Peppino Impastato, versi da Amore Non Ne Avremo

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E venne a noi un adolescente

dagli occhi trasparenti

e dalle labbra carnose,

alla nostra giovinezza

consunta nel paese e nei bordelli.

non disse una sola parola

né fece gesto alcuno;

questo suo silenzio

e questa sua immobilità

hanno aperto una ferita mortale

nella nostra consunta giovinezza.

Nessuno ci vendicherà;

la nostra pena non ha testimoni.

*

da Amore Non Ne Avremo, Poesia e immagini di Peppino Impastato

a cura di Guido Orlando e Salvo Vitale, Navarra Editore 2008

(versi a centro-pagina come sul testo) – http://www.peppinoimpastato.com/poesiedipeppino.htm

*

Giuseppe Impastato, nato a Cinisi (PA) il 5 gennaio 1948, “Peppino”, è stato un giornalista, attivista e poeta italiano, membro di Democrazia Proletaria e noto per le sue denunce contro le attività di Cosa Nostra, a seguito delle quali fu assassinato il 9 maggio 1978.

A proposito di Carnevale…

Carnevale, senza nessun dubbio, festa nazionale!
Ormai non si distingue più se maschera o reale…
Il pensiero, invece, va a chi in ogni caos mostra
quel che di vero rimane in questa folle giostra
lontano dalla calca, dalle luci e dai riflettori,
in un silenzio che parla direttamente ai cuori
.
*
.
.
Pierrot
di Paul Verlaine
.
………………………………..a Léon Valade.
.
Non è più il sognatore lunare della vecchia aria
che rideva agli avi da sopra gli stipiti:
la sua allegria, come la sua candela, ahimè! è morta,
e oggi il suo spettro ci ossessiona, sottile e chiaro.
Ed ecco, nel terrore di un lungo lampo,
la sua pallida blusa scossa dal freddo vento
sembra un sudario, e a bocca spalancata
pare ch’egli stia urlando per i morsi del verme.
Col rumore d’un volo d’uccelli notturni,
le sue maniche bianche fanno vagamente nello spazio
folli segnali cui nessuno risponde.
Gli occhi sono due grandi buchi dove striscia
del fosforo, e la farina fa ancor più spaventosa
la faccia esangue dal naso aguzzo di moribondo.
.
.
.
La trombettina
di Corrado Govoni
.

Ecco che cosa resta
di tutta la magia della fiera:
quella trombettina
di latta azzurra e verde
che suona una bambina
camminando scalza per i campi.
Ma in quella nota sforzata,
ci son dentro i pagliacci bianchi e rossi,
c’è la banda d’oro rumorosa,
la giostra coi cavalli, l’organo, i lumini,
come nello sgocciolare d’una grondaia
c’è tutto lo spavento della bufera,
la bellezza dei campi e dell’arcobaleno
nell’umido cerino d’una lucciola
che si sfa sopra una foglia di brughiera
tutta la meraviglia della primavera.

.

Il vestito di Arlecchino
di Gianni Rodari
.

Per fare un vestito ad Arlecchino
ci mise una toppa Meneghino,
ne mise un’altra Pulcinella,
una Gianduia, una Brighella.
Pantalone, vecchio pidocchio,
ci mise uno strappo sul ginocchio,
e Stenterello, largo di mano
qualche macchia di vino toscano.
Colombina che lo cucì
fece un vestito stretto così.
Arlecchino lo mise lo stesso
ma ci stava un tantino perplesso.
Disse allora Balanzone,
bolognese dottorone:
Ti assicuro e te lo giuro
che ti andrà bene il mese venturo
se osserverai la mia ricetta:
un giorno digiuno e l’altro bolletta!

.

Carnevale, ogni scherzo vale
di Gianni Rodari
.
Mi metterò una maschera
da Pulcinella
e dirò che ho inventato
la mozzarella.
Mi metterò una maschera
da Pantalone,
dirò che ogni mio sternuto
vale un milione.
Mi metterò una maschera
da pagliaccio,
per far credere a tutti
che il sole è di ghiaccio.
Mi metterò una maschera
da imperatore,
avrò un impero
per un paio d’ore:
per volere mio dovranno
levarsi la maschera
quelli che la portano
ogni giorno dell’anno…
E sarà il Carnevale
più divertente
veder la faccia vera
di tanta gente.
.
Immagini, in apertura: Martedì grasso di Paul Cézanne, 1888; al centro:  L’entrata di Cristo a Bruxelles (dettaglio) di James Ensor, 1888; in chiusura: Arlecchino seduto di Pablo Picasso, 1923.
.

Due poesie di Emily Dickinson

Due poesie di Emily Dickinson 

*

La Vita che abbiamo è certo grande.
La Vita che vedremo
La sorpassa, si sa, perché
È Infinità.
Ma quando ogni spazio è stato osservato
E ogni Dominio mostrato
L’estensione del più piccolo Cuore Umano
La riduce a nulla.

~

Colpita, fui, ma non dal Fulmine –
Il Fulmine – sopprime
Il Potere di percepire il Suo Processo
Con il Vigore –

Mutilata – fui – eppure non dal Caso –
Da Pietra di Stupido Ragazzo –
Né da Incertezza di Cacciatore –
Chi il mio Nemico?

Derubata – fui – inviolata da Bandito –
La Magione tutta devastata –
Il Sole – sottratto alla Percezione –
L’estremo bagliore – sparito –

Eppure non ero nemica – di nessuno –
Non il più piccolo Uccello
Del vicino frutteto abitatore
Era di Me – timoroso –

Più di tutte – amo la Causa che Mi uccise –
Ogni volta che muoio
La sua amata Percezione
Mantiene un Sole su di Me –

Più bello – al Tramonto – com’è sua Natura –
Né io né te lo vedremo Sorgere
Fino all’Infinita Aurora
Negli Occhi dell’Altro –

http://www.emilydickinson.it

AA.VV. Giungendo Natale…

Sfondo di luci di Natale

Prologo di Natale di Ezra Pound

Eco degli Angeli che cantano Exultasti

Nasce il silenzio da molte quiete
Così la luce delle stelle si tesse in corde
Con cui le Potenze di pace fanno dolce armonia.
Rallegrati, o Terra, il tuo Signore
Ha scelto il suo santo luogo di riposo.
Ecco, il segno alato
Si libra sopra quella crisalide santa.

