John Donne, Il sogno

Alba sullo Jonio - CT - - - inserita il 13-Jun-11. Acitrezza

Il sogno 

Per nessun altro, amore, avrei spezzato
questo beato sogno.
Buon tema per la ragione
troppo forte per la fantasia.
Fosti saggia a destarmi. E tuttavia
tu non spezzi il mio sogno, lo prolunghi.
Tu così vera che pensarti basta
per fare veri i sogni e storia le favole.
Entra fra queste braccia. Se ti parve più giusto
per me non sognare tutto il sogno
ora viviamo il resto.
.
Come il lampo o un bagliore di candela,
I tuoi occhi, non già il rumore, mi destarono.
Pure (giacchè ami il vero)
io ti credetti sulle prime un angelo.
Ma quando vidi che mi vedevi in cuore,
sapevi i miei pensieri oltre l’arte di un angelo,
quando interpretasti il sogno, sapendo
che la troppa gioia mi avrebbe destato
e venisti, devo confessare
che sarebbe stato sacrilegio crederti altro da te.
.
Il venire, il restare ti rivelò: tu sola.
Ma ora che ti allontani
dubito che tu non sia più tu.
Debole quell’amore di cui più forte è la paura,
e non è tutto spirito limpido e valoroso
se è misto di timore, di pudore, di onore.
Forse, come le torce
sono prima accese e poi spente, così tu fai con me.
Venisti per accendermi, vai per venire. E io
sognerò nuovamente
quella speranza, ma per non morire.
 .

*

John Donne, Poesie amorose poesie teologiche, a cura di Cristina Campo (Einaudi) —  in foto: Alba sullo Jonio ad Aci Trezza, dal web.

Tre poeti per l’Italia

Lorenzo Perrone, J'accuse, libro vero, gres, vernice acrilica, matite, 2012

Italia di Giuseppe Ungaretti

Sono un poeta
un grido unanime
sono un grumo di sogni

Sono un frutto
d’innumerevoli contrasti d’innesti
maturato in una serra

Ma il tuo popolo è portato
dalla stessa terra
che mi porta
Italia

E in questa uniforme
di tuo soldato
mi riposo
come fosse la culla
di mio padre.

~

Il mio paese è l’Italia di Salvatore Quasimodo 

Più i giorni s'allontanano dispersi
e più ritornano nel cuore dei poeti.
Là i campi di Polonia, la piana dì Kutno
con le colline di cadaveri che bruciano
in nuvole di nafta, là i reticolati
per la quarantena d'Israele,
il sangue tra i rifiuti, l'esantema torrido,
le catene di poveri già morti da gran tempo
e fulminati sulle fosse aperte dalle loro mani,
là Buchenwald, la mite selva di faggi,
i suoi forni maledetti; là Stalingrado,
e Minsk sugli acquitrini e la neve putrefatta.
I poeti non dimenticano. Oh la folla dei vili,
dei vinti, dei perdonati dalla misericordia!
Tutto si travolge, ma i morti non si vendono.
Il mio paese è l'Italia, o nemico più straniero,
e io canto il suo popolo, e anche il pianto
coperto dal rumore del suo mare,
il limpido lutto delle madri, canto la sua vita.

~

Alla mia nazione di Pier Paolo Pasolini 

Non popolo arabo, non popolo balcanico, non popolo antico
ma nazione vivente, ma nazione europea:
e cosa sei? Terra di infanti, affamati, corrotti,
governanti impiegati di agrari, prefetti codini,
avvocatucci unti di brillantina e i piedi sporchi,
funzionari liberali carogne come gli zii bigotti,
una caserma, un seminario, una spiaggia libera, un casino!

Milioni di piccoli borghesi come milioni di porci
pascolano sospingendosi sotto gli illesi palazzotti,
tra case coloniali scrostate ormai come chiese.
Proprio perché tu sei esistita, ora non esisti,
proprio perché fosti cosciente, sei incosciente.

