Rileggiamo l’opera: Maestà di Santa Trinita di Firenze – sassi d’arte

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Cimabue, Maestà di Santa Trinita (1270)

tempera su tavola, cm 385 x 223 – Galleria degli Uffizi, Firenze

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 “In questa tavola, che secondo la tradizione Cimabue realizzò per la chiesa di Santa Trinita di Firenze e oggi conservata agli Uffizi, troviamo alcuni dei maggiori traguardi raggiunti dal maestro fiorentino. Essa è stata realizzata tra il 1280 e il 1290, in una fase quindi molto matura del percorso artistico di Cimabue. Il tema della Maestà in trono è molto diffuso in tutta la pittura del Duecento italiano, ed è una delle composizioni che, nella sua immanente ieraticità, più risente della influenza dello stile bizantino, dal quale i pittori italiani cercano di distaccarsi. Ed anche questa tavola del Cimabue risente dei grandi precedenti bizantini, conservandone alcuni tratti stilistici, in particolare la visione frontale, l’uso molto esteso del colore oro, nonché le lumeggiature dorate che utilizza per la veste della Madonna.

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 Ma la grande novità di questa pala d’altare sta soprattutto nella straordinaria costruzione spaziale, che viene impostata secondo una composizione del tutto inedita per il tempo. La Madonna siede su un trono che è quasi un’architettura, con il suo ritrarsi in una forma convessa, lasciando aprire al di sotto tre campate dal quale si affacciano quattro profeti. Nel suo complesso, questo trono così articolato sembra quasi la sezione di una cattedrale a tre navate, e non è quindi da escludere il significato simbolico del trono sul quale la Madonna siede e che quindi rappresenta la Chiesa. Nelle tre nicchie sottostanti al trono si affacciano quattro profeti: ai due lati abbiamo Geremia e Isaia (il primo è quello a destra guardando), mentre nella nicchia centrale vi sono Abramo e David che rappresentano la dinastia dalla quale è disceso Gesù.

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 Ai lati della Madonna e del Bambino ci sono quattro angeli per parte, la cui collocazione spaziale appare decisamente inedita. Gli angeli non sono semplicemente uno sopra l’altro, ad occupare in verticale lo spazio ai lati del trono: ma appaiono come sfalsati in profondità. È questa la prima volta che ciò accade, con l’evidente intento di dare profondità spaziale all’intera costruzione spaziale dell’immagine. Del resto anche i due profeti Geremia e Isaia, nelle due nicchie in basso, con il loro alzare lo sguardo verso l’alto, già suggeriscono delle direzioni spaziali che sono di precisa tridimensionalità: essi non stanno “sotto” ma “davanti”. Quindi lo spazio non è pensato e realizzato sulla bidimensionalità della tavola, ma sulla scatola spaziale che visivamente avvertiamo oltre il piano della rappresentazione.491px-Cimabue_035 Il percorso della successiva arte italiana è così tracciato: in Giotto, e in tutti i suoi seguaci, il piano di rappresentazione diviene sempre più trasparente per aprirsi ad uno spazio virtuale, e tridimensionale, oltre il piano sul quale giace materialmente l’immagine.”

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Nota – Il pittore fiorentino Cenni di Pepo soprannominato Cimabue fu uno dei principali protagonisti della pittura italiana della fine del Duecento, così come ci testimonia anche Dante in un famoso passaggio della Divina Commedia (Credette Cimabue ne la pittura / tener lo campo, e ora ha Giotto il grido, / sì che la fama di colui è scura – Purg. XI, 94-96). Poche le notizie della sua vita: la sua attività è documentata tra il 1272 e il 1302. Secondo il Vasari fu egli il primo pittore italiano a distaccarsi dallo stile bizantino per dar vita al nuovo linguaggio pittorico italiano. In realtà Giorgio Vasari tendeva a sopravvalutare la portata storica del contributo fiorentino al rinnovamento pittorico italiano, mentre la presenza a Roma di Cimabue nel decennio ’70 lo colloca in stretto rapporto con l’ambiente pittorico romano dominato in quegli anni dalle figure di Pietro Cavallini e Jacopo Torriti. Fondamentali alla formazione di Cimabue furono anche due pittori fiorentini quali Coppo di Marcovaldo e Giunta Pisano, i cui modi tardo bizantini furono proprio il punto di partenza dell’evoluzione stilistica di Cimabue.

Ma la pittura del maestro fiorentino se ne distaccò per due parametri fondamentali: la maggiore resa volumetrica delle figure attraverso un chiaroscuro di grande forza plastica e la ricerca di una umanizzazione delle figure che rompe definitivamente con la ieraticità delle immagini bizantine.

Non molte le sue opere pervenutici, alcune delle quali rovinate anche da recenti eventi, quale l’alluvione a Firenze del 1966 che produsse gravi danni al suo Crocefisso della Chiesa di Santa Croce. Diverse le sue opere su tavola, mentre la sua produzione ad affresco si concentra nei lavori eseguiti per le due basiliche di San Francesco ad Assisi. 

[tratto da Storia dell’Arte, dal Gotico al Barocco; per questo articolo si ringrazia francescomorante.it – immagini dal web]

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Rileggiamo l’opera: Madonna Lochis – sassi d’arte

Giovanni Bellini - Madonna Lochis

Giovanni BelliniMadonna Lochis

olio su tavola, cm 47×34 (1475 c.a) – Bergamo, Accademia Carrara

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Del pittore italiano rinascimentale Giovanni Bellini (Venezia, 1433 – Venezia, 29 novembre 1516), sono conservate un gran numero di Madonne con Bambino, ad indicare quanto fosse elevata la richiesta sul mercato della devozione privata. L’artista, però, non si abbandonò mai ad effettuare ripetizioni di medesimi soggetti, quanto piuttosto preferì in ogni opera – proprio come nel caso della Madonna Lochis – rielaborare in nuova ottica elementi già presenti in opere precedenti.

Maria col Bambino in braccio sono raffigurati in primo piano oltre la consueta balaustra marmorea, dove su un cartellino è appeso il cartiglio con la firma dell’artista: IOANNES BELLINVS. Le loro figure sono salde e monumentali e spiccano, anche da un punto di vista cromatico, sullo sfondo bruno, che imita un drappo steso, dove si vedono ancora le pieghe. Sebbene la scena presenti elementi tradizionali, come il volto di Maria, ispirato forse a una Basilissa bizantina, dolcissimo e al tempo stesso pensoso per la riflessione sulla tragica sorte destinata al figlio, vi sono anche elementi innovativi, come la posa in diagonale del Bambino, che si muove vivacemente, in contrasto con la posizione assiale di Maria. Oltre che un accorgimento compositivo, la scelta riflette anche il contrasto tra la maiestas di Maria e la vitalitas di Gesù. Il dipinto è databile all’inizio della fase matura dell’artista, anche se vi si leggono ancora alcune rigidità derivate dall’influenza, non ancora dissolta, di Andrea Mantegna, come i preziosi riflessi dorati del panneggio che appare solido come una scultura. (da Wikipedia)

Lo sfondo interpretato come una stoffa appena spiegata, si allarga fino ai limiti della tavola, richiamando gli sfondi scuri della ritrattistica contemporanea. Le dimensioni del parapetto, cui è dato un forte rilievo prospettico, vengono ampliate. Il piano serve da base di appoggio e palcoscenico per la posa di Gesù, che vuole forse evocare la sua caduta da adulto, mentre sale al Calvario.In quasi tutte le madonne belliniane, infatti, è presente il richiamo al destino del Salvatore, sottolineato anche dall’aspetto malinconico ed introspettivo della Madonna, che spesso distoglie lo sguardo dal Figlio. L’espressione di quest’ultimo non ha nulla di infantile e rimanda piuttosto all’inellutabilità del suo destino. Alla complessità di significato si accompagna un’esecuzione di grande raffinatezza, che ricorre anche all’antico espediente delle lumeggiature in oro per il manto blu della Vergine. (da: Bellini, i grandi maestri dell’arte, Skira Editore)