L’invisibile Spirito della Stella risponde loro:

Inchinatevi nel vostro canto, potenze benigne.
Prostratevi sui vostri archi di avorio e oro!
Ciò che conoscete solo indistintamente è stato fatto
Su nelle corti luminose e azzurre vie:
Inchinatevi nella vostra lode;
Perché se il vostro sottile pensiero
Non vede che in parte la sorgente di misteri
Pure nei vostri canti, siete ordinati di cantare:
“Gloria! Gloria in excelsis
Pax in terra nunc natast”.

Angeli, che proseguono con il loro canto:

Pastori e re, con agnelli e incenso
Andate ed espiate l’ignoranza dell’umanità:
Con la vostra mirra rossa fate sapore dolce.
Ecco, che il figlio di Dio diventa l’elemosiniere di Dio.
Date questo poco
Prima che egli vi dia tutto.

~

Piccolo albero di Edward Estlin Cummings

Piccolo albero
piccolo muto albero di Natale
sei così piccolo che
sembri piuttosto un fiore;
chi ti ha trovato nella foresta verde
e ti dolesti tanto di venir via?
Vedi io ti conforterò
perché hai un odore tanto dolce
bacerò la tua fresca corteccia
e ti terrò stretto al sicuro
come farebbe tua madre,
ma tu non avere paura,
guarda i lustrini
che dormono tutto l’anno in una scatola scura
e sognano d’esser presi fuori e poter luccicare,
le palline, le catenelle rosso e oro i fili lanuginosi,
alza le tue piccole braccia
e te li darò tutti da tenere,
ogni dito avrà il suo anello
e non ci sarà un solo posto scuro o infelice
poi quando sarai completamente vestito,
starai ritto alza finestra che tutti ti vedano
e come ti guarderanno con tanto d’occhi!
oh, ma tu sarai molto orgoglioso
e la mia sorellina e io ci piglieremo per mano
e tenendo gli occhi fissi al nostro bell’albero
danzeremo e canteremo
“Noel Noel”.

~

Alla vigilia di Natale di Bertolt Brecht 

Oggi siamo seduti, alla vigilia
di Natale, noi, gente misera,
in una gelida stanzetta,
il vento corre fuori, il vento entra.
Vieni, buon Signore Gesù, da noi, volgi lo sguardo:
perché tu ci sei davvero necessario.

~

Campane di Natale di Henry Wadsworth Longfellow

Ho sentito le campane, per Natale,
suonar le loro vecchie càrole consuete
e ripetere, dolci e libere, le parole
di pace sulla terra, di buona volontà per gli uomini.
E pensavo a come, venuto quel giorno,
i campanili di tutta la Cristianità
avevano battuto al canto ininterrotto
di pace sulla terra, di buona volontà per gli uomini.
E, disperato, ho chinato la testa
“Non c’è pace sulla terra”, ho detto,
“Perché l’odio è troppo forte e si fa gioco del canto
di pace sulla terra, di buona volontà per gli uomini”.
Poi da ogni bocca nera e maledetta
il cannone tuonò nel Sud,
ed in quei rombi annegaron le càrole
di pace sulla terra, di buona volontà per gli uomini.
Fu come se un terremoto scuotesse
le pietre focaie di un continente
e mandasse in rovina i focolari domestici
di pace sulla terra, di buona volontà per gli uomini.
Allora le campane hanno rintoccato più forte e profondo:
“Dio non è morto, e non dorme;
Il male fallirà, il bene prevarrà
con pace sulla terra, con buona volontà per gli uomini”.
Finché con quei rintocchi e con quel canto
il mondo non è tornato dalla notte al giorno,
una voce, una melodia, un canto sublime
di pace sulla terra, di buona volontà per gli uomini.

~

Natale di Salvatore Quasimodo

Natale. Guardo il presepe scolpito,
dove sono i pastori appena giunti
alla povera stalla di Betlemme.
Anche i Re Magi nelle lunghe vesti
salutano il potente Re del mondo.
Pace nella finzione e nel silenzio
delle figure di legno: ecco i vecchi
del villaggio e la stella che risplende,
e l’asinello di colore azzurro.
Pace nel cuore di Cristo in eterno;
ma non v’è pace nel cuore dell’uomo.
Anche con Cristo e sono venti secoli
il fratello si scaglia sul fratello.
Ma c’è chi ascolta il pianto del bambino
che morirà poi in croce fra due ladri?

🎄

Oltre l’esilio di Felice Serino letto da Angela Greco AnGre

carta e penna

Oltre lʹesilio di Felice Serino letto da Angela Greco AnGre

Autoproduzione che raccoglie liriche del 2020, questa nuova silloge di Felice Serino è una conferma, come già sottolineato nella Prefazione, dei temi e ancor più delle presenze care a questo autore, con uno sguardo alla realtà che fa ben sperare per il lettore. Cʼè vita, cʹè sentimento e cʼè voglia di vivere ogni momento, positivo e negativo, interrogandosi, soffermandosi, riflettendo su ogni dettaglio, ogni incontro, ogni situazione, giungendo con un linguaggio preciso, mai lasciato al caso o al desiderio di mettersi in mostra, dedicato con accuratezza.

Il trascorrere del tempo avvicina il poeta a temi esistenziali inevitabili; ma Felice Serino è capace di portare al lettore gli argomenti con quella grazia che è propria di chi ha consapevolezza della grande tribolazione e sa bene che la Poesia è onestà e che con essa non si può barare.