E solo perché sei cattolica, non puoi pensare
che il tuo male è tutto male: colpa di ogni male.
Sprofonda in questo tuo bel mare, libera il mondo.

*

In apertura: opera di Lorenzo Perrone, J’accuse (libro vero, gres, vernice acrilica, matite, 2012)

Vittorio in Via C di Tommaso Greco da Laboratorio Camenzind

Caloveto ph.AnGre 2023 - 6di Tommaso Greco

Ci sono persone che più di altre rappresentano un mondo e, quando queste persone se ne vanno, è forte la sensazione che con loro se ne vada pure il mondo che rappresentano. Al mio paese (in foto, dettaglio di Caloveto – CS), l’altra sera, è morto Vittorio il postino, anzi, per essere più precisi, “Vittoriu u posteru”. Prima di lui, appena il giorno prima, era morta Raffaella Salerno: lo dico non solo per ricordare una mia vicina di casa, madre e nonna di amici carissimi, ma perché nel mio paese nessuno muore mai solo; chi muore se ne porta via sempre qualcun altro. Evidentemente siamo un popolo abituato alla compagnia e non alle imprese solitarie.
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Comunque, la notizia è che anche Vittorio il postino è morto — uno dei tanti morti che non ho potuto onorare andando al loro funerale — e con lui sembra se ne vada quel mondo nel quale ancora scrivevamo lettere e cartoline e attendevamo per giorni che cartoline e lettere arrivassero da lontano. Certo, c’erano anche le bollette e le altre cose — Vittorio portava anche quelle; ma le lettere erano una cosa speciale. Erano una cosa che si aspettava e che esercitava alla pazienza. Ora non siamo più abituati a quell’attesa; così come non siamo più abituati alla fatica di decifrare la scrittura dell’amico o della fidanzata e al piacere di rileggere quelle parole fisicamente contorte che si aprivano a significati inattesi.
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Quando Vittorio arrivava in via C aveva già fatto un lungo per-corso. Era stato al Pedale e al Gentile e poi era risalito verso via Trieste, per ridiscendere verso la via che dava accesso al paese; via C, appunto, la via in cui abitavo. “Via C”: questo era il nome che le era stato dato dal Comune, in attesa di trovare un nome più consono. Io mi vergognavo di dare quell’indirizzo e mi ero inventato che abitavo in via Nazionale: Vittorio lo sapeva e mi consegnava ugualmente la posta, dicendomi ogni volta, scherzando: “ma quale via Nazionale? Da dove l’hai presa questa via Nazionale?”. Quando poi andai all’Università, e dovetti dare l’indirizzo ufficiale, agli uffici del Diritto allo studio mi chiesero per scherzo se abitavo in un lager. (Ad ogni modo ora la via è intitolata a Sandro Pertini, il che che mi sembra non soltanto una bella notizia ma anche un adeguato risarcimento per chi, per lunghi anni, ha dovuto abitare in una strada che non era degna nemmeno di avere un nome qualunque; ora quella strada porta il nome di uno dei pochissimi politici degni di stima nella storia italiana).
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Vittorio arrivava e chiamava dalla strada, attendendo che si aprisse la porta. Non suonava il campanello perché, quasi sempre, il campanello non c’era. Le nostre case sono state senza campanelli fino a ieri; e non è un caso: i campanelli sono un simbolo di solitudine perché dicono a chi vuole venire in casa nostra che deve prima annunciarsi e chiedere il permesso di varcare la soglia; io ricordo che un tempo bastava tirare un laccetto che sbucava dalla porta, lasciato lì apposta per invitare ad entrare.
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Non aveva mai fretta, Vittorio, anche se aveva molto da fare, e anche se camminava sempre e soltanto servendosi dei suoi piedi veloci. A volte si sedeva sul muretto davanti a casa per riposarsi e scambiare due parole, ma subito ripartiva, chiamato dal dovere e dall’attesa dei compaesani. Non ricordo mai una sua battuta malevola né una confidenza pettegola; consegnava la posta sempre col sorriso e spesso la accompagnava con una battuta. Non credo, peraltro, che mi abbia mai chiamato per nome; usava storpiare un poco il nome di mio padre e quello bastava a me e a lui per una identificazione non equivoca.
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Da tempo non lo incontravo più nelle rare discese in paese. Era malato. Spero che la pioggia battente che ha accompagnato la sua ultima traversata del paese non gli abbia impedito di salutare una per una quelle porte solitarie che conosceva così bene.
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~
Tommaso Greco è professore ordinario di Filosofia del diritto nel Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Pisa, dove è anche direttore del Centro Interdipartimentale di Bioetica. Dirige la collana “Bobbiana” dell’editore Giappichelli e la rivista di storia della filosofia del diritto “Diacronìa”.Ha pubblicato Norberto Bobbio. Un itinerario intellettuale tra filosofia e politica (Donzelli, 2000), La bilancia e la croce. Diritto e giustizia in Simone Weil (Giappichelli, 2006) , Diritto e legame sociale (Giappichelli, 2012), La legge della fiducia (Laterza, 2022).
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AA.VV. Ricordo, ricordi…

