto o nel profondo,
in alto come rami che muove uno stesso vento,
in basso come rosse radici che si toccano.
Forse il tuo sogno
si separò dal mio
e per il mare oscuro
mi cercava,
come prima,
quando ancora non esistevi,
quando senza scorgerti
navigai al tuo fianco
e i tuoi occhi cercavano
ciò che ora
– pane, vino, amore e collera –
ti dò a mani piene,
perché tu sei la coppa
che attendeva i doni della mia vita.
Ho dormito con te
tutta la notte, mentre
l’oscura terra gira
con vivi e con morti,
e svegliandomi d’improvviso
in mezzo all’ombra
il mio braccio circondava la tua cintura.
Né la notte né il sonno
poterono separarci.
Ho dormito con te
e svegliandomi la tua bocca
uscita dal sonno
mi diede il sapore di terra,
d’acqua marina, di alghe,
del fondo della tua vita,
e ricevetti il tuo bacio
bagnato dall’aurora,
come se mi giungesse
dal mare che ci circonda.
da I versi del Capitano (a cura di Giuseppe Bellini, Passigli Poesia)
Jorge Luis Borges, Giovanni 1,14 (da Elogio dell’ombra)
Non sarà questa pagina enigma minore
di quelle dei Miei libri sacri
o delle altre che ripetono
le bocche inconsapevoli,
credendole d’un uomo, non già specchi
oscuri dello spirito.
Io che sono l’È, il Fu e il Sarà
accondiscendo ancora al linguaggio
che è tempo successivo e simbolo.
Chi gioca con un bimbo gioca con ciò che è
prossimo e misterioso;
io volli giocare coi Miei figli.
Stetti fra loro con stupore e tenerezza.
Per opera di un incantesimo
nacqui stranamente da un ventre.
Vissi stregato, prigioniero di un corpo
e di un’umile anima.
Conobbi la memoria,
moneta che non è mai la medesima.
Il timore conobbi e la speranza,
questi due volti del dubbio futuro.
Ed appresi la veglia, il sonno, i sogni,
l’ignoranza, la carne,
i tardi labirinti della mente,
l’amicizia degli uomini,
la misteriosa devozione dei cani.
Fui amato, compreso, esaltato e sospeso a una croce.
Bevvi il calice fino alla feccia.
Gli occhi Miei videro quel che ignoravano:
la notte e le sue stelle.
Conobbi ciò ch’è terso, ciò ch’è arido,
quanto è dispari o scabro,
il sapore del miele e della mela
e l’acqua nella gola della sete,
il peso d’un metallo sul palmo,
la voce umana, il suono di passi sopra l’erba,
l’odore della pioggia in Galilea,
l’alto gridio degli uccelli.
Conobbi l’amarezza.
Ho affidato quanto è da scrivere a un uomo qualsiasi;
non sarà mai quello che voglio dire,
sarà almeno la sua eco.
Dalla Mia eternità cadono segni.
Altri, non questi ch’è il suo amanuense, scriva l’opera.
Domani sarò tigre fra le tigri
e dirò la Mia legge nella selva,
o un grande albero in Asia.
Ricordo a volte e rimpiango l’odore
di quella bottega di falegname.
.
.
*
Piero della Francesca, Resurrezione (immagine d’apertura)
La luce rosa di un’alba primaverile illumina il bianco dell’Appennino e la natura silente. In primo piano l’umanissima figura di Cristo. Nel corpo i segni della Passione, in mano il vessillo della Resurrezione. Un piede poggia sul bordo del sarcofago nell’atto di uscire: ha vinto la morte, simboleggiata dai quattro personaggi abbandonati nel sonno nella parte bassa della composizione. Tra loro, frontale rispetto allo spettatore, Piero si autoritrae. Quest’opera, considerata del tutto autografa ed eseguita tra il 1463 e il 1468 ad affresco da Piero di Benedetto de’ Franceschi, detto Piero della Francesca (1420 ca. – 1492), è ubicata nel Palazzo dei Conservatori di Sansepolcro (Arezzo), attuale sede del Museo Civico.
