Rileggiamo l’opera: l’albero della vita – sassi d’arte

L’albero della vita, mosaico, 1118 c.a 

Roma, San Clemente, abside della basilica superiore

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A Roma, nei pressi del Colosseo, lungo la strada che sale gradualmente verso San Giovanni in Laterano, si trova una basilica intitolata a San Clemente I Papa, terzo successore di Pietro al soglio pontificio. L’opera architettonica risalente al IV secolo fu ampiamente devastata dai Normanni nel 1084; nel 1110, durante una fase particolarmente acuta della lotta alle investiture, allorché le nomine vennero nuovamente proibite, Papa Pasquale II ordinò che la chiesa fosse ricostruita sulle rovine della chiesa interrate della basilica precedente. Come se si trattasse di esorcizzare l’antico potere della Chiesa contro l’Impero, per la ricca decorazione interna della basilica ci si orientò verso reperti formali tratti dalle chiese paleocristiane; anzi, nel nuovo impianto furono integrati programmaticamente parecchi arredi della costruzione più antica (soprattutto suppellettili che vi erano state aggiunte nel V e nel VI secolo).

Anche un’opera nuova, che oggi eclissa tutto il resto, evoca sotto un certo aspetto l’arte paleocristiana. Parliamo del mosaico dell’abside, la cui composizione è dominata dalla croce. Il suo carattere fenomenico, che si manifesta mediante un meraviglioso tono di azzurro, richiama alla mente l’arte dello smalto. Maria e San Giovanni stanno ai lati della croce, ai cui piedi sgorgano i quattro fiumi del paradiso, ai quali si abbeverano i cervi. Scorgiamo, poi, la fenice, l’uccello fantastico che simboleggia l’immortalità. Dodici colombe bianche, che incarnano gli apostoli, occupano le assi verticale e trasversale della croce. In una nicchia ricavata dietro l’emblema della passione, è inserito un vero frammento della croce insieme ad altre reliquie (il mosaico assume perciò la funzione di stauroteca, reliquiario destinato ai frammenti della croce di Cristo). Sopra la croce si apre la volta celeste stellata, da cui scende la mano benedicente di Dio.

La decorazione vegetale fatta di incantevoli tralci di acanto ritorti, che riempie il catino absidale, rimanda al paradiso e identifica la croce come “l’albero della vita”; al contempo, l’intreccio dei tralci intorno al legno della croce regala vita e nutrimento a uomini e donne di ogni professione, anzi a ogni creatura. Tra le figure spiccano quattro personaggi vestiti semplicemente di bianco e nero, che rappresentano i padri della Chiesa latina, i santi Agostino, Gerolamo, Gregorio e Ambrogio. Il fregio sottostante, con l’Agnello dell’Apocalisse, ricorda nuovamente la Gerusalemme celeste e, poiché sopra l’arco di trionfo sono raffigurati i santi Pietro, Clemente, Paolo e Lorenzo e i profeti Geremia e Isaia, la resa visiva della redenzione include in sé anche la storia della Chiesa. In sintesi, il programma iconografico esaltava idealmente il Papa (sostenendo le pretese universalistiche della chiesa cattolica), il quale, in carne e ossa, sedeva in trono giù nell’abside.

Non a caso un simile messaggio era espresso a livello stilistico mediante il richiamo a modelli antichi. Gli artefici dell’opera ricordavano bene l'”impressionismo” che caratterizzava i mosaici romani del V secolo, quelli in Santa Pudenziana o in Santa Maria Maggiore e, come allora, accentuarono l’incarnato o il panneggio con strisce di tessere da mosaico di marmo bianco, circondate da frammenti di vetro neri e grigi (secondo l’antica tecnica romana).

Nei mosaici dei luoghi antichi paleocristiani comparivano anche scene di genere; le ritroviamo in San Clemente, arricchite con uccelli acquatici come quelli raffigurati un tempo lungo il bordo della cupola di Santa Costanza, con foglie di vite e grappoli d’uva disseminati qua e là e putti sgambettanti.

(tratto e adattato dal volume Romanico, Taschen Ed. – immagini dal web)

 

L’Annunciazione segreta di Giorgio Chiantini – sassi d’arte

Ph.GiorChi

Un luogo non è mai solo ‘quel’ luogo: quel luogo siamo un po’ anche noi.
In qualche modo, senza saperlo, ce lo portavamo dentro
e un giorno, per caso, ci siamo arrivati.
(Antonio Tabucchi)
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Sono venuto tante volte qui nella Basilica di S. Cecilia a Roma (Clicca QUI per leggere a riguardo e vedere i dettagli delle foto), in questo luogo magico tra gli affreschi che amo di Pietro Cavallini. Tuttavia non mi ero mai accorto che proprio quando sei davanti alla parete che li contiene, nel lato destro alle tue spalle e guardando nell’interno di un muro di contenimento, si può vedere ciò che rimane di una Annunciazione. Il periodo dovrebbe essere sempre lo stesso, quello del XIII secolo, ma la mano che l’ha eseguita certamente non è quella del Cavallini.
Ph.GiorChi 2022.
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L’anonimo autore, probabilmente da ricercare nella cerchia dei suoi aiuti, ha stile completamente diverso: non giottesco, come gli altri affreschi della parete, ma tardo gotico con i due soggetti che sembrano addirittura dipinti da mani diverse.
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L’arcangelo Gabriele, a prima vista, sembra realizzato rifacendosi agli angeli del Cavallini della parete principale e probabilmente l’aiuto potrebbe aver usato proprio un cartone già adoperato dal Maestro per copiarlo, non ottenendo certo gli stessi risultati. La Madonna, bella, composta e dall’aspetto elegante, appare legata ancora, nella sua composizione, alla tradizione gotica bizantina; le colorazioni cromatiche riprendono, invece, con la loro intensa vivacità, l’affresco principale (nella foto a lato, si può notare proprio il confronto con gli affreschi di Pietro Cavallini riportati sulla sinistra).
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Rimango affascinato da tutto questo e da come queste opere, dopo tanto tempo,  continuino ancora a parlare e a suggerire domande su chi e come abbia realizzato quei dipinti. Certo è che la bellezza e i segreti che ancora avvolgono questi affreschi e la capacità del Cavallini di aver realizzato tutto questo, probabilmente prima di Giotto (nel cantiere della Basilica francescana di Assisi la presenza di Pietro Cavallini è accertata e confermata), continua ad appassionare la Storia dell’arte, che su tanto prosegue a scrivere pagine inattese.
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Su questa Annunciazione (completa nella foto in basso, scattata nella obiettiva difficoltà della collocazione e corretta verticalmente, in quanto il punto di ripresa è distante in altezza dall’affresco) non ho potuto trovare, sia on line che sui testi d’arte in mio possesso, nulla di più di ciò che ho scritto. È benvenuto chiunque possa arricchire questo post  con  ulteriori spiegazioni e/o interpretazioni. [Giorgio Chiantini]
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Ph.GiorChi

Riproponiamo: Guido Reni, San Michele – sassi d’arte

……….“Una pittura argentea capace di raggiungere livelli straordinari di intensa delicatezza fissando i canoni di una bellezza virtuosa, una bellezza che si propone come modello estetico e morale. Immerse in un idealismo classicheggiante, le opere di Guido Reni ripercorrono i sentieri idilliaci del mito e della storia antica con uno sguardo di stima verso l’eredità culturale del Rinascimento. Una ricerca del vero necessaria e fortemente voluta, ma depurata dei suoi aspetti più volgari fino alla sublime rappresentazione del vero ideale.