ph.AnGre

Ricordo di Eugenio Montale

Lei sola percepiva i suoni
dei miei silenzi. Temevo
a volte che fuggisse il tempo
ostile mentre parlavamo.

Dopodiché ho smarrito la memoria
ed ora mi ritrovo a parlare
di lei con te, tra spirali di fumo
che velano la nostra commozione.

Ed è questa la parte di me che ritrovo
mutata: il sentimento, per sé informe,
in quest’oggi che è solo di rimpianto.

~

L’addio di Nazim Hikmet

L’uomo dice alla donna
t’amo
e come:
come se stringessi tra le palme
il mio cuore, simile a scheggia di vetro
che m’insanguina i diti
quando lo spezzo
follemente.

L’uomo dice alla donna
t’amo
e come:
con la profondità dei chilometri
con l’immensità dei chilometri
cento per cento
mille per cento
cento volte l’infinitamente cento.

La donna dice all’uomo
ho guardato
con le mie labbra
con la mia testa col mio cuore
con amore con terrore, curvandomi
sulle tue labbra
sul tuo cuore
sulla tua testa.
E quello che dico adesso
l’ho imparato da te
come un mormorio nelle tenebre
e oggi so
che la terra
come una madre
dal viso di sole
allatta la sua creatura più bella.

Ma che fare?
I miei capelli sono impigliati ai diti di ciò che muore
non posso strapparne la testa
devi partire
guardando gli occhi del nuovo nato
devi abbandonarmi.
La donna ha taciuto
si sono baciati
un libro è caduto sul pavimento
una finestra si è chiusa.
È così che si sono lasciati.

(Traduzione di Joyce Lussu)

~

Amore di lontananza di Antonia Pozzi 

Ricordo che, quand’ero nella casa
della mia mamma, in mezzo alla pianura,
avevo una finestra che guardava
sui prati; in fondo, l’argine boscoso
nascondeva il Ticino e, ancor più in fondo,
c’era una striscia scura di colline.
Io allora non avevo visto il mare
che una sol volta, ma ne conservavo
un’aspra nostalgia da innamorata.
Verso sera fissavo l’orizzonte;
socchiudevo un po’ gli occhi; accarezzavo
i contorni e i colori tra le ciglia:
e la striscia dei colli si spianava,
tremula, azzurra: a me pareva il mare
e mi piaceva più del mare vero.