Nello scorrere delle pagine s´incontra il quotidiano, nel quale anche un percorso in autobus diviene occasione per riflettere materialmente sulla poesia, su questa compagna che custodiamo e che ci custodisce e che affiora nei momenti più inattesi per svelarci qualcosa che era sfuggito. E in questo fluire di versi affiorano i maestri, le passioni, le curiosità che hanno alimentato la fucina della scrittura e ai quali lʹAutore non manca mai di tributare componimenti; un personale pantheon reale-sentito nel quale il poeta vaga e raccoglie frutti da donare a profusione, perché “lʼuomo / è per la meraviglia”. [Angela Greco AnGre]

*

Felice Serino è nato a Pozzuoli nel 1941. Autodidatta. Vive a Torino. Copiosa la sua produzione letteraria (22 volumi di poesia e numerosi e-book); ha ottenuto importanti riconoscimenti e di lui si sono interessati autorevoli critici. E’ stato tradotto in otto lingue. Intensa anche la sua attività redazionale. Gestisce vari blog e siti.

*

Estratti da Oltre l’esilio di Felice Serino 

Nella prima luce
.
ci accorgemmo che non siamo
esistiti che nel pensiero
.
è la mente che crea – essa si
materializza in ciò che vuole
.
nel grembo del cielo fu l’immagine
del primo uomo che
Dio sognò nella prima luce

~

Da un altrove
.
e tu a lumeggiare le mie sere
anima di candore e di sogno
.
si fa conca il cuore
ad accogliere
dei versi dettati da un altrove

~

Il dopo
.
ci aspetta sempre
un dopo: il di là
da venire
.
aria di nuovo aleggia
negli occhi – che ci
sorprenderà – e
.
ancora non sappiamo se
croce o delizia

~

La vita scorre

la vita scorre
e quel senso
sempre del fugace
in ogni cosa

ma il mare
il mare è nel cuore di Odisseo
che si interroga
a specchio del cielo
.
l’uomo
è per la meraviglia

Georg Trakl, tre poesie

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Tre poesie di Georg Trakl (Salisburgo, 1887 – Cracovia, 1914), poeta espressionista austriaco.

*

La bella città 

Antiche piazze assolate in silenzio.
Immerse in filamenti di azzurro e oro
come in sogno si affrettano miti monache
di afosi faggi entro il silenzio.

Dalle brune illuminate chiese
guardano della morte le pure immagini,
di grandi principi le belle insegne.
Corone scintillano nelle chiese.

Destrieri emergono dalle fonti.
Sanguinanti minacciano dagli alberi artigli.
Ragazzi giocano confusi da sogni
a sera sommessi là presso la fonte.

Fanciulle stanno alle porte,
guardano timide nella varia vita.
Le loro umide labbra tremano
ed esse attendono presso le porte.

Tremanti vibrano di campane i suoni,
tempo di marcia e richiami di guardia.
Stranieri ascoltano sugli scalini.
Alti nell’azzurro sono d’organo i suoni.

Chiari strumenti cantano.
Dei giardini entro il fogliame
trema il riso di belle donne.
Sommesse giovani madri cantano.

Segreto alita a fiorite finestre
profumo d’incenso, catrame e lillà.
Argentei scintillano stanchi cigli
attraverso i fiori alle finestre.

~

I contadini

Alla finestra sonante verde e rosso.
Nella bassa sala annerita dal fumo
siedono i servi e le serve al pasto;
e versano il vino e spezzano il pane.

Nel silenzio profondo del mezzogiorno
cade talvolta una parca parola.
I campi baluginano di luce incerta
e il cielo è di piombo e lontano.

Ghignando fiammeggia nel camino la brace
e ronza uno sciame di mosche.
Le ragazze origliano ammutite e tonte
e il sangue le tempie loro martella.

E talvolta s’incontrano cupidi sguardi,
quando d’animale un fiato la stanza percorre.
Monotono un servo recita la preghiera
e sotto il portone un gallo canta.

E di nuovo nel campo. Spesso un senso d’orrore
nel mugghiante frusciar delle spighe li afferra
e tintinnando vibrano in qua in là
le falci come spettri in cadenza.

~

Salmo – dedicata a Karl Kraus

C’è una luce che il vento ha spento.
C’è un’osteria che al pomeriggio un ubriaco lascia.
C’è una vigna bruciata e nera con buchi pieni di ragni.
C’è un vano che hanno imbiancato a calce.
Il matto è morto. C’è un’isola del Pacifico
ad accogliere il dio Sole. Rullano i tamburi.
I maschi eseguono danze guerresche.
Le donne ancheggiano tra liane e rosolacci
mentre canta il mare. Oh nostro paradiso perduto.

Le ninfe hanno lasciato i boschi d’oro.
Si seppellisce lo straniero. Poi inizia una pioggia luccicosa.
Il figlio di Pan appare in figura di sterratore
che passa il mezzodì dormendo sull’asfalto rovente.
Ci sono ragazzine in un cortile con abitucci di straziante miseria!
Ci sono stanze pervase di accordi e sonate.
Ci sono ombre che si abbracciano davanti a uno specchio cieco.
Alle finestre dell’ospedale si scaldano convalescenti.
Un bianco vaporetto trascina per il canale sanguinosi contagi.

L’estranea sorella riappare nei brutti sogni di qualcuno.
Riposando tra i nocciòli gioca con le sue stelle.
Lo studente, forse un sosia, la osserva a lungo dalla finestra.
Dietro gli sta il fratello morto, o scende la vecchia scala a chiocciola.
Al buio di bruni castagni sbiadisce la figura del giovane novizio.
Il giardino è nella sera. Nel chiostro svolazzano i pipistrelli.
I figli del portiere cessano di giocare e cercano l’oro del cielo.
Accordi finali di un quartetto. La piccola cieca corre tremando per il viale,
e poi l’ombra sua passa tastando freddi muri, cinta di fiabe e di leggende sacre.

C’è una barca vuota che a sera scende il nero canale.
Nella tetraggine del vecchio ospizio si sfanno relitti umani.
Gli orfani defunti giacciono contro il muro del giardino.
Da grigie stanze escono angeli con ali lorde di sterco.
Vermi gocciolano dalle loro palpebre ingiallite.
La piazza della chiesa è cupa e taciturna, come nei giorni d’infanzia.
Su argentee suole scivolano via vite anteriori
e le ombre dei dannati calano alle acque sospiranti.
Nella sua tomba il bianco mago gioca con i suoi serpenti.