Cristo risorto emerge dal Santo Sepolcro, simbolo della città, stringendo con presa sicura lo stendardo crociato e poggiando saldamente il piede sul sarcofago dal quale si erge vincitore della morte, esprimendo, attraverso sembianze concretamente umane, la sua sovranità divina accentuata dalla fissità quasi inquietante dello sguardo. Il perno della composizione è costituito dalla figura del figlio di Dio ormai risorto, che divide in due parti il paesaggio: quello a destra rigoglioso e quello a sinistra morente, dove gli alberi, che a sinistra appaiono secchi, come in pieno inverno, a destra sono ritratti verdi, come in primavera, sottolineano l’inizio di un nuovo tempo nella storia dell’umanità.
Il pittore sceglie, invece, di ritrarre se stesso addormentato ai piedi del sarcofago, mentre all’asta del vessillo con la croce guelfa attribuisce il compito di tenerlo in diretto contatto con la divinità, come ad ispirare e ricordare il Piero politico, quando, consigliere comunale, sedeva nella stanza attigua all’affresco. (Giorgio Chiantini)
Julio Cortázar (1914-1984), due poesie da Le ragioni della collera
INCARICO
Non mi dar tregua, non perdonarmi mai.
Fustigami nel sangue, che ogni cosa crudele sia tu che ritorni.
Non mi lasciar dormire, non darmi pace!
Allora conquisterò il mio regno,
nascerò lentamente.
Non mi perdere come una musica facile, non essere carezza né guanto;
intagliami come una selce, disperami.
Conserva il tuo amore umano, il tuo sorriso, i tuoi capelli. Dalli pure.
Vieni da me con la tua collera secca, di fosforo e squame.
Grida. Vomitami arena nella bocca, rompimi le fauci.
Non mi importa ignorarti in pieno giorno,
sapere che tu giochi, faccia al sole e all’uomo.
Dividilo.
Io ti chiedo la crudele cerimonia del taglio,
ciò che nessuno ti chiede: le spine
fino all’osso. Strappami questa faccia infame,
obbligami a gridare finalmente il mio vero nome.
§
SE DEVO VIVERE
Se devo vivere senza di te, che sia duro e cruento,
la minestra fredda, le scarpe rotte, o che a metà dell’opulenza
si alzi il secco ramo della tosse, che latra
il tuo nome deformato, le vocali di spuma, e nelle dita
mi si incollino le lenzuola, e niente mi dia pace.
Non imparerò per questo a meglio amarti,
però sloggiato dalla felicità
saprò quanta me ne davi a volte soltanto standomi nei pressi.
Questo voglio capirlo, ma mi inganno:
sarà necessaria la brina dell’architrave
perché colui che si ripari sotto il portale comprenda
la luce della sala da pranzo, le tovaglie di latte, e l’aroma
dl pane che passa la sua mano bruna per la fessura.
Tanto lontano ormai da te
come un occhio dall’altro,
da questa avversità che assumo nascerà adesso
lo sguardo che alla fine ti meriti.
*
da Le ragioni della collera (Ed.Fahrenheit 451, trad. di Gianni Toti) — immagine d’apertura: Henri Rousseau, Il sogno
…per ricordare il mio Ghigo che da sei anni corre in altri prati luminosi, ripropongo…
ODE AL CANE di Pablo Neruda
Il cane mi domanda
ed io non rispondo.
Salta, corre pei campi e mi domanda
senza parlare
ed i suoi occhi
son due domande umide, due fiamme
liquide interroganti
ed io non rispondo,
non rispondo perché
non so e nulla posso dire.
In mezzo ai campi andiamo
uomo e cane.
Luccicano le foglie come
se qualcuno
le avesse baciate
ad una ad una,
salgono dal suolo
tutte le arance
a collocare
piccoli planetari
in alberi rotondi
come la notte e verdi,
ed uomo e cane andiamo
fiutando il mondo, scuotendo il trifoglio,
pei campi del Cile,
fra le limpide dita di settembre.
Il cane si arresta,
corre dietro api,
salta l’acqua inquieta,
ascolta lontanissimi
latrati,
orina su una pietra
e porta la punta del suo muso
a me, come un regalo.
Tenera impertinenza
per palesare affetto!