~

Mi ricorderò di questo autunno di Leonardo Sinisgalli

Mi ricorderò di questo autunno
splendido e fuggitivo dalla luce migrante,
curva al vento sul dorso delle canne.
La piena dei canali è salita alla cintura
e mi ci sono immerso disseccato dalla siccità.
Quando sarò con gli amici nelle notti di città
farò la storia di questi giorni di ventura,
di mio padre che a pestar l’uva
s’era fatti i piedi rossi,
di mia madre timorosa
che porta un uovo caldo nella mano
ed è più felice d’una sposa.
Mio padre parlava di quel ciliegio
piantato il giorno delle nozze, mi diceva,
quest’anno non ha avuto fioritura,
e sognava di farne il letto nuziale a me primogenito.
Il vento di tramontana apriva il cielo
al quarto di luna. La luna coi corni
rosei, appena spuntati, di una vitella!
Domani si potrà seminare, diceva mio padre.
Sul palmo aperto della mano guardavo
i solchi chiari contro il fuoco, io sentivo
scoppiare il seme nel suo cuore,
io vedevo nei suoi occhi fiammeggiare
la conca spigata.

~

C’era di Umberto Saba

C’era, un po’ in ombra, il focolaio; aveva
arnesi, intorno, di rame. Su quello
si chinava la madre col soffietto,
e uscivano faville.

C’era nel mezzo una tavola dove
versava antica donna le provviste.
Il mattarello vi allungava a tondo
la pasta molle.

C’era, dipinta di verde, una stia,
e la gallina in libertà raspava.
Due mastelli, là sopra, riflettevano,
colmi, gli oggetti.

C’era, mal visto nel luogo, un fanciullo.
Le sue speranze assieme alle faville
del focolaio si alzavano. Alcuna
-guarda!-è rimasta.

AA.VV. Agli amici

L’amico che dorme di Cesare Pavese 

Che diremo stanotte all’amico che dorme?
La parola più tenue ci sale alle labbra
dalla pena più atroce.
Guarderemo l’amico,
le sue inutili labbra che non dicono nulla,
parleremo sommesso.
La notte avrà il volto
dell’antico dolore che riemerge ogni sera
impassibile e vivo.
Il remoto silenzio soffrirà come un’anima, muto, nel buio.
Parleremo alla notte che fiata sommessa.
Udiremo gli istanti stillare nel buio
al di là delle cose, nell’ansia dell’alba,
che verrà d’improvviso incidendo le cose
contro il morto silenzio.
L’inutile luce svelerà il volto assorto del giorno.
Gli istanti taceranno.
E le cose parleranno sommesso.

~

Amicizia di Khalil Gibran

E un giovane chiese: “Parlaci dell’amicizia”
Il vostro amico è il vostro bisogno saziato.
È il campo che seminate con amore e mietete con riconoscenza.
È la vostra mensa e il vostro focolare.
Poiché, affamati, vi rifugiate in lui e lo ricercate per la vostra pace.

~

Soffitta di Ezra Pound

Vieni, compiangiamoli quelli che stanno meglio di noi.
Vieni, amica, e ricorda
che i ricchi han maggiordomi e non amici,
e noi abbiamo amici e non maggiordomi.
Vieni, compiangiamo gli sposati e i non sposati.
L’aurora entra a passettini
come una dorata Pavlova,
e io son presso al mio desiderio.
Né ha la vita in sé qualcosa di migliore
che quest’ora di chiara freschezza,
l’ora di svegliarsi in amore.

~

Amico di Pablo Neruda 

Amico, portati via quello che vuoi,
affonda il tuo sguardo negli angoli,
e se vuoi ti darò tutta l’anima
coi suoi bianchi viali e le sue canzoni.

~

Amicizia di Jorge Luis Borges 

Non posso darti soluzioni
per tutti i problema della vita
Non ho risposte per i tuoi dubbi o timori,
però posso ascoltarli e dividerli con te
Non posso cambiare né il tuo passato
né il tuo futuro
Però quando serve starò vicino a te
Non posso evitarti di precipitare,
solamente posso offrirti la mia mano
perché ti sostenga e non cadi
La tua allegria, il tuo successo e il tuo trionfo
non sono i miei
Però gioisco sinceramente quando ti vedo felice
Non giudico le decisioni che prendi nella vita
Mi limito ad appoggiarti a stimolarti
e aiutarti se me lo chiedi
Non posso tracciare limiti
dentro i quali devi muoverti,
Però posso offrirti lo spazio
necessario per crescere
Non posso evitare la tua sofferenza,
quando qualche pena ti tocca il cuore
Però posso piangere con te e raccogliere i pezzi per rimetterlo a nuovo.
Non posso dirti né cosa sei né cosa devi essere
Solamente posso volerti come sei
ed essere tua amica.