Quel sottile e fragile equilibrio che cerca di mediare la purezza del divino con l’oscurità del vero si evince da ogni sua opera capace di coniugare l’ esigenza di verità caravaggesca con il divino classicismo di Raffaello nel complesso confrontarsi con la tradizione. Vesti fruscianti, delicati panneggi, volti fanciulleschi testimoniano l’alto senso della bellezza risultato finale di un approccio conservatore che ripropone la monumentalità antica ed il naturalismo contemporaneo.”[dal sito finestrasullarte]

In via Veneto, a breve distanza da piazza Barberini, sorge la chiesa di S. Maria della Concezione fatta edificare nel 1624 dal cardinale Antonio Barberini, cappuccino e fratello del pontefice Urbano VIII (1623-44). Sull’altare della prima cappella a destra è esposto uno splendido dipinto ad olio su seta raffigurante “San Michele che abbatte il demonio”. Fu eseguito intorno al 1635, su commissione del cardinale sopracitato, dal bolognese Guido Reni, uno dei massimi esponenti del classicismo, famoso anche per il suo carattere stravagante: molto ricco ed avvenente, il pittore amava il gioco d’azzardo ed era capace di passare delle intere notti a giocare a carte, aveva estrema cura del suo aspetto e qualche fobia, come quella di vivere nella continua paura di essere avvelenato.

Michele – capo supremo dell’esercito celeste, degli angeli fedeli a Dio, il cui nome significa “chi come Dio?” – l’arcangelo impegnato nella lotta contro il male, è rappresentato da Reni come un giovinetto di rara bellezza, forte e delicato al tempo stesso, che, con la spada sguainata, respinge all’inferno un irritato diavolo, di cui calpesta il capo con il piede; il quadro suscitò l’ammirazione dei contemporanei, ma anche un vespaio di polemiche all’atto dell’esposizione nella chiesa dei Cappuccini.

Occorre ricordare che, tra le famiglie romane del Seicento, spiccavano i Barberini ed i Pamphili, sempre in competizione tra loro per affermare il proprio prestigio. Secondo quanto si racconta, Guido Reni venne a sapere che il cardinale Giovanni Battista Pamphili, il futuro papa Innocenzo X (1644-55), in qualche modo gli aveva arrecato offesa o, forse, lo aveva diffamato, parlando in maniera poco felice dell’artista, ragione per cui Reni, si racconta, mise in atto una subdola vendetta.

L’artista avrebbe inserito il ritratto del cardinale sulla tela precisamente nel volto, contratto da una smorfia di dolore, di Satana schiacciato dal piede dell’Arcangelo Michele. In effetti, la somiglianza può essere verificata (foto qui sotto) confrontando questo dettaglio del volto del diavolo nel quadro di Reni con il ritratto di Innocenzo X eseguito da Diego Velasquez: stesso volto altezzoso, uguale fronte stempiata, simile persino il taglio della barba. Una tale mancanza di rispetto per un Pamphili, inoltre, avrebbe certo fatto piacere al committente dell’opera, appartenente alla famiglia rivale dei Barberini. L’artista così si espresse, circa la realizzazione dell’opera: “Vorrei aver avuto pennello angelico, o forme di Paradiso per formare l’Arcangelo, o vederlo in Cielo; ma io non ho potuto salir tant’alto, ed invano l’ho cercato in terra. Sicché ho riguardato in quella forma che nell’idea mi sono stabilita e dovetti dipingerlo secondo la mia fantasia. Il demone invece l’ho incontrato parecchie volte, l’ho guardato attentamente e ho fissato i suoi tratti proprio come li ho visti”.

Nella mente geniale dell’artista l’idea chiara e definita che il bene – personificato da San Michele – abbracci il bello, accompagna la mente dell’osservatore verso la comprensione della più antica lotta tra bene e male, in contrapposizione con lo sguardo demoniaco di Satana, così fortemente espressivo, testimone della sconfitta ormai sopraggiunta. Ma questo sguardo nasconde, forse, una personale vendetta dell’artista nei confronti di un potente uomo di Chiesa? Non era certo colpa sua se il Cardinale Pamphili somigliava alla sua visione di Satana in modo così imbarazzante! Si giustificò Guido Reni al cospetto del Cardinale stesso, che, vedendosi ritratto in sembianze demoniache, protestò vivamente nei suoi confronti. Certo è che il cardinale si pentì di aver riservato all’artista parole ben poco piacevoli sul suo operato artistico. Quando, nel 1644, Giovanni Battista Pamphili salì al soglio pontificio con il nome di Papa Innocenzo X, Guido Reni era già morto da due anni e ormai al sicuro da qualsiasi possibile vendetta. Ma se l’arte, la vera arte, è eterna, allora la vendetta dell’artista avrà ancora lunga vita.

[Giorgio Chiantini – adattamento fonti varie dal web]

Alfonso Gatto, due poesie

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Amore notturno

Una notte vicino alla sua casa
e dal balcone aperto nella mite
notte del Sud, la donna che m’ apparve
golosa di risucchio come un’acqua
gelata. E non avrà mai volto,
sale la gola chiara, scende al buio
degli occhi avidamente salda.

A bocca aperta nella pioggia, un nero
grappolo le lasciava goccia a goccia
sapore di città – disse – di vento.

§

Non fossero altro son belli

Non fossero altro son belli
i ragazzi che fanno campagna
sui gradini di piazza di Spagna.
Belli per nostalgia
belli senza riguardo
millenni dentro lo sguardo
per qualche giorno di scena.
Adamo seduto sull’erba
spacca la mela acerba,
si dice solo che campa
salendo e scendendo la rampa
di Piazza di Spagna.
Alla barcaccia si bagna
le mani rosse e si beve
il riso delle gengive.
Se dice campa non vive,
aspetta la neve.