Taciti sopra il Calvario si aprono gli occhi d’oro di Dio.

*

Al seguente link un approfondimento sull’ Autore: 

https://filosofiaecultura.it/recensioni/georg-trakl-tra-un-amore-incestuoso-e-il-dramma-della-guerra-unimmensa-poesia-capace-di-fondare-un-mondo/

Franco Pappalardo La Rosa, due poesie

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Due inediti di Franco Pappalardo La Rosa 

*

INSONNIA

Ti chiedi per quali sotterranei canali
la notte ci chiami a umani pensieri.

Tu non sai come ghiaccino i fischi
dei treni, quanto freddo patimmo,
quanto amore per i bimbi imbacuccati,
distesi sul sedile, il nero o biondo
capo adagiato sul tiepido grembo
delle madri. Tu non sai la tristezza
dei poveri, reclusi nel serpe dei vagoni
sferraglianti, quando l’osso del cuore
sobbalza in mezzo al petto a dirci
buoni, a dirci vivi per la nostra fame.

Ti chiedi per quali sotterranei canali
la notte ci chiami a umani pensieri.

Forse è la radice dell’eterno viaggio
(che continua, a sobbalzi, in compagnia
di quei volti di pietà scolpiti). Oppure
l’ombra delle parole che tornano in delirio,
il gesto regalato all’altro, il sogno,
la speranza da chiudere in valigia,
fra un logoro libro e quattro stracci,
come allora ora che da noi il passato
diverge e gridi nella gelida notte
adombra, ove il sonno in scioltezza
a biglie gioca con i pensieri.

~

IL SENSO DELLA VITA

Certo, il vortice che accavalla gli eventi
la vita spazza in perenne desuetudine,
il ritmo dei giorni spezza ancora prima
di poter dire d’averli vissuti.

Eppure talvolta dentro insensata
esplode voglia di vivere: un’irresistibile
smania di atti elementari, che in fondo
incarna il senso stesso della vita.

Sarebbe bello – ti dici – non fosse
subito spenta dal potenziale massacro
che ruota sulle nostre teste, dalla certezza
che inutile sia agire, fare, programmare,
se ogni attimo a concluderci basta
il tocco lieve del dito di un folle.

*

Franco Pappalardo La Rosa è nato a Giarre, il 15 settembre 1941; è critico letterario, scrittore e giornalista italiano. Per ulteriori notizie, nonché per la bibliografia aggiornata, si rimanda alla omonima pagina di Wikipedia o sul sito dell’autore stesso. Su questo blog altre poesie si possono leggere ai seguenti link:

Oltre la rete, la poesia italiana che si incontra oggi: Franco Pappalardo La Rosa

Franco Pappalardo La Rosa, due poesie dalla seconda edizione de L’orma di Sisifo

*

In apertura: Rembrandt, Paesaggio con tempesta.

Due sonetti di William Shakespeare

Pianto d'amore - Giorgio De Chirico

Scritti probabilmente fra il 1595 e i primi anni del 1600, i Sonetti di Shakespeare costituiscono uno dei grandi vertici della letteratura d’amore di tutti i tempi, rappresentano anche un momento centrale della produzione letteraria del grande drammaturgo inglese.(dal sito shakespeareitalia.com) 

*

Sonetto 46

I miei occhi e il cuore sono in conflitto estremo
per contendersi l’immagine della tua persona:
gli occhi al cuor vorrebbero celare la tua effigie,
agli occhi il cuor contesta la libertà di tal diritto.
Il cuore a difesa adduce che tu dimori in lui
– un tempio mai violato da sguardi penetranti –
ma gli accusati negano tal dissertazione,
dicendo che in loro giace il tuo bel sembiante.
Per attribuir questo diritto si convoca in giuria
un esame dei pensieri che al cuore son fedeli,
e per verdetto loro viene aggiudicata
la parte dei puri occhi e quella del caro cuore:
così: agli occhi spetta la tua esteriorità,
e diritto del mio cuore è il tuo profondo amore.

~

Sonetto 47

I miei occhi e il cuore son venuti a patti
ed or ciascuno all’altro il suo ben riversa:
se i miei occhi son desiosi di uno sguardo,
o il cuore innamorato si distrugge di sospiri,
gli occhi allor festeggian l’effigie del mio amore
e al fantastico banchetto invitano il mio cuore;
un’altra volta gli occhi son ospiti del cuore
che a lor partecipa il suo pensier d’amore.
Così, per la tua immagine o per il mio amore,
anche se lontano sei sempre in me presente;
perché non puoi andare oltre i miei pensieri
e sempre io son con loro ed essi son con te;
o se essi dormono, in me la tua visione
desta il cuore mio a delizia sua e degli occhi.

Versi per mia figlia

poesia edita di Angela Greco AnGre

Nella camera oscura di questi miei trascorsi,
la tua immagine, il tuo vestito nuovo arancione con i fiorellini e
dieci anni, che capovolti si imprimono sulla retina umida.
Tento di dedicarti qualche parola, ma il tuo mistero
mi fa smarrire persino nei territori che conosco.
Mutano profondamente le prospettive.
No, non ricordo me alla tua età. So soltanto che
tu sei il motivo dei giorni, l’aria e il sole,
che splende anche nelle mie notti più difficili.

Un momento, un brivido, un attimo di silenzio:
cosa ti consegnerò, di questo presente?
(La domanda mi tormenta).
Raccolgo fogli da ogni angolo di casa e
i tuoi colori, le tue parole, le risposte che
sai dare con la tua età. Mi fermo. Ti guardo.
Hai quasi raggiunto la mia altezza, mentre
continuo a meravigliarmi della gioia e del caso.

No, non tutto è perduto. Noi siamo prossimi.
Basta guardarsi queste mani nude.

[…]

da Aiguiller (Ladolfi, 2022) di Angela Greco AnGre. 