Vittorio Sereni, tre poesie

carta e penna

Vittorio Sereni, tre poesie

*

Finestra

Di colpo – osservi – è venuta,
è venuta di colpo la primavera
che si aspettava da anni.

Ti guardo offerta a quel verde
al vivo alito al vento,
ad altro che ignoro e pavento
– e sto nascosto –
e toccasse il mio cuore ne morrei.
Ma lo so troppo bene se sul grido
dei viali mi sporgo,
troppo dal verde dissimile io
che sui terrazzi un vivo alito muove,
dall’incredibile grillo che quest’anno
spunta a sera tra i tetti di città
– e chiuso sto in me, fasciato di ribrezzo.

Pure, un giorno è bastato.
In quante per una che venne
si sono mosse le nuvole
che strette corrono strette sul verde,
spengono canto e domani
e torvo vogliono il nostro cielo.
Dillo tu allora se ancora lo sai
che sempre sono il tuo canto,
il vivo alito, il tuo
verde perenne, la voce che amò e cantò –
che in gara ora, l’ascolti?
scova sui tetti quel po’ di primavera
e cerca e tenta e ancora si rassegna.

~

Le mani

Queste tue mani a difesa di te:
mi fanno sera sul viso.
Quando lente le schiudi, là davanti
la città è quell’arco di fuoco.
Sul sonno futuro
saranno persiane rigate di sole
e avrò perso per sempre
quel sapore di terra e di vento
quando le riprenderai.

~

Capo d’anno

Aggiorna sul nevaio.
Ad altro dosso di monte
un ignoto paese
mormorando mi va primavera
dalle sue rosse fontane,
da rivi scaturiti a giorno chiaro;
dove uscirono donne sulla neve
e ora cantano al sole.

Rileggiamo l’opera: Maestà di Santa Trinita di Firenze – sassi d’arte

Cimabue_Trinita_Madonna

Cimabue, Maestà di Santa Trinita (1270)

tempera su tavola, cm 385 x 223 – Galleria degli Uffizi, Firenze

*

 “In questa tavola, che secondo la tradizione Cimabue realizzò per la chiesa di Santa Trinita di Firenze e oggi conservata agli Uffizi, troviamo alcuni dei maggiori traguardi raggiunti dal maestro fiorentino. Essa è stata realizzata tra il 1280 e il 1290, in una fase quindi molto matura del percorso artistico di Cimabue. Il tema della Maestà in trono è molto diffuso in tutta la pittura del Duecento italiano, ed è una delle composizioni che, nella sua immanente ieraticità, più risente della influenza dello stile bizantino, dal quale i pittori italiani cercano di distaccarsi. Ed anche questa tavola del Cimabue risente dei grandi precedenti bizantini, conservandone alcuni tratti stilistici, in particolare la visione frontale, l’uso molto esteso del colore oro, nonché le lumeggiature dorate che utilizza per la veste della Madonna.

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 Ma la grande novità di questa pala d’altare sta soprattutto nella straordinaria costruzione spaziale, che viene impostata secondo una composizione del tutto inedita per il tempo. La Madonna siede su un trono che è quasi un’architettura, con il suo ritrarsi in una forma convessa, lasciando aprire al di sotto tre campate dal quale si affacciano quattro profeti. Nel suo complesso, questo trono così articolato sembra quasi la sezione di una cattedrale a tre navate, e non è quindi da escludere il significato simbolico del trono sul quale la Madonna siede e che quindi rappresenta la Chiesa. Nelle tre nicchie sottostanti al trono si affacciano quattro profeti: ai due lati abbiamo Geremia e Isaia (il primo è quello a destra guardando), mentre nella nicchia centrale vi sono Abramo e David che rappresentano la dinastia dalla quale è disceso Gesù.