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Alfonso Gatto, Tutte le poesie (OscarMondadori)

In apertura, Roma, scorcio del Rione Monti (dal web)

Arnolfo di Cambio, La Natività – sassi di arte

…riproponiamo…

Buon Natale da Il sasso nello stagno di AnGre!Arnolfo di Cambio - 1

Alla domanda “dove si trova il presepe più antico del mondo?”, molti non sapranno rispondere. E’ opera dell’architetto toscano Arnolfo di Cambio (Colle Val d’Elsa 1232 o 1240 – Firenze 8 marzo 1302/1310 circa) e si trova in Santa Maria Maggiore, una delle quattro basiliche papali (dette “maggiori”) di Roma, l’unica ad aver conservato la struttura paleocristiana.

Si tratta della prima rappresentazione scultorea della Natività della storia.  Fu commissionata da Papa Niccolò IV (tra il 1290 e il 1291 circa), il primo frate francescano ad essere divenuto papa che, oltre a essere affezionato al presepe di fatto “inventato” da Francesco d’Assisi – e ricordiamo che quello vivente allestito a Greccio proprio dal santo nel 1223 fu il primo ad essere realizzato –  con la sacra rappresentazione della Natività di Gesù desiderava rendere onore alle reliquie ospitate appunto nella Basilica di Santa Maria Maggiore, nella cui cripta sotto l’altare principale sono tuttora conservate: si tratta di assi di legno che la tradizione ha perpetrato come resti della mangiatoia in cui Gesù Bambino fu deposto la notte della sua nascita. Per questo la basilica posta sulla sommità del colle Esquilino è conosciuta anche come “Sancta Maria ad Praesepe”.

Arnolfo di Cambio - 2

Arnolfo di Cambio si formò alla bottega di Nicola Pisano e con lui lavorò all’Arca di San Domenico nell’omonima chiesa a Bologna (1264-67) e al pulpito del duomo di Siena (1265-1269). A Roma realizzò i cibori delle chiese di San Paolo fuori le Mura e Santa Cecilia in Trastevere, oltre alla celebre statua in bronzo di San Pietro in trono, tuttora oggetto di venerazione nella Basilica di San Pietro.

Le otto statue del Presepe di Arnolfo – la Madonna col Bambino al centro, San Giuseppe appoggiato al suo bastone, le teste del bue e dell’asino e i tre Re Magi, uno dei quali inginocchiato – sembrano scolpiti a tutto tondo ma, come altre sculture di Arnolfo, sono solo create in altorilievo su una superficie di marmo; quindi le figure sono state scolpite solo nelle parti visibili, seguendo in tal modo un criterio di visibilità ben preciso. Si ritiene che la Madonna col Bambino sia un’aggiunta del 1500 (l’originale sarebbe andata perduta); se invece si trattasse dell’originale, la scultura sarebbe stata fortemente ritoccata nel XVI secolo.

Arnolfo di Cambio - 3

Fonti diverse contraddistinguono l’operato di Arnolfo: se da una parte si riconoscono la raffinatezza e l’eleganza degli intagli, tanto da essere paragonata alla scultorea francese (gotico), dall’altra si ritrova il realismo incorporato durante la sua formazione presso Nicola Pisano (romanico). Nonostante questi modelli, alcuni tratti, quali la schieratura ritmica delle figure, la loro solennità che ricorda delle colonne, il modellato ampio e vigoroso insieme alla disposizione scenica, sono riconosciuti come unici del suo stile.

Arnolfo di Cambio - 4

Spesso Arnolfo di Cambio viene ricordato come colui che fu in grado di rappresentare l’azione con una forte carica espressiva e allo stesso tempo realistica e per questa motivazione il suo operato viene spesso paragonato a quello di Giotto, interprete delle prime forme realistiche anche in campo religioso: con Giotto lo spazio diviene campo dell’azione umana e così pure con Arnolfo di Cambio, il quale, però,  è stato spesso visto come colui che determinò l’evoluzione stilistica del giovane responsabile degli affreschi del cantiere di Assisi, ovvero dello stesso Giotto. Riprendendo il presepe di Greccio, Arnolfo realizza un apparato scultoreo unico, in grado di celebrare la Natività in tutta la sua sacralità, coniugando bellezza stilistica e ricerche realistiche avviate in quegli anni, proprio gli stessi in cui si segnerà il passaggio dall’età medievale a quella moderna.

Arnolfo di Cambio - dettagli - 5

Da più di sette secoli le semplici figure medievali, scolpite dall’architetto toscano in una toccante compostezza, raccontano nel silenzio della pietra la storia semplice e meravigliosa di un Dio, che ha scelto di venire nel mondo, come essere umano. (clicca sulle immagini per ingrandirle; fonti varie; per alcune foto si ringrazia Italian Ways)

a cura di Giorgio Chiantini & Angela Greco

La cappella Spada in San Girolamo della Carità in Roma a cura di Giorgio Chiantini – sassi d’arte

…riproponiamo…

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La cappella Spada in San Girolamo della Carità in Roma

La chiesa di San Girolamo della Carità cela un piccolo gioiello del Seicento: è la deliziosa Cappella Spada uno degli esempi più eleganti e bizzarri della teatralità barocca. La cappella è un piccolo ambiente a pianta rettangolare che si apre sul fianco destro della navata della chiesa: sulla parete di fondo è collocato l’altare, inquadrato da due bassi sgabelli rivestiti da finti drappi in marmo e coronati da due urne reliquari: al di sopra dell’altare è posta un’antica icona della Madonna incorniciata da una corona d’alloro in marmo verde antico e da una seconda corona, più esterna, in marmo giallo a foglie di palma; ai lati vi sono due medaglioni ovali con ritratti a rilievo in marmo bianco su sfondo giallo, identificati come San Francesco e San Bonaventura, che sembrano appesi a finti cordoncini in marmo giallo. Ma è guardando più in basso che l’effetto “salotto” della cappella è ancora più evidente: sopra raffinati divani di marmo nero con cuscini di alabastro e abbigliati all’antica sono infatti sdraiati, come fossero vivi, a sinistra Bernardo Lorenzo Spada, vescovo di Calvi, e a destra, Giovanni Spada.

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La cura minuziosa posta nel rievocare l’atmosfera domestica trova soluzione figurativa nella perizia con cui viene trattato il marmo quasi fosse seta decorativa. Anche la balaustra non assomiglia affatto al solito parapetto marmoreo: al suo posto, l’originale idea di sostituirla con due angeli inginocchiati, che reggono un drappo di marmo in diaspro rosso listato di giallo e di bianco, mentre l’accesso è garantito lateralmente, alle spalle dell’angelo di destra, le cui ali sono in legno e ruotano su cardini come un cancelletto.