E fu a quel punto che mi chiese,
con gli occhi,
perché ora è giorno,
perché verrà la notte,
perché la primavera
non portò nel suo cesto
nulla
per cani vagabondi,
ma inutili fiori,
fiori ed ancora fiori.
Questo mi chiede
il cane
ed io non rispondo.
Andiamo avanti,
uomo e cane, appaiati
dal mattino verde,
dall’eccitante vuota solitudine
in cui solo noi
esistiamo,
questa coppia di un cane rugiadoso
ed io poeta del bosco,
perché non esistono
uccelli o fiori nascosti,
ma profumi e gorgheggi
per due compagni,
per due cacciatori compagni:
un mondo inumidito
dalle distillazioni della notte,
un tunnel verde e poi
una prateria,
una raffica di vento aranciato,
il sussurro delle radici,
la vita che cammina,
respira, cresce,
e l’antica amicizia,
la gioia
d’esser cane e d’esser uomo
tramutata
in un solo animale
che cammina movendo
sei zampe
ed una coda
con rugiada.
*
da Obras Completas, Editorial Losada, Buenos Aires 1973. (trad. Tomaso Pieragnolo e Rosa Gallitelli — versi e immagine d’apertura dal web)
Juana de Ibarbourou (Melo, Uruguay, 8 marzo 1892 – Montevideo, Uruguay, 15 luglio 1979) e Delmira Agustini (Montevideo, Uruguay, 24 ottobre 1886 – ivi, 6 luglio 1914): donne e poetesse sudamericane in due traduzioni ‘rigide’, che si attengono – per quanto possibile – al testo originale, cosa che le rende un po’ diverse, credo, dall’essere ‘letterali’.
§
La sed.
Tu beso fue en mis labios de un dulzor refrescante. Sensación de agua viva y moras negras me dio tu boca amante.
Cansada me acosté sobre los pastos con tu brazo tendido, por apoyo. Y me calló tu beso entre mis labios, como un fruto maduro de la selva o un lavado guijarro del arroyo.
Tengo sed, otra vez, amado mío. Dame tu beso fresco tal como una piedrezuela del río.
La sete.
Il tuo bacio penetrò le mie labbra con una dolcezza rinfrescante. Una sensazione di acqua viva e nere more mi diede la tua bocca amante.
Sfinita mi distesi sul prato col tuo braccio disteso, per appoggio. E mi tacque il tuo bacio tra le labbra mie come un frutto di bosco maturo o un ciottolo lavato dl torrente.
Ho sete, ancora, amor mio. Dammi il tuo bacio fresco come una pietruzza del fiume.
– Juana de Ibarbourou –
_______________________________
El intruso.
Amor, la noche estaba trágica y sollozante Cuando tu llave de oro cantó en mi cerradura; Luego, la puerta abierta sobre la sombra helante, Tu forma fue una mancha de luz y de blancura.
Todo aquí lo alumbraron tus ojos de diamante; Bebieron en mi copa tus labios de frescura, Y descansó en mi almohada tu cabeza fragante; Me encantó tu descaro y adoré tu locura.
Y hoy río si tú ríes, y canto si tú cantas; Y si tú duermes, duermo como un perro a tus plantas, Hoy llevo hasta en mi sombra tu olor de primavera;
Y tiemblo si tu mano toca la cerradura; ¡Y bendigo la noche sollozante y oscura Que floreció en mi vida tu boca tempranera!
L’intruso.
Amore, la notte era tragica e singhiozzante quando la tua chiave d’oro cantò nella mia serratura; poi, la porta aperta sull’ombra agghiacciante, la tua forma fu una macchia di luce e di candore.
Tutto illuminarono i tuoi occhi di diamante; bevvero dal mio calice le tue labbra di frescura, e riposò sul mio cuscino il tuo capo fragrante; mi incantò la tua insolenza e adorai la tua follia.
E oggi rido se tu ridi, e canto se tu canti; e se dormi, dormo come un cane ai tuoi piedi, oggi che anche nella mia ombra porto il tuo odore di primavera;
E tremo al tocco della tua mano sulla serratura; E benedico la notte singhiozzante e oscura che lasciò fiorire nlla mia vita la tua bocca mattiniera.