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 Ai lati della Madonna e del Bambino ci sono quattro angeli per parte, la cui collocazione spaziale appare decisamente inedita. Gli angeli non sono semplicemente uno sopra l’altro, ad occupare in verticale lo spazio ai lati del trono: ma appaiono come sfalsati in profondità. È questa la prima volta che ciò accade, con l’evidente intento di dare profondità spaziale all’intera costruzione spaziale dell’immagine. Del resto anche i due profeti Geremia e Isaia, nelle due nicchie in basso, con il loro alzare lo sguardo verso l’alto, già suggeriscono delle direzioni spaziali che sono di precisa tridimensionalità: essi non stanno “sotto” ma “davanti”. Quindi lo spazio non è pensato e realizzato sulla bidimensionalità della tavola, ma sulla scatola spaziale che visivamente avvertiamo oltre il piano della rappresentazione.491px-Cimabue_035 Il percorso della successiva arte italiana è così tracciato: in Giotto, e in tutti i suoi seguaci, il piano di rappresentazione diviene sempre più trasparente per aprirsi ad uno spazio virtuale, e tridimensionale, oltre il piano sul quale giace materialmente l’immagine.”

*

Nota – Il pittore fiorentino Cenni di Pepo soprannominato Cimabue fu uno dei principali protagonisti della pittura italiana della fine del Duecento, così come ci testimonia anche Dante in un famoso passaggio della Divina Commedia (Credette Cimabue ne la pittura / tener lo campo, e ora ha Giotto il grido, / sì che la fama di colui è scura – Purg. XI, 94-96). Poche le notizie della sua vita: la sua attività è documentata tra il 1272 e il 1302. Secondo il Vasari fu egli il primo pittore italiano a distaccarsi dallo stile bizantino per dar vita al nuovo linguaggio pittorico italiano. In realtà Giorgio Vasari tendeva a sopravvalutare la portata storica del contributo fiorentino al rinnovamento pittorico italiano, mentre la presenza a Roma di Cimabue nel decennio ’70 lo colloca in stretto rapporto con l’ambiente pittorico romano dominato in quegli anni dalle figure di Pietro Cavallini e Jacopo Torriti. Fondamentali alla formazione di Cimabue furono anche due pittori fiorentini quali Coppo di Marcovaldo e Giunta Pisano, i cui modi tardo bizantini furono proprio il punto di partenza dell’evoluzione stilistica di Cimabue.

Ma la pittura del maestro fiorentino se ne distaccò per due parametri fondamentali: la maggiore resa volumetrica delle figure attraverso un chiaroscuro di grande forza plastica e la ricerca di una umanizzazione delle figure che rompe definitivamente con la ieraticità delle immagini bizantine.

Non molte le sue opere pervenutici, alcune delle quali rovinate anche da recenti eventi, quale l’alluvione a Firenze del 1966 che produsse gravi danni al suo Crocefisso della Chiesa di Santa Croce. Diverse le sue opere su tavola, mentre la sua produzione ad affresco si concentra nei lavori eseguiti per le due basiliche di San Francesco ad Assisi. 

[tratto da Storia dell’Arte, dal Gotico al Barocco; per questo articolo si ringrazia francescomorante.it – immagini dal web]

*

Tre poesie di Robert Frost

bosco in autunno

Tre poesie di Robert Frost

*

La strada non presa

Due strade divergevano in un bosco giallo
e mi dispiaceva non poterle percorrere entrambe
ed essendo un solo viaggiatore, rimasi a lungo
a guardarne una fino a che potei.

Poi presi l’altra, perché era altrettanto bella,
e aveva forse l’ aspetto migliore,
perché era erbosa e meno consumata,
sebbene il passaggio le avesse rese quasi simili.