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La singolarità della cappella, che non ha confronti con altre opere realizzate a Roma negli stessi anni, risiede però nel rivestimento in marmi che ricopre interamente pareti, altare e pavimento e che rappresenta un anomalo caso, nella città papale, di modelli decorativi prettamente napoletani. Inoltre, a differenza delle opere di Borromini e perfino dei modelli partenopei, nella cappella si nota una totale assenza di presenze architettoniche: al suo interno non vi sono colonne o paraste che ne esplicitino la struttura e tutto scompare dietro un parato marmoreo continuo, che si dispiega lungo le pareti interne. Sulla parete di fondo si alternano quattro fasce verticali a motivi vegetali in marmo giallo antico intarsiati su fondo rosso e altre tre fasce verticali in alabastro cotognino di Montalto. La composizione prosegue sulla mensa dell’altare, suddivisa in due riquadri laterali intarsiati e uno centrale in alabastro; mentre su ognuna delle pareti laterali della cappella è adagiata, invece, una sola fascia intarsiata inquadrata da due pannelli di alabastro. I gradini dell’altare e il pavimento – in bardiglio grigio – sono disseminati da un tappeto di fiori recisi in marmo giallo antico.

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Recenti studi hanno rivelato con una certa sorpresa che il suo autore in realtà è Virgilio Spada, fratello dell’eccentrico cardinale Bernardino Spada e non, come a lungo erroneamente ritenuto, un capolavoro poco noto del genio di Francesco Borromini, che sicuramente venne interpellato insieme ad altri artisti e del quale esiste solo un disegno del paliotto dell’altare.
La realizzazione della cappella è legata a due diverse generazioni della famiglia Spada, originaria di Brisighella, in Romagna: Orazio (1537–1607), che la ottiene nel 1595; il fratello Paolo (1541–1631), che nel suo testamento vincola alla costruzione e al restauro delle cappelle di famiglia considerevoli somme, e infine due figli di quest’ultimo, Virgilio (1596–1661) e Bernardino (1594–1661) – l’uno oratoriano, l’altro cardinale – che investono parte dei legati testamentari del padre nella piccola cappella romana, conferendole, fra il 1654 e il 1657, l’aspetto attuale. (Fonti varie dal web e dal libro “I tesori nascosti di Roma” di Gabriella Serio)
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– articolo e fotografie di Giorgio Chiantini –
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Una passeggiata nel Quartiere Coppedè e non solo…foto e video di Giorgio Chiantini – sassi d’arte

Colgo l’occasione della data odierna, 24 maggio, per presentare agli amici de Il sasso nello stagno di AnGre, il nuovo canale tematico di Giorgio Chiantini (qui), collaboratore del blog, aperto da pochi mesi sulla piattaforma YouTube. Sempre attento ai dettagli, elegante e competente in materia e con la maestria fotografica con la quale ci ha deliziato anche su altre piattaforme, Giorgio presenta la sua città, l’amata Roma, in una notevole veste (che ammanta l’Urbe d’ulteriore fascino e pare quasi d’essere lì dal vivo) ricercata dal punto di vista grafico e anche musicale, riunendo, in questo canale dai significativi contributi d’arte – dove le sue fotografie hanno preso le sembianze di video creati da lui stesso, in un evolversi creativo che sottolinea l’energia dell’autore – le sue passioni e la sua sprizzante voglia di condivisione, contribuendo, in modo significativo, a divulgare quella Bellezza con l’iniziale maiuscola, di cui si ha sempre maggior necessità, in tempi come quelli che viviamo. Ringrazio di cuore Giorgio per il dono di questi video, augurandogli, con l’affetto di sempre, in questo giorno, anche buon compleanno. Ad maiora! [AnGre]

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Giovanni Luca Asmundo, Roma città aperta. Liberare lo spazio

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da PERIPLI // POST SCRIPTUM  – blog di poesia a cura di Giovanni Asmundo, parte del progetto itinerante Peripli. Topografia di uno smarrimento che si ringrazia

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Trascrivo dal taccuino una “deriva urbana” che ho compiuto a Roma in ottobre, con una riflessione sulla percezione dello spazio e la necessità della sua apertura.

«In quest’ultima Roma ho attraversato metà del mondo: dai compagni di viaggio centroafricani, generosi nonostante le parole stentate, scambiandoci nella notte storie e biscotti, ai turistoidi sciamanti multilingue ma allegri; dai balli brasiliani ai piedi dei tritoni, agli ameboidi individualisti da smartphone dell’ostello; di Moretti in Moretti, dalle architetture razionaliste coloniali con mostre food&art all’interno, al cinema Nuovo Sacher del caro vecchio Nanni; dal lungotevere di angeli e coppiette abbracciate, alle rive dei barboni ubriachi di plenilunio; dai coworking kitsch da designer (edera finta e ritratti-crosta di sultani), realizzati in malcapitate cappelle seicentesche, al cacio e pepe come ‘na volta con chiasso allegro; dalle poesie in romanesco di un calciatore a quelle in rima baciata dedicate da un anziano alla sua mamma – belle – fino a “poetesse” ingioiellate che organizzano “aperipoetry” in “location” non-meno-dei-castelli-romani e che fanno interpretare i propri testi soltanto da attori da telefilm poliziesco di punta; da precari che studiano appassionati per concorsi pubblici, ad aristoborghesie da aspettachemelatiroancora; dai petali di fiori che non galleggiano più nelle mie fontane preferite, ai fenicotteri rosa di plastica; dall’alba sui Fori alla realtà aumentata sui monumenti; dalle persone gentili sull’autobus della domenica, strette come sardine a Porta Portese, a un vecchio pescatore tiberino e alle ragazze sorridenti su un Gianicolo fiorito e tedesco; da un meraviglioso pranzo domenicale tra Terracina e un quartiere tranquillo, dal moscato alle Sante libanesi, fino a un indimenticabile incontro del dopopranzo con vere anime belle, lettori sinceramente appassionati e professori che conversavano di ebrei marrani, calabresi e acqua brillante; dai ladri di biciclette ai bangladini che vendono caricabatterie; dalle colonne antiche di notte e dall’aurora sulle rovine commoventi, alla luce metafisica dell’EUR con figure spaesate più della Vitti e della Moreau messe insieme in Antonioni».

Due giorni e due notti a piedi attraverso l’umanità romana, 40 km al giorno di ironia e disincanto, scegliendo di liberarsi dalle soluzioni di continuità. Pubblico solo oggi la prima parte di questo esperimento – che alcuni di voi hanno letto in anteprima – dopo averlo rimandato per mesi nell’attesa di avere tempo per costruire un reportage più completo, per una ragione precisa: in queste ultime settimane mi sembra sempre più urgente insistere con vigore sulla necessità di una costruzione alternativa della narrazione del reale, in senso antimediatico.