Stabat Mater

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Tiziano Vecellio, Mater Dolorosa (1550-1555), Museo del Prado, Madrid

Stabat Mater è una sequenza liturgica in onore della Madonna, trasmessa in molte redazioni e presto accolta in vari messali (dalla metà del 14° sec.), fino a essere inserita nel Messale romano da Benedetto XIII (1727). Quasi certamente ne è autore Iacopone da Todi. Composta da due coppie di ottonari rimati, ciascuna delle quali seguita da un senario sdrucciolo, può essere rappresentata anche sotto forma di azione scenica. Fra le realizzazioni polifoniche o concertanti del testo si ricordano quelle di J. Desprez, G. Pierluigi da Palestrina, O. di Lasso, E.R. Astorga, A. Vivaldi, A. e D. Scarlatti, G.B. Pergolesi, L. Boccherini, F.J. Haydn, F. Schubert, G. Rossini, G. Verdi, A. Dvorak, K. Szymanowski, F. Poulenc, K. Penderecki. [Enciclopedia Treccani]

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Warsztat Krakowski, Pietà di Tubadzin (1450), Museo Nazionale di Varsavia

Stabat Mater (dal latino per Stava la madre) è una preghiera – più precisamente una sequenza – cattolica del XIII secolo quasi certamente attribuita a Jacopone da Todi. La prima parte, che inizia con le parole Stabat Mater dolorosa (“La Madre addolorata stava”) è una meditazione sulle sofferenze di Maria, madre di Gesù, durante la crocifissione e la Passione di Cristo. La seconda parte della preghiera, che inizia con le parole Eia, mater, fons amóris (“Oh, Madre, fonte d’amore”) è, invece, una invocazione in cui l’orante chiede a Maria di renderlo partecipe del dolore provato da Maria stessa e dal Cristo.

È recitata in maniera facoltativa durante la messa dell’addolorata (15 settembre) e le sue parti formano gli inni latini della stessa festa. Prima della Riforma liturgica era utilizzata nell’ufficio del venerdì della settimana di passione (Madonna dei sette dolori – venerdì precedente la Domenica delle Palme). Ma popolarissima era soprattutto perché accompagnava il rito della Via Crucis e la processione del Venerdì santo. Un canto amatissimo dai fedeli, non meno che da intere generazioni di musicisti colti. (dal web)

(c) Dulwich Picture Gallery; Supplied by The Public Catalogue Foundation
Guido Reni, Mater dolorosa, XVII sec., Dulwich Picture Gallery, Londum pendébat Fílius.iuxta crucem lacrimósa,

La Domenica delle Palme

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Nel calendario liturgico cattolico la Domenica delle palme è celebrata la domenica precedente quella di Pasqua e con essa ha inizio la settimana santa. Nella forma ordinaria del rito romano essa è detta anche domenica De Passione Domini (della passione del Signore) ed è una festività osservata non solo dai cattolici, ma anche dagli ortodossi e dai protestanti (ovvero le religioni che riconoscono Cristo).

In questo giorno la Chiesa ricorda il trionfale ingresso di Gesù in Gerusalemme in sella ad un asino, osannato dalla folla che lo salutava agitando rami di palma. La folla, radunatasi a voce per l’arrivo di Gesù, stese a terra i mantelli, mentre altri tagliavano rami dagli alberi intorno e, agitandoli festosamente, gli rendevano onore.

In ricordo di questo, la liturgia della Domenica delle palme, si svolge iniziando da un luogo al di fuori della chiesa, dove si radunano i fedeli e il sacerdote benedice i rami di ulivo o di palma portati dai fedeli stessi; quindi si procede in processione fino all’interno della chiesa, continuando la celebrazione della messa con la lettura della Passione di Gesù. Il racconto della Passione viene letto da tre persone che rivestono la parte di Cristo (letta dal sacerdote), dello storico e del popolo.

In questa Domenica il sacerdote, a differenza delle altre di quaresima (in cui veste di colore viola, che indica penitenza, richiamo alla conversione e alla stessa penitenza e che si usa in Avvento e in Quaresima, ma anche durante la celebrazione delle Messe dei defunti) indossa paramenti di colore rosso (colore che indica il sacrificio sulla croce di Gesù e la divinità dello Spirito Santo, ma anche il sangue sparso dai Santi Martiri; si usa la Domenica delle Palme, appunto, il Venerdì Santo, a Pentecoste, nelle feste degli Apostoli e dei Martiri e per la Messa della Cresima).

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nell’immagine: Giotto, Scene dalla vita di Cristo, Entrata in Gerusalemme, affresco databile 1303-1305, Cappella degli Scrovegni, Padova: da sinistra Gesù avanza a cavallo di un asino verso le porte di Gerusalemme, seguito dagli Apostoli e facendosi incontro a una folla incuriosita: chi si prostra, chi accorre a vedere, chi è sorpreso, ecc. Sebbene la stesura denoti un’autografia non piena dell’episodio, la scena spicca come una delle più vivacemente naturali del ciclo, con una serie di episodi interni tratti dalla vita quotidiana, come quello dell’uomo che si copre la testa col mantello (un’azione goffa o un simbolo di chi non vuole accettare l’arrivo del Salvatore?) oppure i due fanciulli che salgono sugli alberi per staccare i rami d’ulivo da gettare al Salvatore e per vedere meglio, dettaglio derivato dalla tradizione bizantina, ma qui più realistico che mai. [fonti varie]

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Rileggiamo l’opera: Evoluzione – sassi d’arte

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Piet Mondrian, Evoluzione (1910 – 1911)

Tra il 1910 e il 1911 il pittore olandese Piet Mondrian (Pieter Cornelis Mondriaan Jr. 1872-1944) dipinse il trittico “Evoluzione” legato a stilemi simbolisti; dal 1908 (e fino al 1911, quando si trasferirà a Parigi) ebbe residenza a Domburg, assieme a Jan Toorop, e proprio l’incontro con l’artista e la lettura di testi teosofici lo convinceranno che è illuminato da Dio e intimamente unito a questi.

In questo dipinto, che rappresenta l’adesione di Mondrian alla dottrina mistico-filosofica della teosofia, è rappresentato il processo di evoluzione spirituale necessario all’uomo per accedere a quella “vera comprensione” teorizzato dalla teosofia stessa. La dottrina proclamata dalla Società teosofica fondata nel 1875 a New York affermava l’origine unica di tutte le religioni, l’eguaglianza di tutti gli uomini, la possibilità di arrivare alla conoscenza della verità, riservata a pochi adepti, non con la sola ragione ma per mezzo di rivelazioni, di esperienze mistiche e di un determinato modo di vivere, fu fortemente influenzata da elementi di derivazione indiana.

piet mondrian evoluzioneNel dipinto “Evoluzione” si possono rintracciare i rapporti di Mondrian con l’intero complesso delle dottrine teosofiche, secondo cui il mondo è concepito come un tutto unitario, retto da leggi e principi matematici in cui i poli opposti – principio maschile e femminile, oppure spirito e materia – tendono alla ricomposizione e all’armonia cosmica. 