Ed entrambe quella mattina erano lì uguali,
con foglie che nessun passo aveva annerito.

Oh, misi da parte la prima per un altro giorno!
Pur sapendo come una strada porti ad un’altra,
dubitavo se mai sarei tornato indietro.

Lo racconterò con un sospiro
da qualche parte tra anni e anni:
due strade divergevano in un bosco, e io –
io presi la meno percorsa,
e quello ha fatto tutta la differenza.

~

Fuori per campi e boschi

Fuori per campi e boschi
E oltre le mura ho viaggiato;
Salito su colline panoramiche
Ho guardato il mondo, sono sceso;
Per la via grande son tornato a casa,
Ed ecco ho terminato.

Le foglie sono tutte morte a terra,
Ma la quercia le sue trattiene
Per ammucchiarle una a una
E lasciarle graffiare e strisciare
Fuori sulla crosta di neve,
Quando le altre staranno a riposare.

Confuse e immobili le foglie morte,
Non più sbattute qua e là;
L’ultimo astro solitario è scomparso;
Appassiscono i fiori dell’hamamelis;
Ancora cerca e si tormenta il cuore,
Ma i passi domandano «dove?».

Ah, quando mai al cuore dell’uomo
Fu meno che un tradimento
Lasciarsi alla deriva delle cose,
Cedere con grazia alla ragione,
E piegarsi e accettare la fine
D’un amore e d’una stagione?

~

Niente che sia d’oro resta

In Natura il primo verde è dorato,
e subito svanisce.
Il primo germoglio è un fiore
che dura solo un’ora.
Poi a foglia segue foglia.
Come l’Eden affondò nel dolore
Così oggi affonda l’Aurora.
Niente che sia d’oro resta.

Due poesie di Vittorio Bodini

9~Leuca - Faro di Punta Palascia

Due poesie di Vittorio Bodini

*

Con questo nome

Amore, cosa chiamo con questo nome
io non sono più certo di sapere.
Se ricerco nel fondo ove s’immerse
il tuo quieto naufragio,
fra i denti degli squali, di quelle sabbie gelosi,
presto riemerge il mio pensiero nudo
al visibile giorno,
con le braccia ferite e qualche filo
d’alga sul corpo, o i ciechi segni d’una medusa.

Ma a sera, se col passo delle fiere
che convengono caute presso lo stagno,
fra gli azzurri veleni che mesce il cielo,
in me come a tremante vetro s’affacciano
le antiche colpe, o errori, o la presente
solitudine, oh allora, come sei
tu stranamente viva sulle mie labbra,
e che stupiti altari la mia voce
odono che si scolpa nelle tenebre
a mia insaputa: O amore, tu sapessi…

~

Tutto un paese sorge contro un uomo

Tutto un paese sorge contro un uomo
condannato al coraggio:
le torri aragonesi a rombo sulla scogliera
e le case alte un palmo
(e doverti pregare di sorridere!),
come il cucito su cui cade a picco
il profilo severo delle cucitrici
in una poca luce d’oleandri.
Mi sarebbe costato meno uccidere,
in quest’inefficace lume di luna
schiacciata ai poli e preda di vapori
d’un rissoso occidente,
che dover dire: «un uomo come me »,
e sentire lo spazio per tutti e quattro i costati
torcersi come rame bianco, e le stoppie bruciare
in fumo senza vampe.
Le cose si feriscono anche senza di noi.
Che cos’ha questo viso? Io non avrei dovuto
uscire così illeso dai miei naufragi e segnare
nuovi fatti insensati sul bilancio del vivere,
eppure il tempo non si vendica, serba una traccia
dell’antica fierezza che morì
nelle disabitate tombe sparse
fra questi scogli che corrode il mare
e lo zolfo di sommersi vulcani.
È lì che vaga la notte la tua anima
di uomo come me, di me che credo
in quegli avi sepolti per tanti secoli
con un profilo come il mio
con cui guidavano
il corso delle navi e dei cavalli
e amavano pazienti donne dagli occhi d’uva.
Come si dibatte l’omuncolo nell’intrico del sangue
di quell’offesa somiglianza – e intanto perde terreno!
Vedilo dunque saltare, saltare infinitamente
fra queste tombe greche
accecate di terra, in riva al mare,
sparire nelle grotte, ricomparire
col viso tumefatto dal dolciastro egoismo
d’essere ancora vivo senza pietà.