Tengo a una città democratica, orizzontale, in cui lo spazio sia comune a tutti e tutti si guardino in viso, in cui i vernissage d’arte coesistano con i samosa in una via semicentrale. Uno spazio che noi tutti edifichiamo con azioni e parole aperte, quotidianamente, senza nemmeno accorgercene, poiché si tratta di un processo assolutamente naturale. Tuttavia, la lettura e l’interpretazione spontanea della realtà oggettiva stanno diventando sempre più un campo in cui giocare sottilmente la partita della manipolazione dell’opinione pubblica.

Spingendosi oltre, tale storytelling politico-mediatico può trasformarsi in uno strumento attraverso il quale alimentare esclusioni sociali costruite ad hoc, che mascherino le marginalità reali in cui larga parte della popolazione viene progressivamente relegata, tendendo a quella metropoli privata di qualità che Danilo Dolci definiva “omile”.

L’osservazione-ascolto e la rappresentazione della realtà fisica e delle sue stratificazioni, dunque, mi sembrano sempre più necessarie per toccare con mano una “verità” dei fenomeni, così come la vita delle persone.

Dal punto di vista del metodo, ad esempio, è possibile decidere come collocarsi fisicamente e spostarsi nello spazio urbano, come compiere un moto liberato, tagliando la città in pianta e in sezione. Muoversi attraverso di essa senza condizionamenti diviene sempre più una scelta culturale rilevante, un atto democratico.

Decostruire le gerarchie esistenti e un immaginario basato sulla sola informazione, oltrepassando vetri invisibili, aprendo lo spazio in cui viviamo, può consentire tanto un’esperienza quanto una rappresentazione della realtà ben più prossima a ciò che davvero ci circonda.

(Articolo e foto di G. Asmundo)

PS. Il pretesto per il viaggio a Roma in cui si è svolto l’esperimento è stato la lettura di una poesia sulle migrazioni senza tempo nel Mediterraneo, tra nòstoi e barconi, partecipando all’evento internazionale no profit 100 Thousand Poets for Change.

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Giovanni Luca Asmundo (QUI – in questo blog), architetto, vive e lavora a Venezia. Vincitore di concorsi nazionali di poesia, narrativa e prosa lirica, è presente nelle antologie Poesia e luce: Venezia, a cura di Marco Nereo Rotelli (2015) e Trittico d’esordio, a cura di Anna Maria Curci (Edizioni Cofine, 2017), oltre che in una serie di e-book curati dal blog “La presenza di Erato”. È tra i fondatori del progetto di poesia e fotografia “Peripli. Topografia di uno smarrimento”  ed è stato co-curatore di “Congiunzioni. Festival di poesia e video arte 2015”.

L’albero della vita – sassi d’arte

L’albero della vita, mosaico, 1118 c.a 

Roma, San Clemente, abside della basilica superiore

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A Roma, nei pressi del Colosseo, lungo la strada che sale gradualmente verso San Giovanni in Laterano, si trova una basilica intitolata a San Clemente I Papa, terzo successore di Pietro al soglio pontificio. L’opera architettonica risalente al IV secolo fu ampiamente devastata dai Normanni nel 1084; nel 1110, durante una fase particolarmente acuta della lotta alle investiture, allorché le nomine vennero nuovamente proibite, Papa Pasquale II ordinò che la chiesa fosse ricostruita sulle rovine della chiesa interrate della basilica precedente. Come se si trattasse di esorcizzare l’antico potere della Chiesa contro l’Impero, per la ricca decorazione interna della basilica ci si orientò verso reperti formali tratti dalle chiese paleocristiane; anzi, nel nuovo impianto furono integrati programmaticamente parecchi arredi della costruzione più antica (soprattutto suppellettili che vi erano state aggiunte nel V e nel VI secolo).

Anche un’opera nuova, che oggi eclissa tutto il resto, evoca sotto un certo aspetto l’arte paleocristiana. Parliamo del mosaico dell’abside, la cui composizione è dominata dalla croce. Il suo carattere fenomenico, che si manifesta mediante un meraviglioso tono di azzurro, richiama alla mente l’arte dello smalto. Maria e San Giovanni stanno ai lati della croce, ai cui piedi sgorgano i quattro fiumi del paradiso, ai quali si abbeverano i cervi. Scorgiamo, poi, la fenice, l’uccello fantastico che simboleggia l’immortalità. Dodici colombe bianche, che incarnano gli apostoli, occupano le assi verticale e trasversale della croce. In una nicchia ricavata dietro l’emblema della passione, è inserito un vero frammento della croce insieme ad altre reliquie (il mosaico assume perciò la funzione di stauroteca, reliquiario destinato ai frammenti della croce di Cristo). Sopra la croce si apre la volta celeste stellata, da cui scende la mano benedicente di Dio.

La decorazione vegetale fatta di incantevoli tralci di acanto ritorti, che riempie il catino absidale, rimanda al paradiso e identifica la croce come “l’albero della vita”; al contempo, l’intreccio dei tralci intorno al legno della croce regala vita e nutrimento a uomini e donne di ogni professione, anzi a ogni creatura. Tra le figure spiccano quattro personaggi vestiti semplicemente di bianco e nero, che rappresentano i padri della Chiesa latina, i santi Agostino, Gerolamo, Gregorio e Ambrogio. Il fregio sottostante, con l’Agnello dell’Apocalisse, ricorda nuovamente la Gerusalemme celeste e, poiché sopra l’arco di trionfo sono raffigurati i santi Pietro, Clemente, Paolo e Lorenzo e i profeti Geremia e Isaia, la resa visiva della redenzione include in sé anche la storia della Chiesa. In sintesi, il programma iconografico esaltava idealmente il Papa (sostenendo le pretese universalistiche della chiesa cattolica), il quale, in carne e ossa, sedeva in trono giù nell’abside.

Non a caso un simile messaggio era espresso a livello stilistico mediante il richiamo a modelli antichi. Gli artefici dell’opera ricordavano bene l'”impressionismo” che caratterizzava i mosaici romani del V secolo, quelli in Santa Pudenziana o in Santa Maria Maggiore e, come allora, accentuarono l’incarnato o il panneggio con strisce di tessere da mosaico di marmo bianco, circondate da frammenti di vetro neri e grigi (secondo l’antica tecnica romana).

Nei mosaici dei luoghi antichi paleocristiani comparivano anche scene di genere; le ritroviamo in San Clemente, arricchite con uccelli acquatici come quelli raffigurati un tempo lungo il bordo della cupola di Santa Costanza, con foglie di vite e grappoli d’uva disseminati qua e là e putti sgambettanti.