Il trittico “Evoluzione” va letto partendo dalla figura di sinistra, per poi passare a quella di destra e, infine, a quella centrale; la stessa forma del trittico, diffusa nell’area simbolista, potrebbe essere stata suggerita da un passo del testo “Iside svelata” (1877) di Helena Blavatskij (fondatrice della teosofia), in cui si parla di tre spiriti che vivono nell’uomo: lo spirito terrestre, lo spirito delle stelle e lo spirito divino. piet mondrian evoluzione - Copia (2)Simbolici sono i passaggi di colore della figura della donna (dal verde al blu, il colore spirituale) in cui si attua la fusione di elemento maschile (spirituale) e femminile (materiale), cui allude Mondrian nei “Taccuini”. Simbolico è anche il passaggio dai due fiori posti ai lati del volto, alle figure geometriche ed anche dal colore rosso (corrispondente, per Steiner – filosofo, pedagogista, esoterista, artista e riformista sociale austriaco – all’amore divino, ma ancora espresso secondo una concezione terrena) al giallo e al bianco, quindi alla massima luminosità, espressione del divino.

piet mondrian evoluzione - CopiaLa donna a sinistra nel trittico, fiancheggiata da due amarillis rossi – simbolo di sensualità – è l’incarnazione dello spirito terrestre; ha il volto indietro e gli occhi chiusi, perché lo spirito terrestre da solo non permette la comprensione del mondo. A destra, è posta la donna con le stelle a sei punte (il doppio triangolo, simbolo della teosofia, emblema della perfezione), che rappresenta lo spirito stellare, il quale possiede un grado più alto di comprensione rispetto allo spirito terrestre; infine, al centro, la figura circondata dalla luce bianca, rappresenta lo spirito divino dagli occhi aperti e dalla maggiore intensità luminosa, che indicano la conquistata visione di una verità superiore. Quest’ultimo elemento, la figura centrale a occhi aperti di “Evoluzione”, è stato messo in rapporto con la concezione di Steiner secondo cui la visione spirituale avverrebbe in condizione di piena coscienza e non in stato di trance o di ipnosi. (by AnGre – fonti varie e immagini dal web)

Rileggiamo l’opera: l’albero della vita – sassi d’arte

L’albero della vita, mosaico, 1118 c.a 

Roma, San Clemente, abside della basilica superiore

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A Roma, nei pressi del Colosseo, lungo la strada che sale gradualmente verso San Giovanni in Laterano, si trova una basilica intitolata a San Clemente I Papa, terzo successore di Pietro al soglio pontificio. L’opera architettonica risalente al IV secolo fu ampiamente devastata dai Normanni nel 1084; nel 1110, durante una fase particolarmente acuta della lotta alle investiture, allorché le nomine vennero nuovamente proibite, Papa Pasquale II ordinò che la chiesa fosse ricostruita sulle rovine della chiesa interrate della basilica precedente. Come se si trattasse di esorcizzare l’antico potere della Chiesa contro l’Impero, per la ricca decorazione interna della basilica ci si orientò verso reperti formali tratti dalle chiese paleocristiane; anzi, nel nuovo impianto furono integrati programmaticamente parecchi arredi della costruzione più antica (soprattutto suppellettili che vi erano state aggiunte nel V e nel VI secolo).

Anche un’opera nuova, che oggi eclissa tutto il resto, evoca sotto un certo aspetto l’arte paleocristiana. Parliamo del mosaico dell’abside, la cui composizione è dominata dalla croce. Il suo carattere fenomenico, che si manifesta mediante un meraviglioso tono di azzurro, richiama alla mente l’arte dello smalto. Maria e San Giovanni stanno ai lati della croce, ai cui piedi sgorgano i quattro fiumi del paradiso, ai quali si abbeverano i cervi. Scorgiamo, poi, la fenice, l’uccello fantastico che simboleggia l’immortalità. Dodici colombe bianche, che incarnano gli apostoli, occupano le assi verticale e trasversale della croce. In una nicchia ricavata dietro l’emblema della passione, è inserito un vero frammento della croce insieme ad altre reliquie (il mosaico assume perciò la funzione di stauroteca, reliquiario destinato ai frammenti della croce di Cristo). Sopra la croce si apre la volta celeste stellata, da cui scende la mano benedicente di Dio.

La decorazione vegetale fatta di incantevoli tralci di acanto ritorti, che riempie il catino absidale, rimanda al paradiso e identifica la croce come “l’albero della vita”; al contempo, l’intreccio dei tralci intorno al legno della croce regala vita e nutrimento a uomini e donne di ogni professione, anzi a ogni creatura. Tra le figure spiccano quattro personaggi vestiti semplicemente di bianco e nero, che rappresentano i padri della Chiesa latina, i santi Agostino, Gerolamo, Gregorio e Ambrogio. Il fregio sottostante, con l’Agnello dell’Apocalisse, ricorda nuovamente la Gerusalemme celeste e, poiché sopra l’arco di trionfo sono raffigurati i santi Pietro, Clemente, Paolo e Lorenzo e i profeti Geremia e Isaia, la resa visiva della redenzione include in sé anche la storia della Chiesa. In sintesi, il programma iconografico esaltava idealmente il Papa (sostenendo le pretese universalistiche della chiesa cattolica), il quale, in carne e ossa, sedeva in trono giù nell’abside.

Non a caso un simile messaggio era espresso a livello stilistico mediante il richiamo a modelli antichi. Gli artefici dell’opera ricordavano bene l'”impressionismo” che caratterizzava i mosaici romani del V secolo, quelli in Santa Pudenziana o in Santa Maria Maggiore e, come allora, accentuarono l’incarnato o il panneggio con strisce di tessere da mosaico di marmo bianco, circondate da frammenti di vetro neri e grigi (secondo l’antica tecnica romana).

Nei mosaici dei luoghi antichi paleocristiani comparivano anche scene di genere; le ritroviamo in San Clemente, arricchite con uccelli acquatici come quelli raffigurati un tempo lungo il bordo della cupola di Santa Costanza, con foglie di vite e grappoli d’uva disseminati qua e là e putti sgambettanti.

(tratto e adattato dal volume Romanico, Taschen Ed. – immagini dal web)

 

6 gennaio, Adorazione dei Magi – sassi d’arte

Leonardo da Vinci, Adorazione dei Magi, realizzato tra il 1481 e il 1482;

olio su tavola e tempera grassa, cm 246×243; Galleria degli Uffizi, Firenze.

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Il tema dell’Adorazione dei Magi fu uno dei più frequenti nell’arte fiorentina del XV secolo, poiché permetteva di inserire episodi marginali e personaggi che celebravano il fasto dei committenti; inoltre ogni anno, per l’Epifania, si svolgeva un corteo che rievocava la Cavalcata evangelica nelle strade cittadine. Leonardo riuscì a rivoluzionare il tema tradizionale sia nell’iconografia che nell’impostazione compositiva. Innanzitutto, come in altre sue famose opere, decise di centrare l’episodio in un momento ben preciso, ricercandone il più profondo senso religioso, cioè nel momento in cui il Bambino, facendo un gesto di benedizione, rivela la sua natura divina agli astanti quale portatore di Salvezza, secondo il significato originario del termine “epifania” (“manifestazione”). Ciò è chiaro nella reazione degli astanti, presi in un vorticoso rutilare di gesti, attitudini ed espressioni di sorpresa e turbamento, al posto della tradizionale compostezza del corteo dove i pittori erano soliti sfoggiare dettagli ricchi ed esotici. L’effetto è quello di uno sconvolgimento interiore di fronte al manifestarsi della divinità.