Felice undicesimo compleanno, figlia mia! ❤

AA.VV. Versi arsi d’estate

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Estate di Cesare Pavese 

È riapparsa la donna dagli occhi socchiusi
e dal corpo raccolto, camminando per strada.
Ha guardato diritto tendendo la mano,
nell’immobile strada. Ogni cosa è riemersa.

Nell’ímmobile luce dei giorno lontano
s’è spezzato il ricordo. La donna ha rialzato
la sua semplice fronte, e lo sguardo d’allora
è riapparso. La mano si è tesa alla mano
e la stretta angosciosa era quella d’allora.
Ogni cosa ha ripreso i colori e la vita
allo sguardo raccolto, alla bocca socchiusa.

È tornata l’angoscia dei giorni lontani
quando tutta un’immobile estate improvvisa
di colori e tepori emergeva, agli sguardi
di quegli occhi sommessi. È tornata l’angoscia
che nessuna dolcezza di labbra dischiuse
può lenire. Un immobile cielo s’accoglie
freddamente, in quegli occhi.
Fra calmo il ricordo
alla luce sommessa dei tempo, era un docile
moribondo cui già la finestra s’annebbia e scompare.
Si è spezzato il ricordo. La stretta angosciosa
della mano leggera ha riacceso i colori
e l’estate e i tepori sotto il viviclo cielo.
Ma la bocca socchiusa e gli sguardi sommessi
non dan vita che a un duro inumano silenzio.

🌻

Ode all’estate di Pablo Neruda

Oh estate
abbondante,
carro
di mele
mature,
bocca
di fragola
in mezzo al verde,
labbra
di susina selvatica.

Strade
di morbida polvere
sopra
la polvere,
mezzogiorno,
tamburo
di rame rosso,
e a sera
riposa
il fuoco,
la brezza
fa ballare
il trifoglio, entra
nell’officina deserta.

Sale
una stella
fresca
verso il cielo
cupo,
crepita
senza bruciare
la notte
dell’estate.

🌻

Di luglio di Giuseppe Ungaretti 

Quando su ci si butta lei,
Si fa d’un triste colore di rosa
Il bel fogliame.

Strugge forre, beve fiumi,
Macina scogli, splende,
È furia che s’ostina, è l’implacabile,
Sparge strazio, acceca mete,
È l’estate e nei secoli
Con i suoi occhi calcinanti
Va della terra spogliando lo scheletro.

🌻

Tutto il giorno di J.Rodolfo Wilcock

Tutto il giorno ho rincorso dentro di me
una corrente chiara come le sere d’estate;
l’acqua è verde e trasparente,
tutto il giorno ti ho ricordato.

Vieni, siamo giovani, e qui passa l’amore
fluttuando tra la luna e il vento,
vieni, l’aria concede le tue labbra alle mie;
oh i salici, i salici pensosi!

🌻

Estiva di Vincenzo Cardarelli

Distesa estate,
stagione dei densi climi
dei grandi mattini
dell’albe senza rumore –
ci si risveglia come in un acquario –
dei giorni identici, astrali,
stagione la meno dolente
d’oscuramenti e di crisi,
felicità degli spazi,
nessuna promessa terrena
può dare pace al mio cuore
quanto la certezza di sole
che dal tuo cielo trabocca,
stagione estrema, che cadi
prostrata in riposi enormi,
dai oro ai più vasti sogni,
stagione che porti la luce
a distendere il tempo
di là dai confini del giorno,
e sembri mettere a volte
nell’ordine che procede
qualche cadenza dell’indugio eterno.

🌻

Improvvisamente fu piena estate di Hermann Hesse

Improvvisamente fu piena estate.
I campi verdi di grano, cresciuti e
riempiti nelle lunghe settimane di piogge,
cominciavano a imbiancarsi,
in ogni campo il papavero lampeggiava
col suo rosso smagliante.

La bianca e polverosa strada maestra era arroventata,
dai boschi diventati più scuri risuonava più spossato,
più greve e penetrante il richiamo del cuculo,
nei prati delle alture, sui loro flessibili steli,
si cullavano le margherite e le lupinelle,
la sabbia e le scabbiose, già tutte in pieno rigoglio
e nel febbrile, folle anelito della dissipazione
dell’approssimarsi della morte
perché a sera si sentiva qua e là nei villaggi il chiaro,
inesorabile avvertimento delle falci in azione.

📚👋

Il sasso nello stagno di AnGre va in vacanza per qualche giorno. Augurando agli Amici e ai Lettori serenità e cieli limpidi, torniamo in poesia venerdì 19 agosto 2022.

Un caro saluto a tutti!! 💋

AA.VV. La poesia delle donne a cura di Rosalba De Cesare e Lorenzo Pompeo: tre estratti e una nota di Angela Greco AnGre

Modigliani Donna con cravatta nera

Estratti da “La poesia delle donne” a cura di Rosalba De Cesare e Lorenzo Pompeo (Left, 2022)

Idea Vilariño, poetessa “notturna” dall’Uruguay

La notte pozzo soave
e stipato di sogni
sopporta ancora la quota
d’un altro e oltrepassa.
La notte che è eterna
che ignora il sole e il barbaro
simulacro del giorno
che permane illibata.
Il suo inchiostro come un acido
distrugge le miserie
che all’ora ventiquattro
il giorno le rovescia.
La notte pozzo soave.

*

Andrée Chedid, poesia senza confini

La speranza
Ho ancora la speranza
Alle radici della vita.
Dinnanzi alle tenebre
Ho rizzato chiarori
Piantato fiaccole.
Al margine delle notti
Chiarori che persistono
Fiaccole che s’insinuano
Fra ombre e barbarie
Chiarori che rinascono
Fiaccole che si rizzano
Senza mai deperire.
Radico la speranza
Nel terriccio del mio cuore
Adotto tutta la speranza
In suo spirito ribelle.