(tratto e adattato dal volume Romanico, Taschen Ed. – immagini dal web)

 

Guido Reni: San Michele e la faccia del diavolo, di Giorgio Chiantini – sassi d’arte

……….“Una pittura argentea capace di raggiungere livelli straordinari di intensa delicatezza fissando i canoni di una bellezza virtuosa, una bellezza che si propone come modello estetico e morale. Immerse in un idealismo classicheggiante, le opere di Guido Reni ripercorrono i sentieri idilliaci del mito e della storia antica con uno sguardo di stima verso l’eredità culturale del Rinascimento. Una ricerca del vero necessaria e fortemente voluta, ma depurata dei suoi aspetti più volgari fino alla sublime rappresentazione del vero ideale.

Quel sottile e fragile equilibrio che cerca di mediare la purezza del divino con l’oscurità del vero si evince da ogni sua opera capace di coniugare l’ esigenza di verità caravaggesca con il divino classicismo di Raffaello nel complesso confrontarsi con la tradizione. Vesti fruscianti, delicati panneggi, volti fanciulleschi testimoniano l’alto senso della bellezza risultato finale di un approccio conservatore che ripropone la monumentalità antica ed il naturalismo contemporaneo.”[dal sito finestrasullarte]

In via Veneto, a breve distanza da piazza Barberini, sorge la chiesa di S. Maria della Concezione fatta edificare nel 1624 dal cardinale Antonio Barberini, cappuccino e fratello del pontefice Urbano VIII (1623-44). Sull’altare della prima cappella a destra è esposto uno splendido dipinto ad olio su seta raffigurante “San Michele che abbatte il demonio”. Fu eseguito intorno al 1635, su commissione del cardinale sopracitato, dal bolognese Guido Reni, uno dei massimi esponenti del classicismo, famoso anche per il suo carattere stravagante: molto ricco ed avvenente, il pittore amava il gioco d’azzardo ed era capace di passare delle intere notti a giocare a carte, aveva estrema cura del suo aspetto e qualche fobia, come quella di vivere nella continua paura di essere avvelenato.

Michele – capo supremo dell’esercito celeste, degli angeli fedeli a Dio, il cui nome significa “chi come Dio?” – l’arcangelo impegnato nella lotta contro il male, è rappresentato da Reni come un giovinetto di rara bellezza, forte e delicato al tempo stesso, che, con la spada sguainata, respinge all’inferno un irritato diavolo, di cui calpesta il capo con il piede; il quadro suscitò l’ammirazione dei contemporanei, ma anche un vespaio di polemiche all’atto dell’esposizione nella chiesa dei Cappuccini.

Occorre ricordare che, tra le famiglie romane del Seicento, spiccavano i Barberini ed i Pamphili, sempre in competizione tra loro per affermare il proprio prestigio. Secondo quanto si racconta, Guido Reni venne a sapere che il cardinale Giovanni Battista Pamphili, il futuro papa Innocenzo X (1644-55), in qualche modo gli aveva arrecato offesa o, forse, lo aveva diffamato, parlando in maniera poco felice dell’artista, ragione per cui Reni, si racconta, mise in atto una subdola vendetta.

L’artista avrebbe inserito il ritratto del cardinale sulla tela precisamente nel volto, contratto da una smorfia di dolore, di Satana schiacciato dal piede dell’Arcangelo Michele. In effetti, la somiglianza può essere verificata (foto qui sotto) confrontando questo dettaglio del volto del diavolo nel quadro di Reni con il ritratto di Innocenzo X eseguito da Diego Velasquez: stesso volto altezzoso, uguale fronte stempiata, simile persino il taglio della barba. Una tale mancanza di rispetto per un Pamphili, inoltre, avrebbe certo fatto piacere al committente dell’opera, appartenente alla famiglia rivale dei Barberini. L’artista così si espresse, circa la realizzazione dell’opera: “Vorrei aver avuto pennello angelico, o forme di Paradiso per formare l’Arcangelo, o vederlo in Cielo; ma io non ho potuto salir tant’alto, ed invano l’ho cercato in terra. Sicché ho riguardato in quella forma che nell’idea mi sono stabilita e dovetti dipingerlo secondo la mia fantasia. Il demone invece l’ho incontrato parecchie volte, l’ho guardato attentamente e ho fissato i suoi tratti proprio come li ho visti”.

Nella mente geniale dell’artista l’idea chiara e definita che il bene – personificato da San Michele – abbracci il bello, accompagna la mente dell’osservatore verso la comprensione della più antica lotta tra bene e male, in contrapposizione con lo sguardo demoniaco di Satana, così fortemente espressivo, testimone della sconfitta ormai sopraggiunta. Ma questo sguardo nasconde, forse, una personale vendetta dell’artista nei confronti di un potente uomo di Chiesa? Non era certo colpa sua se il Cardinale Pamphili somigliava alla sua visione di Satana in modo così imbarazzante! Si giustificò Guido Reni al cospetto del Cardinale stesso, che, vedendosi ritratto in sembianze demoniache, protestò vivamente nei suoi confronti. Certo è che il cardinale si pentì di aver riservato all’artista parole ben poco piacevoli sul suo operato artistico. Quando, nel 1644, Giovanni Battista Pamphili salì al soglio pontificio con il nome di Papa Innocenzo X, Guido Reni era già morto da due anni e ormai al sicuro da qualsiasi possibile vendetta. Ma se l’arte, la vera arte, è eterna, allora la vendetta dell’artista avrà ancora lunga vita. [Giorgio Chiantini – adattamento fonti varie dal web]

Stolpersteine: Memorie d’inciampo a Roma – sassi d’arte

Passeggiando per le vie di Roma ci si può imbattere in un sampietrino davvero particolare: una targa in ottone lucente, che ricopre il blocchetto del lastricato tipico del centro storico della città eterna e che spicca tra tutti gli altri creando un “inciampo” metaforico nella nostra mente, un inciampo nella memoria, nella storia, camminando per Roma. Una pietra che diventa monumento senza emergere dalla terra, ma affondando all’interno di essa.  Non s’impone, ma vi si inciampa casualmente: sono le Pietre d’inciampo (in tedesco Stolpersteine), una iniziativa dell’artista tedesco Gunter Demnig per depositare, nel tessuto urbanistico e sociale delle città europee, una memoria diffusa dei cittadini deportati nei campi di sterminio nazisti. L’iniziativa, attuata in diversi paesi europei, consiste nell’incorporare, nel selciato stradale delle città, davanti alle ultime abitazioni delle vittime di deportazioni, dei blocchi in pietra ricoperti al di sopra con una piastra di ottone. L’iniziativa è partita a Colonia nel 1995 e ha portato, a inizio 2016, all’installazione di oltre 56 000 “pietre” (la cinquantamillesima pietra è stata posata a Torino) in vari paesi europei: Austria, Belgio, Bielorussia, Croazia, Francia, Germania, Grecia, Italia[1], Lituania, Lussemburgo, Norvegia, Paesi Bassi, Polonia, Slovacchia, Slovenia, Spagna, Svizzera, Repubblica Ceca, Romania, Russia, Ucraina e Ungheria.