Nel 1481 i monaci di San Donato a Scopeto commissionarono a Leonardo un’Adorazione dei Magi da completare nel giro di due anni. Leonardo studiò approfonditamente la composizione, lasciando vari disegni preparatori; il pittore, però, nell’estate del 1482, partiva per Milano, lasciando l’opera incompiuta. Quindici anni dopo, certi ormai dell’inadempienza di Leonardo, i religiosi si rivolsero a Filippino Lippi per ottenere una pala di analogo soggetto, pure agli Uffizi. L’Adorazione di Leonardo, nel frattempo, era rimasta allo stato di abbozzo in casa Amerigo de’ Benci, dove la vide Vasari. Nel 1601 sfigurava nelle raccolte di don Antonio de’ Medici e, dopo la morte di suo figlio Giulio, nel 1670 approdò alle Gallerie fiorentine. Nel 1681 andò perduta la cornice cinquecentesca con dorature, probabilmente in occasione dello spostamento della tavola alla villa di Castello e nel 1794 tornò definitivamente al museo.

L’opera incompiuta si presenta oggi come un grandioso abbozzo a monocromo, che permette di conoscere approfonditamente la tecnica usata da Leonardo nella realizzazione delle opere. Secondo la tradizione fiorentina, il maestro preparava innanzitutto un disegno accurato, usando però il meno possibile linee nette per i contorni. Questo contrastava con la posizione allora dominante a Firenze del predominio della linea di contorno, come confine preciso dell’oggetto rappresentato: come si sa, infatti, Leonardo preferiva usare contorni sfumati, suggerendo una certa continuità tra gli oggetti e lo spazio che li circonda, attraverso la circolazione dell’aria che nella realtà impedisce una visione nitida delle cose.

A partire dal disegno, Leonardo procedeva poi “rinforzando gli scuri”, stendendo una base scura, dove necessario, a base di bistro, di tinta marrone rossastra e di nero, lasciando invece visibile la preparazione chiara di fondo sui soggetti più illuminati. Una serie di velature e vernici, oggi molto ossidate, imprimevano la situazione luminosa e servivano ad amalgamare tutta la composizione. Su questa preparazione il pittore avrebbe poi steso i colori. Tra le figure più avanzate spiccano quelle di destra, alle quali manca solo il colore.

Del dipinto esistono alcune radiografie realizzate da A. Vermehren, pubblicate nel 1954 da P. Sampaolesi e oggi appartenenti agli eredi Vermehren; la Pala è stata restaurata tra il 2011 e la fine di marzo 2017, quando è tornata nuovamente visibile. Il restauro è avvenuto a cura dell’Opificio delle pietre dure di Firenze, che ha anche ripristinato le parti danneggiate. L’Adorazione è stata sottoposta a un’articolata serie di indagini diagnostiche non invasive, per capire a fondo lo stato di conservazione del supporto ligneo (le cui dimensioni sono stato modificate nel tempo) e della superficie pittorica preliminare che Leonardo aveva iniziato a comporre; i risultati di queste indagini hanno consentito di avere una più chiara ed approfondita visione sia della tecnica artistica, sia dei problemi conservativi dell’opera.

Al di sopra dei primi strati disegnativi e pittorici, si sono nel tempo sovrapposte molte stesure non originali di vernice, vernice pigmentata, colla, patinature, ed anche qualche limitato ritocco. Il ritiro di questi materiali stava provocando una trazione della superficie, con il rischio di piccoli strappi di materia pittorica. La completezza del disegno sotto giacente è stato acquisito con tecnologia infrarosso di ultima generazione. Altra problematica è stata la conservazione del supporto, costituito da dieci assi di pioppo non eccelso. Nel tempo, tale supporto ha teso ad incurvarsi, ma, incontrando il contrasto rigido della traversa centrale, si è aperto con una serie di pericolose fenditure, che arrivano subito al di sotto degli strati pittorici e che, in alcune zone, hanno già prodotto rotture sulla superficie. Tale fenomeno è ancora in atto e la pittura sui due lati di ogni fenditura, sottoposta a un processo di compressione, a lungo andare potrebbe causare delle cadute di colore.

L’intervento di pulitura ha riguardato l’eliminazione dei vari materiali sovrapposti nei secoli, tramite un leggero, graduale e differenziato assottigliamento. La superficie pittorica risulta libera dal pericoloso effetto di strappo dei materiali accumulatisi sopra, mentre le parti disegnate e ombreggiate da Leonardo emergono finalmente leggibili in maniera chiara. È soprattutto nella parte alta che la nuova lettura dell’opera si afferma prepotente, rivelando un accenno sottilissimo del colore del cielo e rendendo percepibili a occhio nudo (anziché solo in infrarosso) le figure dei lavoratori intenti alla ricostruzione del Tempio, elemento iconologico di grande importanza, così come la zuffa di cavalli e figure umane sulla destra.

La presenza di queste tracce di velatura di colore locale, già evidenziata dalle prime indagini diagnostiche, è forse all’origine della patinatura con la quale, nei secoli passati, le si erano volute occultare, forse per conferire all’insieme l’effetto non di un non finito, ma di un voluto monocromo. Questa delicata pulitura ha consentito anche di penetrare sempre più nel modo di lavorare di Leonardo, confermando l’interpretazione iniziale circa le differenti fasi e materiali, arricchendola di nuovi elementi, esempi ed anche di interessanti problemi interpretativi. Come si rileva ovunque, molta materia aggiunta è stata ancora lasciata, in base alla impostazione teorica e tecnica della pulitura propria dell’Opificio delle pietre dure di Firenze, sia come livello di sicurezza, sia come “patina” della storia trascorsa.

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Da un punto di vista compositivo Leonardo fece sue le innovazioni impostate da Sandro Botticelli nell’Adorazione dei Magi di Santa Maria Novella (1475 circa), ponendo la Sacra Famiglia al centro e i Magi alla base di un’ideale piramide, che ha come vertice la figura di Maria. La forma pressoché quadrata della tavola gli permise, infatti, di organizzare la composizione lungo le direttrici diagonali, con il centro nel punto di incontro, dov’è la testa della Vergine. La figura di Maria, collocata in posizione leggermente arretrata, accenna un movimento rotatorio, con le gambe orientate a sinistra e il busto, nonché il volto, verso il Bambino, a destra. Il corteo, inoltre, fu disposto a semicerchio dietro alla Vergine, lasciando uno spazio vuoto, di forma più o meno circolare, nell’ideale centro dello spazio, dove si trova una roccia con un albero. Il leggero moto della Vergine sembra così propagarsi per cerchi concentrici, come un’onda generata dalla rivelazione divina. Il risultato è una scena estremamente moderna e dinamica, dove solo le figure in primo piano sono relativamente statiche, con uno studio intenso dei moti dell’animo e delle manifestazioni “corporee”.

Lo sfondo è diviso in due parti dai due alberi: il primo, un alloro simbolo di trionfo sulla morte (resurrezione) e il secondo, una palma, simbolo della passione di Cristo; alberi, che dirigono lo sguardo dello spettatore in profondità, dove si trovano alcune architetture in rovina (il Tempio di Gerusalemme), rimando tradizionale al declino dell’Ebraismo e del Paganesimo (quest’ultimo, che non ha ancora ricevuto la lieta Novella, è sottolineato pure dalla lotta convulsa dei cavalli in secondo piano), da cui si originò la religione cristiana. A destra si trova una zuffa di soggetti armati, uomini disarcionati e cavalli che s’impennano – simbolo della follia degli uomini, che non hanno ancora ricevuto il messaggio cristiano – e un abbozzo di rocce svettanti tipiche del paesaggio leonardesco. Secondo alcuni esperti inoltre, il fanciullo all’estrema destra del quadro, che guarda verso l’esterno, potrebbe essere un autoritratto giovanile di Leonardo; più probabilmente è da mettere in relazione con l’uomo che medita sul lato opposto, come invito a riflettere sul mistero dell’Incarnazione.