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Vénus Khoury-Ghata e la lingua delle origini

Scrivere le pagine…

Scrivere le pagine fino allo sfinimento delle parole e apparizione di quel
Personaggio che vedo per la prima volta
Non conosco il suo nome
Inutile domandarglielo
Non sa scrivere
Non sa neppure parlare
Sa soltanto che è nato dal contatto tra la penna e la carta
Dalla vicinanza di due parole affiancate dal caso
Mi lascia fare quando lo colloco al centro della riga
Tra un verbo e un oggetto
Ma lo scosto appena quando tenta di trascinarmi nell’azione,
Ho deciso di condurre il gioco da sola.

(immagine d’apertura: Donna con cravatta nera di Amedeo Modigliani – QUI in questo blog)

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Ho accolto positivamente l’invito della curatrice a leggere questa antologia di poetesse edita per Left (rintracciabile nello store dello stesso sito) nel marzo ultimo scorso; il titolo non poteva non essere agglomerante per una sì tanto vasta materia, che ancora oggi è argomento di studio e dibattito e concordo con i primissimi righi del testo sul fatto che non c’è necessità di distinguere un genere nella poesia; a maggior ragione in un tempo come quello che abitiamo, che non avverte più la necessità di distinzioni in tal senso.

Il lavoro di ricognizione e soprattutto di ricerca tra testi ormai introvabili di Rosalba De Cesare e Lorenzo Pompeo, completato da un breve intervento di Fausta Genziana Le Piane, mette in evidenza – con grande merito – poetesse spesso trascurate da coloro “che stabiliscono” chi poeta lo è, perché ampiamente propagandato per i motivi più disparati, e chi, di contro, poeta non lo è, per cui va abbandonato ad una sorta di oblio, perché non accondiscendente ai dettami di un certo potere, alle mode del momento o, perché, appartenente ad una certa compagine politica, come si evince dalle pagine di questo testo. “Mondo era e mondo è” avrebbe detto mia madre nella sua saggezza popolare e terribilmente vera che, però, nulla toglie al pregevole sforzo di questa antologia.

I curatori presentano testi alla portata anche di chi si accosti alla poesia per la prima volta; si leggono nomi degni di nota ascrivibili comunque – e questo a parer mio è un limite – alla tendenza politica dell’editore: alcuni popolari e molto conosciuti; altri, conosciuti maggiormente dagli addetti ai lavori, ma presentati con stile leggero e competente ai lettori. Di ogni autrice sono riportati alcuni componimenti e un breve approfondimento scritto con chiarezza e passione – e questa si avverte nitida – volti a rendere un servizio di divulgazione di cui si ha sempre bisogno, se la materia è la Poesia.

La cifra è il Novecento, nella cui prima metà la massima parte del parterre di signore spazia per anno di nascita, attraversato a tutte le latitudini, che dona al lettore un’ampia e pregevole scelta di letture. [AnGre]

Per non dimenticare…

Pietre d'inciampo a Roma -ph.Giorgio Chiantini

Pavel Friedman (7 Gennaio 1921 – 29 Settembre 1944) ebreo cecoslovacco, nato a Praga e deportato al campo di concentramento di Tezerin 26 Aprile 1942, situato nella Repubblica Ceca. Scrisse la poesia “La farfalla” su un pezzo di carta ritrovato dopo la liberazione e donato al Museo Ebraico.

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La farfalla

L’ultima, proprio l’ultima,
di un giallo così intenso, così
assolutamente giallo,
come una lacrima di sole quando cade
sopra una roccia bianca
così gialla, così gialla!

L’ultima
volava in alto leggera,
aleggiava sicura
per baciare il suo ultimo mondo.
Tra qualche giorno
sarà già la mia settima settimana
di ghetto: i miei mi hanno ritrovato qui
e qui mi chiamano i fiori di ruta
e il bianco candeliere del castagno
nel cortile.
Ma qui non ho visto nessuna farfalla.
Quella dell’altra volta fu l’ultima:
le farfalle non vivono nel ghetto.

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Selma Meerbaum-Eisinger (Czernowitz, 5 febbraio 1924 – Michajlovka, 16 dicembre 1942) è stata una poetessa tedesca di origine ebrea.
Nell’ottobre del 1942, dopo un periodo di soggiorno obbligato nel Ghetto di Czernowitz, Selma Meerbaum viene deportata insieme ai genitori nel campo di lavoro di Michajlovka, dove muore di tifo dopo pochi mesi di detenzione.

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Mattino

Il vento canta la sua ninna nanna
con un fruscìo di sogno,
teneramente adula le foglie.
Mi lascio sedurre e spio quel canto
e mi sento come i prati.

Scrosci nell’aria
rinfrescano il mio viso
cocente, racchiuso nell’attesa.
Nuvole in viaggio riversano la bianca
luce che hanno rubato al sole.

La vecchia acacia
spande il suo silenzio
nel tremulo intrico di foglie.
Gli aromi della terra si alzano, salgono
e scendono poi su di me.

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Itzhak Katznenelson, nato in Polonia nel 1886, viene ucciso nel campo di concentramento di Auschwitz nel 1944. Vive la deportazione e l’internamento lasciando in eredità un canto: “Il canto del popolo yiddish messo a morte”. Katzenelson  racconta l’orrore con una lingua materna, un canto di culla, “affettivo”, lo yiddish, la lingua parlata da 11 milioni di ebrei d’Europa prima della Shoah e dopo la Shoah quasi totalmente cancellata.

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Canta

Canta, prendi l’arpa nella tua mano vuota, svuotata e lieve,
sulle sue corde magre getta le tue dita dure,
come cuori in pena, l’ultimo dei canti,
canto degli ultimi yidn sul suolo d’Europa.

Come faccio a cantare? Come aprire la bocca
se sono rimasto io solo solamente?
Mi moglie, i miei due cuccioli, orrendo
un orrore mi scuote, piangere, da lontano sento piangere.

Canta, canta, solleva in alto la tua voce di pena e di rovina.
Cerca, cercalo lassù da qualche parte, se ancora ci sta.
E cantagli, canta per lui l’ultimo canto dell’ultimo degli yidin,
vissuto, morto, non sepolto e nient’altro.

Come faccio a cantare? Come posso levare la testa?
Mia moglie portata via, il mio Bentzi e Yomele,
piccolino,
non li ho più e non mi lasciano mai.
Ombre scure dei miei luminosi, ombre gelate e cieche.