La memoria consiste in una piccola targa d’ottone delle dimensioni di un sampietrino (10 x 10 cm), posta davanti alla porta della casa in cui abitò la vittima del nazismo o nel luogo in cui fu fatta prigioniera, sulla quale sono incisi il nome della persona, l’anno di nascita, l’eventuale data ed luogo di deportazione e la data di morte, se conosciuta. Questo tipo di informazioni intendono ridare individualità a chi si voleva ridurre soltanto a numero. Le pietre d’inciampo vengono posate in memoria delle vittime del nazismo, indipendentemente da etnia e religione. La prima, ad esempio, fu posata a Colonia in ricordo di mille tra Sinti e Rom deportati nel maggio del 1940 e nel tempo si è creata un’insolita mappa della memoria, nella quale chiunque può imbattersi casualmente, o intenzionalmente, se ci si muove sul filo della ricerca storica.

L’idea di Demnig risale al 1993 quando l’artista e’ invitato a Colonia per un’installazione sulla
deportazione di cittadini rom e sinti. All’obiezione di un’anziana signora secondo la quale a Colonia non avrebbero mai abitato rom, l’artista decide di dedicare tutto il suo lavoro successivo alla ricerca e alla testimonianza dell’esistenza di cittadini scomparsi a seguito delle persecuzioni naziste: ebrei, politici, militari, rom e omosessuali. I primi Stolpersteine risalgono al 1995, a Colonia; da allora ne sono stati installati piu’ di 22.000 in Germania, Austria, Ungheria, Ucraina, Cecoslovacchia, Polonia, Paesi Bassi.

Chiunque inciampi oggi in un sampietrino così particolare, non può non soffermarsi, riflettere e interrogarsi su ciò che vede e legge, attivando un vero e proprio viaggio nella storia. Nella foto d’apertura, alcune delle pietre d’inciampo installate a Roma nel 2012 in Via della Madonna dei Monti 82. L’inciampo non è fisico ma visivo e mentale, costringe chi passa a interrogarsi su quella diversità e agli attuali abitanti della casa a ricordare quanto accaduto in quel luogo e a quella data, intrecciando continuamente il passato e il presente, la memoria e l’attualità. Gli Stolpersteine sono un segno concreto e tangibile, ma discreto e anti-monumentale, che diviene parte della città, a conferma che la memoria non può risolversi in un appuntamento occasionale e celebrativo, ma costituire parte integrante della vita quotidiana. Queste pietre della memoria sono finanziate da chi li richiede ed il costo di ognuno è di 100 euro.[Giorgio Chiantini testo e fotografie; tratto ed integrato da Wikipedia e dal sito beniculturali.it].

Il 9 marzo, a Roma, il monastero di Tor de’ Specchi apre le sue porte – a cura di Giorgio Chiantini per sassi d’arte

Per il 9 marzo riproponiamo questa suggestiva visita in un luogo sacro di Roma; in occasione della festa di Santa Francesca Romana, il monastero apre le sue porte: siate i benvenuti in questo scrigno di santità e bellezza, nell’unico giorno all’anno in cui è possibile accedervi.

Il sasso nello stagno di AnGre

………A Via del Teatro di Marcello, nel cuore della città di Roma e ai piedi del campidoglio, fra la basilica di Santa Maria in Aracoeli e le imponenti rovine del Teatro di Marcello, al civico 40 si trova Il monastero di Tor de’ Specchi. A chi ricerchi ed ami le sopravvivenze del passato, si presenta anche oggi come una tranquilla terra claustrale di altri tempi, sfuggita alle moderne rinnovazioni, appartata, silenziosa e lontana dai mutevoli eventi che intorno maturano e si avvicendano…

Purtroppo il monastero apre le sue porte solo una volta l’anno, il 9 marzo, in occasione della festa di Santa Francesca Romana e finalmente dopo vari tentativi, lo scorzo 9 marzo, sono riuscito a varcarne la soglia provando la sensazione di uscire dall’età nostra e risalire per un lungo tratto nel corso degli anni. Tanta è stata la meraviglia nel visitarlo che successivamente parlandone con Angela, abbiamo…

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Gian Lorenzo Bernini e la narrazione del Ratto di Proserpina a cura di Giorgio Chiantini – sassi d’arte

di Giorgio Chiantini – Torno ancora una volta alla Galleria Borghese di Roma, un contenitore di meravigliose opere d’arte collezionate nel tempo dal cardinale Scipione Caffarelli-Borghese, nipote di Camillo Borghese (fratello di Ortensia Borghese madre di Scipione) eletto papa nel 1605 col nome Paolo V, che lo nominò cardinale e, adottandolo, gli fece acquisire il diritto di usare il nome e l’arme della famiglia Borghese. Suscita sempre meraviglia tornare in questo luogo e, per il caso fortuito di una mostra ospitata in questi luoghi negli ultimi mesi del 2017 ed i primi del nuovo anno, ho avuto la possibilità di scattare delle foto, al Ratto di Proserpina di Gian Lorenzo Bernini, forse una delle sue opere più affascinanti.

Il grande gruppo marmoreo raffigura Plutone, potente dio e re degli Inferi, che rapisce Proserpina, figlia di Gea, la terra, e la porta a vivere con sé nel suo buio mondo. Il mito, presente sia in Claudiano (De raptu Proserpine) che in Ovidio (Metamorfosi, V, 385-424), narra del rapimento della fanciulla sulle rive del lago di Pergusa, nelle vicinanze di Enna e di come la madre della stessa, tramite l’intercessione di Giove, ottenne il permesso di far tornare per sei mesi all’anno la figlia sulla terra, salvo poi farle trascorrere gli altri sei mesi nel regno di Plutone. Il gruppo fu eseguito tra il 1621 e il 1622 e il cardinale Scipione lo regalò nello stesso anno al cardinale Ludovisi, nipote di Gregorio XV (1621-23), raffinato collezionista e proprietario di una villa, purtroppo scomparsa, che da Porta Pinciana giungeva quasi alla zona della Stazione Termini, in cui rimase fino al 1908, quando, acquistato dallo Stato italiano, tornò nella collezione di Galleria Borghese.

In quest’opera Bernini sviluppa il tema della torsione elicoidale dei corpi, memore della tradizione manierista; la verità dell’azione, come l’impeto delle figure, però, va ricercata attraverso lo studio profondo dei modelli antichi. La forza plastica, l’intensità espressiva della fanciulla, non trovano riscontro nelle opere contemporanee alla realizzazione del Ratto. Lo scultore ha scelto di rappresentare un momento preciso della narrazione, quello culminante dell’azione raccontata dal mito, il rapimento della fanciulla: il fiero e insensibile Plutone che sta trascinando Proserpina nell’Ade contro la sua volontà, è rappresentato con tutti i muscoli tesi nello sforzo di sostenere il corpo di lei, che si sta divincolando, e le mani, che sembrano addirittura affondare nella muliebre carne, in una libertà di movimenti resa possibile dalla padronanza assoluta della tecnica, spinta fino a sfiorare i limiti fisici del marmo.

