Napul’e’
Napule è mille culure
Napule è mille paure
Napule è a voce de’ criature
che saglie chianu chianu
e tu sai ca’ nun si sulo
Napule è nu sole amaro
Napule è addore e’ mare
Napule è na’ carta sporca e nisciuno
se ne importa e
ognuno aspetta a’ sciorta
Napule è na’ camminata
int’ e viche miezo all’ate
Napule è tutto nu suonno e a’ sape tutto o’ munno ma
nun sanno a’ verità.
Napule è mille culure…
Napoli è mille colori / Napoli è mille paure / Napoli è la voce dei bambini / che sale piano piano / e tu sai che non sei solo / Napoli è un sole amaro / Napoli è odore di mare / Napoli è una carta sporca e nessuno / se ne importa / e ognuno aspetta la sorte / Napoli è una passeggiata / nei vicoli in mezzo agli altri / Napoli è tutto un sogno e la conosce tutto il mondo / ma non conoscono la verità / Napoli è mille colori…
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Canzone di denuncia in cui amore e odio convivono in antitesi, ma che inizia e finisce con quella che si può considerare una speranza per il futuro della stessa città: Napule è mille culure...
Giuseppe Daniele, napoletano del centro storico, classe 1955, artista amato da tutti noi senza esclusione di appartenenza geografica, verrà a mancare in modo tragico il 4 gennaio 2015 lasciando un’eredità musicale ed umana immensa. Oggi che la sua carriera ricomincia da un’indipendenza discografica-artistica a cui ha da sempre aspirato, appare ancor più chiara, ricca, complessa e diversa da qualsiasi routine la parabola che l’ha portato dai vicoli – dove non entra mai il sole – alle hit parade e nei templi della grande Musica, come l’Olympia di Parigi, l’Apollo di New York, il Festival di Varadero a Cuba, il Crossroad Guitar Festival di Chicago, ma anche negli stadi di tutt’Italia, all’Umbria Jazz, all’Earth Day al Circo Massimo…
A cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta Pino Daniele inventa una nuova lingua, anzi un lingo, gioca con le melodie assimilate in piazza Santa Maria La Nova, con i racconti di munacielli e belle ’mbriane delle zie, con il rock e il jazz come sogno americano, alimentando il vento di rivoluzione che scuoterà Napoli negli anni dell’impegno e che naufragherà poi nel disimpegno detto riflusso. Come Carosone riflette sull’America che è in lui e nella sua musica, utilizzando la rabbia al posto dell’ironia, anche lui detiene un piglio da capo-polo newpolitano al posto dello sfottò, che pure permea il suo canzoniere da Masaniello ma non troppo.
Il suo leggendario super-gruppo mostra all’Italia che nella canzone c’è un Sud competitivo, che sa parlare alla nazione intera, anche usando il dialetto, che segna l’apice del neapolitan power, ma anche la sua fine: quando il sogno collettivo dell’orgoglio vesuviano lascia il passo alle carriere soliste, Daniele prende il volo, ma ha già scritto pagine destinate a rimanere, fondendo la melodia partenopea con il rock-blues, la canzone di protesta con la saudade del Vesuvio.
Il brano che dà il titolo al suo disco d’esordio, “Terra mia”, del 1977, sta a Partenope come “This land is my land” sta all’America di Woody Guthrie con un’aggiunta di sofferenza e consapevolezza storica, che non è mai autocompatimento; ma il brano che apre il disco, “Napule è” è qualcosa di più: è il canto di una generazione, l’ultima speranza prima della disillusione, poesia e rabbia, dolore e sogno impossibili di una città/nazione salvata dai ragazzini, anzi dai “criature”, dal loro canto ingenuo, pulito. E, sia detto senza dubbio alcuno, una melodia da applausi.
Nel 1979 Pino Daniele mette insieme capolavori come “Je sto vicino a te”, “Chi tene ‘o mare”, “Je so’ pazzo”, “Chillo è nu buono guaglione”, “Ue man!”, “Il mare”, “Putesse essere allero”, “E cerca ‘e me capì” con un’ispirazione che lascia allibiti per lucidità e varietà: mentre la canzone d’autore italiana si piega al messaggio, lui la libera da ogni stilema, rischia i passaggi in radio per le parolacce, parla di diversità e di ecologia prima che questi temi diventino di moda.
Giuseppe Daniele detto Pino, napoletano del centro storico, classe 1955.
[Giorgio Chiantini – notizie tratte dal sito web dell’artista]