Canta, canta un’ultima volta ancora sulla terra, getta
la testa indietro, rovescia gli occhi pesanti su di lui
e canta per l’ultima volta, suona per lui sull’arpa.
Non ce n’è più di yidn. Messi a morte
non ce ne sono più.

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– testi dal web; fotografia di Giorgio Chiantini –

Primo Levi, tre poesie

Primo Michele Levi (Torino, luglio 1919 – Torino, aprile 1987) scrittore, partigiano e chimico, ha scritto poesie, racconti, memorie  e romanzi. «Scrivevo poesie concise e sanguinose, raccontavo con vertigine, a voce e per iscritto»

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L’approdo

Felice l’uomo che ha raggiunto il porto,
Che lascia dietro di sé mari e tempeste,
I cui sogni sono morti o mai nati,
E siede a bere all’osteria di Brema,
Presso al camino, ed ha buona pace.
Felice l’uomo come una fiamma spenta,
Felice l’uomo come sabbia d’estuario,
Che ha deposto il carico e si è tersa la fronte,
E riposa al margine del cammino.
Non teme né spera né aspetta,
Ma guarda fisso il sole che tramonta.

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L’opera

Ecco, è finito: non si tocca più.
Quanto mi pesa la penna in mano!
Era così leggera poco prima,
Viva come l’argento vivo:
Non avevo che da seguirla,
Lei mi guidava la mano
Come un veggente che guidi un cieco,
Come una dama che ti guidi a danza.
Ora basta, il lavoro è finito,
Rifinito, sferico.
Se gli togliessi ancora una parola
Sarebbe un buco che trasuda siero.
Se una ne aggiungessi
Sporgerebbe come una brutta verruca.
Se una ne cambiassi stonerebbe
Come un cane che latri in un concerto.
Che fare, adesso? Come staccarsene?
Ad ogni opera nata muori un poco.

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Le pratiche inevase

Signore, a fare data dal mese prossimo
voglia accettare le mie dimissioni.
E provvedere, se crede, a sostituirmi.
Lascio molto lavoro non compiuto,
Sia per ignavia, sia per difficoltà obiettive.
Dovevo dire qualcosa a qualcuno,
ma non so più che cosa e a chi: l’ho scordato.
Dovevo anche dare qualcosa,
una parola saggia, un dono, un bacio;
ho rimandato da un giorno all’altro. Mi scusi,
Provvederò nel poco tempo che resta.
Ho trascurato, temo, clienti di riguardo.
Dovevo visitare città lontane, isole, terre deserte;
le dovrà depennare dal programma
o affidarle alle cure del successore.
Dovevo piantare alberi e non l’ho fatto;
costruirmi una casa, forse non bella,
ma conforme a un disegno.
Principalmente, avevo in animo un libro meraviglioso,
caro signore,
che avrebbe rivelato molti segreti,
alleviato dolori e paure,
Sciolto dubbi, donato a molta gente
Il beneficio del pianto e del riso.
Ne troverà traccia nel mio cassetto,
in fondo, tra le pratiche inevase;
Non ho avuto tempo per svolgerla.
È peccato, sarebbe stata un’opera fondamentale.

Mario Luzi, quattro poesie

nuvole-rosse

Mario Luzi (Sesto Fiorentino, 20 ottobre 1914 – Firenze, 28 febbraio 2005) è stato un poeta, drammaturgo, critico letterario, traduttore, critico cinematografico e accademico italiano. In occasione del suo novantesimo compleanno fu nominato senatore a vita della Repubblica Italiana.

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Sulla riva

I pontili deserti scavalcano le ondate,
anche il lupo di mare si fa cupo.
Che fai? Aggiungo olio alla lucerna,
tengo desta la stanza in cui mi trovo
all’oscuro di te e dei tuoi cari.

La brigata dispersa si raccoglie,
si conta dopo queste mareggiate.
Tu dove sei? ti spero in qualche porto…
L’uomo del faro esce con la barca,
scruta, perlustra, va verso l’aperto.
Il tempo e il mare hanno di queste pause.

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Come tu vuoi

La tramontana screpola le argille,
stringe, assoda le terre di lavoro,
irrita l’acqua nelle conche; lascia
zappe confitte, aratri inerti
nel campo. Se qualcuno esce per legna,
o si sposta a fatica o si sofferma
rattrappito in cappucci e pellegrine,
serra i denti. Che regna nella stanza
è il silenzio del testimone muto
della neve, della pioggia, del fumo,
dell’immobilità del mutamento.

Son qui che metto pine
sul fuoco, porgo orecchio
al fremere dei vetri, non ho calma
né ansia. Tu che per lunga promessa
vieni ed occupi il posto
lasciato dalla sofferenza
non disperare o di me o di te,
fruga nelle adiacenze della casa,
cerca i battenti grigi della porta.
A poco a poco la misura è colma,
a poco a poco, a poco a poco, come
tu vuoi, la solitudine trabocca,
vieni ed entra, attingi a mani basse.

E’ un giorno dell’inverno di quest’anno,
un giorno, un giorno della nostra vita.