Nel complesso, la composizione ricchissima ma unitaria e grandiosa, la varietà delle interazioni tra le figure, la complessità luminosa, l’intensità delle espressioni e dei moti dell’animo, fanno del dipinto di Leonardo un caposaldo artistico, in anticipo di due decenni rispetto alla cultura figurativa vigente, modello per numerosi maestri, come ancora il Raffaello della Trasfigurazione (1518-1520).

(tratto e adattato da Wikipedia)

Rileggiamo l’opera: la Madonna del solletico

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Masaccio, Madonna col bambino (Madonna Casini, Madonna del solletico)

1426 – 1427, tempera su tavola, cm 24,5 x 18,2 – Galleria degli Uffizi, Firenze

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Questa delicata e preziosa Madonna, che Roberto Longhi nel 1950 attribuisce a Masaccio e definisce poeticamente “del solletico”, era stata chiusa per secoli in collezioni private. Saccheggiata dai nazisti, recuperata nel 1947 da Rodolfo Siviero, rubata nel 1971 e ritrovata nel1973, fu assegnata nel 1988 dallo Stato a Firenze. Ordinata dal cardinale di origine senese Antonio Casini (1380 circa-1439), il cui stemma (uno scudo con sei stelle rosse in campo giallo), sormontato dal cappello cardinalizio, compare sul verso della tavola, è databile nel 1426-1427, dopo la nomina di Casini a cardinale il 24 maggio 1426. Cronologia che calza bene con le affinità stilistiche con altre opere dello stesso autore, quali il Desco da parto e il Polittico di Pisa.

Il volto della Madonna, più sottile rispetto a quello matronale della Madonna pisana, anche per la grande differenza di formato, ha lineamenti ed espressione simili. Il riferimento a Masaccio non trova tutti concordi, ma è molto probabile non solo per la tipologia del Bambino, ma anche per la vivacità e la spregiudicatezza del gesto della Madonna, che accarezza e fa il solletico – abbozzato come benedizione si tramuta in un cenno giocoso – al neonato in fasce, che a sua volta allontana la mano della madre. Un’umanità tipica di Masaccio e, naturalmente, della sua bottega, che lavorava sui suoi disegni. Un’ aria delicata, quasi tardogotica, avvolge le due figure, stagliate su prezioso fondo dorato, le fasce eleganti, il carnicino di seta trasparente, su cui spicca una collanina messa di traverso (particolare arguto), la bordatura preziosa del manto della Madonna.

È evidente che in questa scelta di fine decorazione gioca un ruolo fondamentale la committenza del cardinale. Vescovo di Siena dal 1409 a11426, elevato alla porpora cardinalizia da Martino V, Antonio Casini fu un sottile giurista, in contatto con i maggiori umanisti, ricordato nelle Vite di Vespasiano da Bisticci.

[Maurizia Tazartes in Masaccio, I grandi maestri dell’arte, Skira]

Rileggiamo l’opera: Vergine Maria col Bambino e undici angeli – sassi d’arte

Maestro del dittico Wilton, Vergine Maria col Bambino e undici angeli (1395 ca.)

tempera su tavola, cm 45,7 x 29,2 – Londra, National Gallery

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Sebbene la sua identità non sia nota, si ritiene che il cosiddetto Maestro del Dittico di Wilton fosse inglese. Esponente del “Gotico internazionale”, operò alla corte inglese, probabilmente tra il 1380 e il 1395. Il suo nome si riferisce a un dittico un tempo conservato alla Wilton House, residenza del conte di Pembroke. Finora non è stato possibile individuare altre opere di questo artista, il cui lavoro si distingua per la delicatezza dei colori, il minuzioso progetto decorativo e la predilezione per una riuscita ornamentale del disegno.

Nella tavola sinistra compaiono Riccardo II d’Inghilterra (inginocchiato) con i suoi santi protettori, re Edoardo, Edmondo dell’Inghilterra orientale e Giovanni Battista; questi ultimi intercedono per lui presso la Vergine Maria (tavola destra),che reca in braccio il Bambino ed è circondata da undici angeli. Questa tipologia di dittico dovette distinguersi per la sua modernità e l’accentuazione del carattere cortese: il re compare quasi sullo stesso piano della Madonna con il Bambino, alla quale è rivolta la preghiera dei santi intercessori. Il quadro aveva quindi un intento devozionale e al tempo stesso celebrativo della persona del re. La riproduzione fotografica può trasmettere soltanto un’idea imperfetta della precisione miniaturistica di quest’opera e della sua qualità pittorica. Ad esempio, un’osservazione ravvicinata che sulla sfera sovrastante il vessillo recato dall’angelo sono dipinte le isole britanniche con un castello bianco; i fiori ai piedi della Madonna rivelano un’eccezionale ricchezza di particolari; lo stesso può dirsi dei piccoli cervi raffigurati sulle vesti degli angeli e dei motivi che spiccano sui broccati degli abiti di corte, ricchi di drappeggi e decorazione in parte dipinte e in parte addirittura incise o punzonate.

Pur essendo probabilmente inglese, il pittore conosceva bene l’arte delle corti francesi e gli era ugualmente nota la tipologia boema delle “Belle Madonne”:d’altra parte, lo stesso Riccardo II aveva sposato in prime nozze una principessa boema. Caratterizzano quest’opera del “gotico cortese” -giustamente noto anche come “gotico internazionale” – anche i motivi , ispirati all’arte italiana, della riduzione prospettica delle proporzioni; in quanto prova di abilità del pittore, essi ne dimostrano tutto il talento e la maestria.

(tratto da “Gotico”, Ed.Taschen)

Riproponiamo: Toulouse-Lautrec, La clownesse Cha-u-Kao, sassi d’arte

Toulouse-Lautrec, La pagliaccia Cha-u-Kao (La clownesse Cha-u-kao), 1895

olio su cartone, cm 64 x 49 – Museo d’Orsay, Parigi

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“Cha-u-kao” è il nome d’arte di una danzatrice del Moulin Rouge e pagliaccia assai nota, dovuto alla pronuncia delle parole francesi chahut (‘baccano’) e chaos (‘caos’), chahut-chaos, nome di un frenetico ballo indiavolato simile al can-can che imperversava all’epoca, aggiunto al titolo della tela per designare da subito la prorompente vitalità del personaggio.

Toulouse-Lautrec rimase molto colpito da questo personaggio, al punto da riprenderlo ancora in altri ritratti dello stesso periodo. L’artista raffigura l’acrobata, contorsionista e pagliaccia, in un momento di intimità, nel suo camerino, mentre sta ultimando i preparativi prima di entrare in scena. In poco più di un quindicennio, dal 1885 al 1900, Lautrec si fece interprete della fabbrica del nuovo divertimento notturno della capitale francese: fissò in immagini di modernissima efficacia comunicativa protagonisti e scenari della Belle Époque. Nonostante la sua salute malferma, egli diventò in breve tempo uno degli artisti più ricercati di Parigi; teatro, corse, circo, varietà, cabaret, interni di locali notturni e di case…nulla di tutto ciò è sfuggito al suo occhio.

La clownesse è ritratta mentre si veste per il suo numero acrobatico; l”informalità della scena è resa dalla vivace gestualità della donna, raffigurata nell’atto di chiudersi il corpetto scollato. Cha-u-Kao indossa ampi pantaloni blu, oltre al corpetto nero, sopra il quale sta infilando il grande volant giallo: i tocchi rapidi con i quali è costruita la grande gala riproducono la vaporosità della stoffa, mentre il costume della pagliaccia è completato da un insolito e curioso copricapo, una sorta di crocchia infiocchettata. L’intenso profilo della donna è reso da linee nitide e nervose; la superficie del dipinto è occupata per la maggior parte dal corpo grande e dilatato della clown seduta e l’angolazione della scena mette in risalto le sue flaccide rotondità e permette all’artista di creare un gioco di piani di colore tra il voluminoso volant giallo, i pantaloni blu e il sedile di velluto rosso, che assume un valore puramente decorativo. La spazialità è data dagli oggetti in secondo piano – un piccolo tavolo con un piatto e un bicchiere e un quadro appesa alla parete – e dalla rotazione del corpo di Cha-u-Kao, ritratta di spalle, mentre la profondità e la realtà del corpo stesso della donna sono evocate dalla costruzione dell’enorme gala  che avvolge la figura.