Il gruppo, spesso visto soltanto nell’abbagliante bellezza d’insieme suscitata appena ci si ritrova al cospetto, ad un’analisi più dettagliata rivela una particolarità non da poco: visto da sinistra rappresenta il cacciatore nell’atto di prendere al volo la preda con passo potente e spedito; visto di fronte, mostra il vincitore trionfante fermo con il trofeo in braccio; visto da destra, invece, lascia la possibilità di scorgere il momento forse più umano della scena, quello rappresentato dalle lacrime di Proserpina, che innalza la sua preghiera al cielo, con il vento che le sconvolge la chioma e il cane a tre teste, guardiano infernale, che abbaia. In pratica, sintetizzata in un’unica immagine, si ritrova la sequenza temporale dei momenti salienti della storia, leggibile esattamente da sinistra verso destra come in un libro.

E’ stata sempre sottolineata la particolare vicinanza del gruppo alle sculture antiche, come i Niobidi (all’epoca della realizzazione berniniana ospitati a Villa Medici e ora sostituiti con delle copie esposte nel giardino) per il volto di Proserpina, o quello del Pedagogo (oggi Uffizi), per il passo che richiama, ma anche l’Ercole che ammazza Idra, restaurato dall’Algardi (ora ai Musei Capitolini). Quanto al tema del “gruppo di figure” esisteva già un famoso esempio nel cortile di Palazzo Farnese a Roma, dove si poteva ammirare il Toro Farnese (oggi custodito presso il Museo Archeologico di Napoli), ma i grandi gruppi marmorei dello scultore del cardinale, il Bernini, dovevano superare ogni confronto.

(fonti: adattamento da web e Guida alla Galleria Borghese; immagini di Giorgio Chiantini)

Arnolfo di Cambio, La Natività – sassi di arte

Buon Natale da Il sasso nello stagno di AnGre!Arnolfo di Cambio - 1

Alla domanda “dove si trova il presepe più antico del mondo?”, molti non sapranno rispondere. E’ opera dell’architetto toscano Arnolfo di Cambio (Colle Val d’Elsa 1232 o 1240 – Firenze 8 marzo 1302/1310 circa) e si trova in Santa Maria Maggiore, una delle quattro basiliche papali (dette “maggiori”) di Roma, l’unica ad aver conservato la struttura paleocristiana.

Si tratta della prima rappresentazione scultorea della Natività della storia.  Fu commissionata da Papa Niccolò IV (tra il 1290 e il 1291 circa), il primo frate francescano ad essere divenuto papa che, oltre a essere affezionato al presepe di fatto “inventato” da Francesco d’Assisi – e ricordiamo che quello vivente allestito a Greccio proprio dal santo nel 1223 fu il primo ad essere realizzato –  con la sacra rappresentazione della Natività di Gesù desiderava rendere onore alle reliquie ospitate appunto nella Basilica di Santa Maria Maggiore, nella cui cripta sotto l’altare principale sono tuttora conservate: si tratta di assi di legno che la tradizione ha perpetrato come resti della mangiatoia in cui Gesù Bambino fu deposto la notte della sua nascita. Per questo la basilica posta sulla sommità del colle Esquilino è conosciuta anche come “Sancta Maria ad Praesepe”.

Arnolfo di Cambio - 2

Arnolfo di Cambio si formò alla bottega di Nicola Pisano e con lui lavorò all’Arca di San Domenico nell’omonima chiesa a Bologna (1264-67) e al pulpito del duomo di Siena (1265-1269). A Roma realizzò i cibori delle chiese di San Paolo fuori le Mura e Santa Cecilia in Trastevere, oltre alla celebre statua in bronzo di San Pietro in trono, tuttora oggetto di venerazione nella Basilica di San Pietro.

Le otto statue del Presepe di Arnolfo – la Madonna col Bambino al centro, San Giuseppe appoggiato al suo bastone, le teste del bue e dell’asino e i tre Re Magi, uno dei quali inginocchiato – sembrano scolpiti a tutto tondo ma, come altre sculture di Arnolfo, sono solo create in altorilievo su una superficie di marmo; quindi le figure sono state scolpite solo nelle parti visibili, seguendo in tal modo un criterio di visibilità ben preciso. Si ritiene che la Madonna col Bambino sia un’aggiunta del 1500 (l’originale sarebbe andata perduta); se invece si trattasse dell’originale, la scultura sarebbe stata fortemente ritoccata nel XVI secolo.

Arnolfo di Cambio - 3

Fonti diverse contraddistinguono l’operato di Arnolfo: se da una parte si riconoscono la raffinatezza e l’eleganza degli intagli, tanto da essere paragonata alla scultorea francese (gotico), dall’altra si ritrova il realismo incorporato durante la sua formazione presso Nicola Pisano (romanico). Nonostante questi modelli, alcuni tratti, quali la schieratura ritmica delle figure, la loro solennità che ricorda delle colonne, il modellato ampio e vigoroso insieme alla disposizione scenica, sono riconosciuti come unici del suo stile.

Arnolfo di Cambio - 4

Spesso Arnolfo di Cambio viene ricordato come colui che fu in grado di rappresentare l’azione con una forte carica espressiva e allo stesso tempo realistica e per questa motivazione il suo operato viene spesso paragonato a quello di Giotto, interprete delle prime forme realistiche anche in campo religioso: con Giotto lo spazio diviene campo dell’azione umana e così pure con Arnolfo di Cambio, il quale, però,  è stato spesso visto come colui che determinò l’evoluzione stilistica del giovane responsabile degli affreschi del cantiere di Assisi, ovvero dello stesso Giotto. Riprendendo il presepe di Greccio, Arnolfo realizza un apparato scultoreo unico, in grado di celebrare la Natività in tutta la sua sacralità, coniugando bellezza stilistica e ricerche realistiche avviate in quegli anni, proprio gli stessi in cui si segnerà il passaggio dall’età medievale a quella moderna.

Arnolfo di Cambio - dettagli - 5

Da più di sette secoli le semplici figure medievali, scolpite dall’architetto toscano in una toccante compostezza, raccontano nel silenzio della pietra la storia semplice e meravigliosa di un Dio, che ha scelto di venire nel mondo, come essere umano. (clicca sulle immagini per ingrandirle; fonti varie; per alcune foto si ringrazia Italian Ways)

a cura di Giorgio Chiantini & Angela Greco