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Vita fedele alla vita

La città di domenica
sul tardi
quando c’è pace
ma una radio geme
tra le sue moli cieche
dalle sue viscere interite

e a chi va nel crepaccio di una via
tagliata netta tra le banche arriva
dolce fino allo spasimo l’umano
appiattato nelle sue chiaviche e nei suoi ammezzati,

tregua, sì, eppure
uno, la fronte sull’asfalto, muore
tra poca gente stranita
che indugia e si fa attorno all’infortunio,

e noi si è qui o per destino o casualmente insieme
tu ed io, mia compagna di poche ore,
in questa sfera impazzita
sotto la spada a doppio filo
del giudizio o della remissione,

vita fedele alla vita
tutto questo che le è cresciuto in seno
dove va, mi chiedo,
discende o sale a sbalzi verso il suo principio…

sebbene non importi, sebbene sia la nostra vita e basta.

da Mario Luzi, Tutte le poesie (Garzanti)

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La notte e i suoi strani affollamenti 

La notte, i suoi strani affollamenti.
Figure umane
flebili, avvilite
dalla disattenzione degli umani,
mortificate dalla trascuranza,
sfiorate appena, appena rasentate
dal calore della vita quotidiana –
l’insonnia nel suo vagabondare
a sorpresa le ritrova,
l’incontro le rimuove
dai loro dormitori, svegliate
escono fuori dai ripari
d’opacità e timore
nel lucore d’una oscura reminiscenza…
quando? ci fu disordine, c’è errore.
Passo passo
deve il cammino
essere fatto ancora
a ritroso: con premura,
con umiltà di cuore
è da raccogliere
la minima, l’infima dovizia
che il tempo aveva in sé,
non profferita
e nemmeno concupita –
ma voleva
quell’èbulo
esser preso
da una mano più attenta ed amorevole
della nostra cupidigia…
C’era forse da vivere più vita
nel vivaio, da suggere
più linfa dall’ispida sterpaglia.
Cresce, frana
su di sé
la storia umana,
ne ingoia la polvere o il sentore
una memoria oscura,
fa sì
che non sia stata vana.
Ma rimorde la memoria,
la sua piaga non si sana:
la tortura di notte quello spregio
fatto alla vita, quell’offesa
all’amore non vissuti,
eppure non perduti,
presenti anch’essi dove tutto è stato,
tutto è parificato.

(Dal web)

Konstantinos Kavafis, poesie scelte 

Konstantinos Kavafis (Alessandria d’Egitto, 29 aprile 1863 – Alessandria d’Egitto, 29 aprile 1933), è stato un poeta e giornalista greco.

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Cose nascoste

Dalle cose che feci o dissi
non cerchino d’indovinare chi fui.
C’era un impedimento a trasformare
il mio modo di vivere e di agire.
C’era un impedimento, e mi fermava
molte volte che stavo per parlare.
Dalle mie azioni meno appariscenti
e dai miei scritti più velati –
da questo solo mi conosceranno.
Anche se forse non varrà la pena
che facciano tanti sforzi per capirmi.
Più avanti – in una società perfetta –
apparirà di certo qualcun altro
che mi somigli e agisca da uomo libero.

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Candele

Stanno i giorni futuri innanzi a noi
come una fila di candele accese
dorate, calde e vivide.
Restano indietro i giorni del passato,
penosa riga di candele spente:
le più vicine danno fumo ancora,
fredde, disfatte, e storte.
Non le voglio vedere: m’accora il loro aspetto,
la memoria m’accora il loro antico lume.
E guardo avanti le candele accese.
Non mi voglio voltare, ch’io non scorga, in un brivido,
come s’allunga presto la tenebrosa riga,
come crescono presto le mie candele spente.

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La città (trad. Nicola Crocetti)

Dicesti: «Andrò in un’altra terra, su un altro mare.
Ci sarà una città meglio di questa.
Ogni mio sforzo è una condanna scritta;
e il mio cuore è sepolto come un morto.
In questo marasma quanto durerà la mente?
Ovunque giro l’occhio, ovunque guardo
vedo le nere macerie della mia vita, qui
dove tanti anni ho trascorso, distrutto e rovinato».

Non troverai nuove terre, non troverai altri mari.
Ti verrà dietro la città. Per le stesse strade
girerai. Negli stessi quartieri invecchierai;
e in queste stesse case imbiancherai.
Finirai sempre in questa città. Verso altri luoghi – non sperare –
non c’è nave per te, non c’è altra via.
Come hai distrutto la tua vita qui
in questo cantuccio, nel mondo intero l’hai perduta.

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Sulle scale (trad. Nicola Crocetti)

Scendevo quella maledetta scala;
tu entravi dalla porta; per un attimo
vidi il tuo viso ignoto e mi vedesti.
Poi, per non esser rivisto, mi nascosi, e tu
passasti in fretta, nascondendoti il viso,
e t’infilasti in quella maledetta casa
dove non avresti trovato il piacere, come anch’io del resto.

Pure, l’amore che volevi l’avevo io da darti;
l’amore che volevo – lo dissero i tuoi occhi
sciupati e diffidenti – l’avevi tu da darmi.
Si sentirono, si cercarono i nostri corpi;
compresero la pelle e il sangue.

Ma ci nascondemmo, tutti e due sconvolti.

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Aspettando i Barbari (trad.Filippo Maria Pontani

Che aspettiamo, raccolti nella piazza?

Oggi arrivano i barbari.

Perché mai tanta inerzia nel Senato?
E perché i senatori siedono e non fan leggi?

Oggi arrivano i barbari
Che leggi devon fare i senatori?
Quando verranno le faranno i barbari.

Perché l’imperatore s’è levato
così per tempo e sta, solenne, in trono,
alla porta maggiore, incoronato?

Oggi arrivano i barbari.
L’imperatore aspetta di ricevere
il loro capo. E anzi ha già disposto
l’offerta d’una pergamena. E là
gli ha scritto molti titoli ed epiteti.

Perché i nostri due consoli e i pretori
sono usciti stamani in toga rossa?
Perché i bracciali con tante ametiste,
gli anelli con gli splendidi smeraldi luccicanti?
Perché brandire le preziose mazze
coi bei caselli tutti d’oro e argento?

Oggi arrivano i barbari,
e questa roba fa impressione ai barbari.

Perché i valenti oratori non vengono
a snocciolare i loro discorsi, come sempre?

Oggi arrivano i barbari:
sdegnano la retorica e le arringhe.

Perché d’un tratto questo smarrimento
ansioso? (I volti come si son fatti seri)
Perché rapidamente e strade e piazze
si svuotano, e ritornano tutti a casa perplessi?

S’è fatta notte, e i barbari non sono più venuti.
Taluni sono giunti dai confini,
han detto che di barbari non ce ne sono più.

E adesso, senza barbari, cosa sarà di noi?
Era una soluzione, quella gente.

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In apertura: fotografia di Mimmo Jodice, “Figure del mare”.