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Lautrec è anzitutto una certa definizione della forma. Appartiene alla famiglia di spiriti per i quali la forma della vita e gli impulsi degli esseri sono un linguaggio cifrato pieno dei più poetici segreti. Nulla è indifferente in questa rete di arabesche che lega e scioglie l’azione. L’attaccatura di un braccio, di un polso, colta nello svolgersi istantaneo del gesto, un girare del collo, un dorso di mano, una torsione delle anche, la maniera in cui i nervi si legano, si tendono e determinano le variazioni inattese e logiche di un atteggiamento, di una espressione, ecco dove si colloca l’enigma che più attira questi spiriti. Li chiamano disegnatori, grafici, il che non significa nulla; geni analitici, mentre giungono spesso alle sintesi più concise ed efficaci. La verità è che sono più sensibili degli altri agli ondeggiamenti e agli sbalzi dell’essere vivente, e che hanno in sé una specie  d’istinto mimico che accresce con la sua trepidazione sorda e i loro procedimenti divinatori. A questi maestri piaceranno sempre i bei cavalli, non come masse scultoree, ma come eleganti strutture articolate; le danzatrici, i mimi, gli acrobati, i funamboli d’ogni genere, e anche la donna che canta, tutta compresa nello sforzo di liberare la voce. (Henri Focillon, “Touliuse-Lautrec”, in «Gazette des Beaux-Arts», 1931)

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(tratto e adattato dall’omonimo volume della collana “I capolavori dell’arte” per Corriere della Sera)

Riproponiamo: Paul Gauguin e la serie di Noa Noa – sassi d’arte

Noa Noa è il titolo del racconto romanzato, autobiografico e sensazionalista, iniziato da Gauguin alla fine del settembre del 1893 e incentrato sulla sessualità e il mito a Tahiti, ma è anche il nome di una serie di dieci xilografie cominciata alcuni mesi dopo e terminata nel maggio del 1894, nonché il titolo della prima incisione su legno della serie. La doppia parola noa noa (nella lingua tahitiana la ripetizione ha valore di rafforzativo) significa terreno, mondano, quotidiano, non sacro, delizioso e profumato. Gli ultimi due aggettivi sono particolarmente appropriati, perché l’universo di queste xilografie, caratterizzato da numerosi riferimenti all’acqua, ai fiori, agli spiriti, agli dei e all’erotismo, è effettivamente fragrante, affascinante e misterioso, e crea un’atmosfera sovrannaturale fatta di mito, sogno, desiderio e sottile suggestione.

La coincidenza di date tra la stesura del libro e l’esecuzione delle xilografie rivela che romanzo e stampe furono concepiti insieme, perché le une dovevano servire ad illustrare l’altro. Se completata, l’opera sarebbe stata probabilmente tra i primi e senz’altro più raffinati esempi di livre d’artiste mai realizzati. Benché le origini di questo genere letterario risalgano almeno all’epoca di Eugène Delacroix e Gustave Doré, solo negli anni novanta dell’Ottocento si giunse a reinventare completamente il libro come una Gesamtkunstwerk, un’opera d’arte totale che implicava una veste tipografica innovativa, materiali pregiati, una bella rilegatura e illustrazioni sfarzose.

Il grande libro di Gauguin non venne tuttavia realizzato, principalmente a causa dei contrasti tra ex amici, mecenati e ammiratori. Le dieci xilografie furono esposte nel dicembre 1894 presso l’atelier parigino dell’artista, al 6 di Rue Vercingétorix, dove furono viste e recensite da diversi critici, tra cui Charles Morice, che le definì “une révolution dans l’art de la gravure”. Senza la serie Noa Noa, in effetti, le incisioni di Edvard Munch e degli espressionisti tedeschi non sarebbero state possibili. Il romanzo, invece, fu pubblicato solo nel 1901, quando Morice preparò un’edizione -che non ebbe l’approvazione di Gauguin – per le Editions La Plume di Parigi. Da allora il libro è stato ristampato dozzine di volte e la vicenda narrata, oggi ben nota, è riassumibile nell’arrivo a Tahiti dell’artista francese, il quale, deluso da alcuni aspetti del paesaggio e della vita sociale della capitale, Papeete, va in cerca di avventure erotiche, prova una fugace attrazione per un uomo del posto, si trova una moglie giovanissima, partecipa ad una battuta di pesca e trova finalmente la vita allo stato selvaggio a cui agognava.

Le dieci stampe della serie Noa Noa, come quelle che compongono la Suite Volpini (una serie di 11 incisioni che Gauguin esibì al “Café des Arts Volpini” durante l’esposizione di Parigi del 1889), non raccontano una storia e qualsiasi sequenza di lettura proposta dev’essere considerata nel migliore dei casi ipotetica. Come per l’album Volpini, le xilografie derivano per lo più da composizioni precedenti, in questo caso dipinti eseguiti a Tahiti l’anno prima. Quella intitolata Noa Noa raffigura due donne ed un cane nei pressi di un fiume; in Nave Nave Fenua si riconosce una donna nuda che si produce in una danza solitaria, mentre in Te Faruru, i protagonisti sono una coppia di amanti (sono le tre immagini riportate in questa sede); le altre xilografie rappresentano: Auti te Pape, due donne su una spiaggia; Te Atua, una congerie di divinità; La creazione del mondo, una genesi polinesiana; Mahna no varua ino, una scena notturna che evoca un sabba di streghe; Manao Tupapao, una figura femminile solitaria in posizione fetale; Te Po, un’altra scena notturna con una donna addormentata e tre osservatori; Maruru accoglie alcune figure femminili raccolte in un marae (un tempio o luogo d’incontro) accanto a un gigantesco tiki intagliato.

Vale la pena osservare che, con una sola eccezione, tutti i titoli delle incisioni in legno di Gauguin erano in tahitiano, in un deliberato affronto ai funzionari colonizzatori che all’epoca lottavano per annientare la lingua locale nell’ambito della loro “missione civilizzatrice”. Così come nell’Ottocento l’amministrazione francese aveva cercato di scoraggiare l’uso di lingue e dialetti locali  in Bretagna, Provenza e nella regione basca, allo stesso modo le autorità coloniali intendevano sradicare nella popolazione di Tahiti e di altri territori francesi d’oltremare l’uso di idiomi considerati barbari, instaurando al tempo stesso una dipendenza dallo stato francese centralizzato. L’ostinazione di Gauguin nello scegliere titoli in tahitiano – spesso senza traduzione – per molti dipinti e stampe (causando notevole costernazione a Parigi), costituisce un piccolo ma significativo esempio di resistenza all’ideologia colonialista da parte di un bianco. (tratto da Paul Gauguin, Artista di mito e sogno, Skira)

Riproponiamo: Albrecht Dürer, Il cavaliere, la morte e il diavolo – sassi d’arte

Albrecht Dürer, Il cavaliere, la morte e il diavolo 

incisione a bulino su lastra di rame – cm 24,5 x 18, 8 – siglata e datata al 1513 e conservata, tra le migliori copie esistenti, nella Staatliche Kunsthalle di Karlsruhe.

