
Buenos Aires di Jorge Luis Borges
E adesso la città quasi è una mappa
di tanti fallimenti e umiliazioni;
da questa porta ho ammirato i tramonti,
davanti a questo marmo ho atteso invano.
Qui l’indistinto ieri e l’oggi nitido
mi hanno elargito gli ordinari casi
d’ogni destino; qui i miei passi intessono
il loro labirinto incalcolabile.
Qui l’imbrunire di cenere aspetta
il frutto che gli deve la mattina;
qui l’ombra mia si perderà, leggera,
nella non meno vana ombra finale.
Ci unisce la paura, non l’amore;
sarà per questo che io l’amo così tanto.
*
Paese di Leonardo Sinisgalli
Noi percorremmo tutto il paese nell’ora
che tornano gli asini col carico di legna
dalla cime profumate della Serra.
Raspavano le orecchie pelose contro le grezze
muraglie delle case, e tinniva, attaccata al collo,
la campanella della capretta che il vecchio
trascina al buio come un cane. Qualcuno
ci disse buona notte seduto davanti alla porta.
Le strade sono così strette e gli arredi
stanno così addossati alle soglie che noi
sentimmo friggere, al nascere della luna,
i peperoni calati nell’olio.
Tu eri molto colpita dal colore delle montagne.
“Foreste sono state sotto il mare per millenni”.
“Quaggiù anche i sassi sembrano vizzi,
anche le foglie hanno qualcosa di frusto”.
Uscivano dagli usci le donne coi tizzi accesi.
“Nei nostri paesi il sole cade a precipizio,
la notte è nei rintocchi della campana di mezzogiorno”.
I cavalli tossivano di ritorno dall’abbeverata,
i cani s’infilavano tra le porte:
noi eravamo soli a pestare la cenere dell’aria.
“Pare che tutta la gente a quest’ora
torni a dormire sottoterra e poi risusciti
ogni giorno alla vita”. La strada era senza
rumori, come di cenci, scolorita.
Da una casa serrata il caprone della tribù
starnutiva dentro il letto di Margherita.
“Entriamo in casa dei nonni dove mia zia
e mio zio hanno sempre una buona cosa
conservata per me”. Ci sediamo in cucina e guardiamo
l’incantevole famiglia delle chiavi appese al muro:
la piccola chiave dell’orto, la chiave gigantesca
della cantina che ha più di cent’anni. “Mio nonno
sapeva col fischio delle chiavi quietare
il pianto dei nipoti”. Ecco la chiave argentea
della conigliera, e le lucerne, i lumi, i lucignoli,
ingranditi sui muri guardo i profili
dei miei parenti e le immense ombre
delle mosche che strisciano come topi sulle pareti
“Cosima Diesbach, mia nonna, aveva girato il mondo”
“I miei avi hanno forse conosciuto l’Atlantide”.
Domenico passa di sera a chiudere le chiese,
a sprangare il cancello dei morti.
“Raccontavano a noi ragazzi
ch’egli parlava con la civetta, sui tetti, lassù.
Ha le orecchie mangiate, il campanaro,
ha il sonno duro. Per vestire i defunti
(non c’è nessuno più abile di lui)
bisognava chiamarlo lunghe ore
nel cuore della notte e fischiare forte
nelle chiavi”. Domenico è lì che strofina
uno zolfanello ai pantaloni, fuma la pipa
assorto sulla ripa del valico
dove una lontana sera vidi poggiare
la bara del Cristo morto, alla ringhiera.
Giù nella valle Crescenzio aizza la mula
zoppa. “Io ho buttato le redini sulla groppa”.
*
Città vecchia di Umberto Saba
Spesso, per ritornare alla mia casa
prendo un’oscura via di città vecchia.
Giallo in qualche pozzanghera si specchia
qualche fanale, e affollata è la strada.
Qui tra la gente che viene che va
dall’osteria alla casa o al lupanare,
dove son merci ed uomini il detrito
di un gran porto di mare,
io ritrovo, passando, l’infinito
nell’umiltà.
Qui prostituta e marinaio, il vecchio
che bestemmia, la femmina che bega,
il dragone che siede alla bottega
del friggitore,
la tumultuante giovane impazzita
d’amore,
sono tutte creature della vita
e del dolore;
s’agita in esse, come in me, il Signore.
Qui degli umili sento in compagnia
il mio pensiero farsi
più puro dove più turpe è la via.
*
da Foglie di tabacco di Vittorio Bodini
Viviamo in un incantesimo,
mostriamo le caverne di noi stessi
– qualche palmizio, un santo
lordo di sangue nei tramonti, un libro
lento, di pochi fatti che rileggiamo
più volte, nell’attesa che ci dia
le cose che crediamo di meritare.
.
*
La città di Pablo Neruda
E quando in Palazzo Vecchio, bello
come un’agave di pietra, salii i
gradini consunti, attraversai le antiche
stanze, e uscì a ricevermi un operaio,
capo della città, del vecchio fiume,
delle case tagliate come in pietra di
luna, io non me ne sorpresi: la maestà
E guardai dietro la sua bocca i fili
abbaglianti della tappezzeria, la
pittura che da queste strade contorte
venne a mostrare il fior della bellezza
a tutte le strade del mondo.
La cascata infinita che il magro
poeta di Firenze lasciò in perpetua
caduta senza che possa morire,
perché di rosso fuoco e acqua verde
son fatte le sue sillabe.
Tutto dietro la sua testa operaia io
Però non era, dietro di lui, l’aureola
del passato il suo splendore: era la
Come un uomo, dal telaio all’aratro,
dalla fabbrica oscura, salì i gradini col
suo popolo e nel Vecchio Palazzo,
senza seta e senza spada, il popolo,
lo stesso che attraversò con me il
freddo delle cordigliere andine era lì.
D’un tratto, dietro la sua testa, vidi la
neve, i grandi alberi che sull’altura si
unirono e qui, di nuovo sulla terra, mi
riceveva con un sorriso e mi dava la
mano, la stessa che mi mostro il
cammino laggiù lontano nelle
ferruginose cordigliere ostili che io
E qui non era la pietra convertita in
miracolo, convertita alla luce
generatrice, né il benefico azzurro
della pittura, né tutte le voci del fiume
quelli che mi diedero la cittadinanza
della vecchia città di pietra e
argento, ma un operaio, un uomo,
Per questo credo ogni notte del
giorno, e quando ho sete credo
nell’acqua, perché credo nell’uomo.
Credo che stiamo salendo l’ultimo
Da lì vedremo la verità ripartita, la
semplicità instaurata sulla terra, il
pane e il vino per tutti.
.
(dal web – in apertura, opera di P.Gonzales; in chiusura, U.Boccioni, Visioni simultanee)