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L’incisione, Il cavaliere , la morte e il diavolo, realizzata dal principale maestro del Rinascimento tedesco, fa parte del trittico allegorico detto Meisterstiche, con il San Girolamo nella cella e la Melancholia, realizzato tra il 1513 e il 1514. Sebbene non legate dal punto di vista compositivo, le tre incisioni sono simili per dimensioni e per argomento. Esse sono interpretabili come le tre forme di vita contemplate nella teologia, ossia la vita attiva (Il cavaliere, la morte e il diavolo), la vita contemplativa (San Girolamo) e la vita spirituale (Melancholia). Nell’ordine poc’anzi riportato potrebbero altresì essere collegate alle tre tipologie di virtù, secondo la Scolastica: le virtù morali, teologiche e intellettuali. E, ancora, sempre nel medesimo ordine del trittico, le tre incisioni potrebbero essere lette in relazione alle tre vie della salvezza o “salus animæ”: la salvezza morale, la salvezza religiosa e la salvezza intellettuale.

Il cavaliere, in particolare, si ispira alla figura del soldato cristiano nel “Miles Christianus” di Erasmo da Rotterdam: vestito di una splendida armatura, con un elmo alla tedesca sul capo  e armato di spada e lancia, cavalca un maestoso destriero. Chiuso nell’armatura della fede, egli avanza impavido nonostante l’orribile morte, che tenta di spaventarlo mostrandogli una clessidra col tempo che gli è rimasto da vivere, e il diavolo, che lo segue impugnando un’alabarda. La perfetta padronanza di Dürer nell’arte del bulino è testimoniata da alcuni dettagli naturalistici, quali il cane da caccia e la salamandra. In basso, a sinistra, si trova una tabella con il monogramma dell’artista e la data di creazione dell’opera preceduta dalla lettera “S”, Salus (Salvezza).

– Tratto da Dürer, I capolavori dell’arte (Corriere della Sera) –

Riproponiamo: Guido Reni, San Michele – sassi d’arte

……….“Una pittura argentea capace di raggiungere livelli straordinari di intensa delicatezza fissando i canoni di una bellezza virtuosa, una bellezza che si propone come modello estetico e morale. Immerse in un idealismo classicheggiante, le opere di Guido Reni ripercorrono i sentieri idilliaci del mito e della storia antica con uno sguardo di stima verso l’eredità culturale del Rinascimento. Una ricerca del vero necessaria e fortemente voluta, ma depurata dei suoi aspetti più volgari fino alla sublime rappresentazione del vero ideale.

Quel sottile e fragile equilibrio che cerca di mediare la purezza del divino con l’oscurità del vero si evince da ogni sua opera capace di coniugare l’ esigenza di verità caravaggesca con il divino classicismo di Raffaello nel complesso confrontarsi con la tradizione. Vesti fruscianti, delicati panneggi, volti fanciulleschi testimoniano l’alto senso della bellezza risultato finale di un approccio conservatore che ripropone la monumentalità antica ed il naturalismo contemporaneo.”[dal sito finestrasullarte]

In via Veneto, a breve distanza da piazza Barberini, sorge la chiesa di S. Maria della Concezione fatta edificare nel 1624 dal cardinale Antonio Barberini, cappuccino e fratello del pontefice Urbano VIII (1623-44). Sull’altare della prima cappella a destra è esposto uno splendido dipinto ad olio su seta raffigurante “San Michele che abbatte il demonio”. Fu eseguito intorno al 1635, su commissione del cardinale sopracitato, dal bolognese Guido Reni, uno dei massimi esponenti del classicismo, famoso anche per il suo carattere stravagante: molto ricco ed avvenente, il pittore amava il gioco d’azzardo ed era capace di passare delle intere notti a giocare a carte, aveva estrema cura del suo aspetto e qualche fobia, come quella di vivere nella continua paura di essere avvelenato.

Michele – capo supremo dell’esercito celeste, degli angeli fedeli a Dio, il cui nome significa “chi come Dio?” – l’arcangelo impegnato nella lotta contro il male, è rappresentato da Reni come un giovinetto di rara bellezza, forte e delicato al tempo stesso, che, con la spada sguainata, respinge all’inferno un irritato diavolo, di cui calpesta il capo con il piede; il quadro suscitò l’ammirazione dei contemporanei, ma anche un vespaio di polemiche all’atto dell’esposizione nella chiesa dei Cappuccini.

Occorre ricordare che, tra le famiglie romane del Seicento, spiccavano i Barberini ed i Pamphili, sempre in competizione tra loro per affermare il proprio prestigio. Secondo quanto si racconta, Guido Reni venne a sapere che il cardinale Giovanni Battista Pamphili, il futuro papa Innocenzo X (1644-55), in qualche modo gli aveva arrecato offesa o, forse, lo aveva diffamato, parlando in maniera poco felice dell’artista, ragione per cui Reni, si racconta, mise in atto una subdola vendetta.

L’artista avrebbe inserito il ritratto del cardinale sulla tela precisamente nel volto, contratto da una smorfia di dolore, di Satana schiacciato dal piede dell’Arcangelo Michele. In effetti, la somiglianza può essere verificata (foto qui sotto) confrontando questo dettaglio del volto del diavolo nel quadro di Reni con il ritratto di Innocenzo X eseguito da Diego Velasquez: stesso volto altezzoso, uguale fronte stempiata, simile persino il taglio della barba. Una tale mancanza di rispetto per un Pamphili, inoltre, avrebbe certo fatto piacere al committente dell’opera, appartenente alla famiglia rivale dei Barberini. L’artista così si espresse, circa la realizzazione dell’opera: “Vorrei aver avuto pennello angelico, o forme di Paradiso per formare l’Arcangelo, o vederlo in Cielo; ma io non ho potuto salir tant’alto, ed invano l’ho cercato in terra. Sicché ho riguardato in quella forma che nell’idea mi sono stabilita e dovetti dipingerlo secondo la mia fantasia. Il demone invece l’ho incontrato parecchie volte, l’ho guardato attentamente e ho fissato i suoi tratti proprio come li ho visti”.

Nella mente geniale dell’artista l’idea chiara e definita che il bene – personificato da San Michele – abbracci il bello, accompagna la mente dell’osservatore verso la comprensione della più antica lotta tra bene e male, in contrapposizione con lo sguardo demoniaco di Satana, così fortemente espressivo, testimone della sconfitta ormai sopraggiunta. Ma questo sguardo nasconde, forse, una personale vendetta dell’artista nei confronti di un potente uomo di Chiesa? Non era certo colpa sua se il Cardinale Pamphili somigliava alla sua visione di Satana in modo così imbarazzante! Si giustificò Guido Reni al cospetto del Cardinale stesso, che, vedendosi ritratto in sembianze demoniache, protestò vivamente nei suoi confronti. Certo è che il cardinale si pentì di aver riservato all’artista parole ben poco piacevoli sul suo operato artistico. Quando, nel 1644, Giovanni Battista Pamphili salì al soglio pontificio con il nome di Papa Innocenzo X, Guido Reni era già morto da due anni e ormai al sicuro da qualsiasi possibile vendetta. Ma se l’arte, la vera arte, è eterna, allora la vendetta dell’artista avrà ancora lunga vita.

[Giorgio Chiantini – adattamento fonti varie dal web]

Riproponiamo: Henri Julien-Félix Rousseau, L’incantatrice di serpenti – sassi d’arte

L’incantatrice di serpenti (la charmeuse de serpent), opera realizzata nel 1907 da Henri Julien-Félix Rousseau detto il Doganiere (arruolato come soldato semplice durante la guerra con la Prussia nel 1870 e subito rilasciato poiché figlio di madre vedova, entrerà nel 1871 come gabelliere nell’ufficio comunale del dazio di Parigi; impiego che svolgerà fino al 1893, maturando contestualmente il desiderio di divenire pittore, e che comporterà, poi, in ambito artistico il soprannome di Doganiere), è un olio su tela, cm 189,5 x 169, conservato nel Musée d’Orsay di Parigi. La tela fu commissionata dalla madre di Robert Delaunay appena tornata da un viaggio nelle Indie; dopo aver ascoltato il racconto della donna, Henri Rousseau, avrebbe deciso di realizzare un dipinto riproponendo i paesaggi visti e vissuti da Mme de Rose. Rousseau, nato a Laval, Mayenne (Francia) nel 1844 e morto a Parigi nel 1910, fu pittore autodidatta e tardivo, che, a differenza di quanto si possa credere vedendo tante rappresentazioni delle sue opere, compì pochi viaggi; la maggior parte delle giungle raffigurate furono realizzate presso il museo di Storia naturale e nella grande serra del Giardino delle piante di Parigi. Alla stregua di Roussel nelle sue Impressioni d’Africa, così Rousseau ha coltivato i suoi sogni di esotismo nella capitale francese.

Tra i più ferventi ammiratori di questo artista, possiamo citare Alfred Jarry, André Breton, Guillaume Apollinaire, lo stesso Robert Delaunay e perfino Pablo Picasso. A quest’ultimo, Rousseau confesserà un giorno: “In fin dei conti lei realizza nel genere egiziano quello che io faccio nel genere moderno”. Questa osservazione, pur suscitando sorpresa e divertimento, non esclude il fatto che ogni elemento, in questa Incantatrice di serpenti, praticamente è nuovo: il soggetto in primo piano è una Eva nera posta in un giardino inquietante, raffigurata nell’atto di incantare un gruppo di serpenti dalle sembianze spaventose, che richiamano subito alla mente quello meglio noto e adulatore tratteggiato nella Genesi. Molte opere di questo genere di Rousseau fanno venire in mente il giardino dell’Eden, il Paradiso terrestre: qui, ad esempio, il serpente che si avvolge intorno all’albero ricorda un particolare delle scene della tentazione di Adamo ed Eva di Masolino. La differenza, però, sta nel fatto che nell’opera del Doganiere Eva ammansisce o lusinga il serpente e non viceversa.

Risalta all’osservazione il fatto che ad essere in ombra è solamente la donna ritratta con i capelli lunghi, sciolti e gli occhi che brillano: questa Eva sembra sedurre la Natura selvaggia, o, piuttosto, bloccare la medesima in un singolare silenzio, lasciando cogliere la forza dell’intento, ossia il serpente ammansito alla sua sinistra.
Nel dipinto, possiamo inoltre ammirare una rigogliosa vegetazione, così curata da creare l’illusione che gli stessi fiori siano in grado di emanare il profumo anche fuori dalla tela, un fiume ed un fenicottero rosa, dipinto in basso a sinistra, che risultano, invece, bagnati dalla luce di un bellissimo chiaro di Luna.

Nuovo è, nel periodo di realizzazione dell’opera, anche lo stile: colori freschi e densi, in controluce, che anticiperanno quelli di Magritte, ed un tratto al contempo sia naif che preciso; colori, immersi in una composizione verticale dall’innovativa asimmetria. La figura umana, gli animali, lo sfondo di piante dal lussureggiante sviluppo, sono eseguiti con dovizia di particolari, in un mondo magico e fiabesco (l’artista ha voluto dipingere il fenicottero rosa, copiandolo da un libro illustrato per bambini, contribuendo a portare una ventata di originalità fanciullesca al dipinto e costruendo un’immagine fuori dal contesto naturale e pittorico dell’opera), che coinvolge anche lo spettatore in una  rappresentazione fantastica, anticipatrice di quello che sarà il Surrealismo. (adattamento di fonti varie dal web)

 

Riproponiamo: Piet Mondrian, Evoluzione – sassi d’arte

piet mondrian evoluzione

Piet Mondrian, Evoluzione (1910 – 1911)

Tra il 1910 e il 1911 il pittore olandese Piet Mondrian (Pieter Cornelis Mondriaan Jr. 1872-1944) dipinse il trittico “Evoluzione” legato a stilemi simbolisti; dal 1908 (e fino al 1911, quando si trasferirà a Parigi) ebbe residenza a Domburg, assieme a Jan Toorop, e proprio l’incontro con l’artista e la lettura di testi teosofici lo convinceranno che è illuminato da Dio e intimamente unito a questi.

In questo dipinto, che rappresenta l’adesione di Mondrian alla dottrina mistico-filosofica della teosofia, è rappresentato il processo di evoluzione spirituale necessario all’uomo per accedere a quella “vera comprensione” teorizzato dalla teosofia stessa. La dottrina proclamata dalla Società teosofica fondata nel 1875 a New York affermava l’origine unica di tutte le religioni, l’eguaglianza di tutti gli uomini, la possibilità di arrivare alla conoscenza della verità, riservata a pochi adepti, non con la sola ragione ma per mezzo di rivelazioni, di esperienze mistiche e di un determinato modo di vivere, fu fortemente influenzata da elementi di derivazione indiana.

piet mondrian evoluzioneNel dipinto “Evoluzione” si possono rintracciare i rapporti di Mondrian con l’intero complesso delle dottrine teosofiche, secondo cui il mondo è concepito come un tutto unitario, retto da leggi e principi matematici in cui i poli opposti – principio maschile e femminile, oppure spirito e materia – tendono alla ricomposizione e all’armonia cosmica. 

Il trittico “Evoluzione” va letto partendo dalla figura di sinistra, per poi passare a quella di destra e, infine, a quella centrale; la stessa forma del trittico, diffusa nell’area simbolista, potrebbe essere stata suggerita da un passo del testo “Iside svelata” (1877) di Helena Blavatskij (fondatrice della teosofia), in cui si parla di tre spiriti che vivono nell’uomo: lo spirito terrestre, lo spirito delle stelle e lo spirito divino. piet mondrian evoluzione - Copia (2)Simbolici sono i passaggi di colore della figura della donna (dal verde al blu, il colore spirituale) in cui si attua la fusione di elemento maschile (spirituale) e femminile (materiale), cui allude Mondrian nei “Taccuini”. Simbolico è anche il passaggio dai due fiori posti ai lati del volto, alle figure geometriche ed anche dal colore rosso (corrispondente, per Steiner – filosofo, pedagogista, esoterista, artista e riformista sociale austriaco – all’amore divino, ma ancora espresso secondo una concezione terrena) al giallo e al bianco, quindi alla massima luminosità, espressione del divino.

piet mondrian evoluzione - CopiaLa donna a sinistra nel trittico, fiancheggiata da due amarillis rossi – simbolo di sensualità – è l’incarnazione dello spirito terrestre; ha il volto indietro e gli occhi chiusi, perché lo spirito terrestre da solo non permette la comprensione del mondo. A destra, è posta la donna con le stelle a sei punte (il doppio triangolo, simbolo della teosofia, emblema della perfezione), che rappresenta lo spirito stellare, il quale possiede un grado più alto di comprensione rispetto allo spirito terrestre; infine, al centro, la figura circondata dalla luce bianca, rappresenta lo spirito divino dagli occhi aperti e dalla maggiore intensità luminosa, che indicano la conquistata visione di una verità superiore. Quest’ultimo elemento, la figura centrale a occhi aperti di “Evoluzione”, è stato messo in rapporto con la concezione di Steiner secondo cui la visione spirituale avverrebbe in condizione di piena coscienza e non in stato di trance o di ipnosi. (by AnGre – fonti varie e immagini dal web)