in apertura: faro di Punta Palascia, Otranto (LE)

Due poesie di Pablo Neruda

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Due poesie di Pablo Neruda

*

Nascere non basta

Nascere non basta.
È per rinascere che siamo nati.
Ogni giorno.

*

Giochi ogni giorno con la luce dell’universo

Giochi ogni giorno con la luce dell’universo.
Sottile visitatrice, giungi nel fiore e nell’acqua.
Sei più di questa bianca testina che stringo
come un grappolo tra le mie mani ogni giorno.

A nessuno rassomigli da che ti amo.
Lasciami stenderti tra le ghirlande gialle.
chi scrive il tuo nome a lettere di fumo tra le stelle del sud?
Ah lascia che ricordi come eri allora, quando ancora non esistevi.

Improvvisamente il vento ulula e sbatte la mia finestra chiusa.
Il cielo è una rete colma di pesci cupi.
Qui vengono a finire i venti, tutti.
La pioggia si denuda.

Passano fuggendo gli uccelli.
Il vento. Il vento.
Io posso lottare solamente contro la forza degli uomini.
Il temporale solleva in turbine foglie oscure
e scioglie tutte le barche che iersera s’ancorarono al cielo.

Tu sei qui. Ah tu non fuggi.
Tu mi risponderai fino all’ulitmo grido.
Raggomitolati al mio fianco come se avessi paura.
Tuttavia qualche volta corse un’ombra strana nei tuoi occhi.

Ora, anche ora, piccola mi rechi caprifogli,
ed hai persino i seni profumati.
Mentre il vento triste galoppa uccidendo farfalle
io ti amo, e la mia gioia morde la tua bocca di susina.

Quanto ti sarà costato abituarti a me,
alla mia anima sola e selvaggia, al mio nome che tutti allontanano.
Abbiamo visto ardere tante volte l’astro baciandoci gli occhi
e sulle nostre teste ergersi i crepuscoli in ventagli giranti.

Le mie parole piovvero su di te accarezzandoti.
Ho amato da tempo il tuo corpo di madreperla soleggiata.
Ti credo persino padrona dell’universo.
Ti porterò dalle montagne fiori allegri, copihues,
nocciole oscure, e ceste silvestri di baci.
Voglio fare con te
ciò che la primavera fa con i ciliegi.

Alla madre

Giacomo Balla, Affetti

Lettera alla madre di Salvatore Quasimodo

«Mater dolcissima, ora scendono le nebbie,
il Naviglio urta confusamente sulle dighe,
gli alberi si gonfiano d’acqua, bruciano di neve;
non sono triste nel Nord: non sono
in pace con me, ma non aspetto
perdono da nessuno, molti mi devono lacrime
da uomo a uomo. So che non stai bene, che vivi
come tutte le madri dei poeti, povera
e giusta nella misura d’amore
per i figli lontani. Oggi sono io
che ti scrivo. » – Finalmente, dirai, due parole
di quel ragazzo che fuggì di notte con un mantello corto
e alcuni versi in tasca. Povero, così pronto di cuore
lo uccideranno un giorno in qualche luogo. –
«Certo, ricordo, fu da quel grigio scalo
di treni lenti che portavano mandorle e arance,
alla foce dell’Imera, il fiume pieno di gazze,
di sale, d’eucalyptus. Ma ora ti ringrazio,
questo voglio, dell’ironia che hai messo
sul mio labbro, mite come la tua.
Quel sorriso m’ha salvato da pianti e da dolori.
E non importa se ora ho qualche lacrima per te,
per tutti quelli che come te aspettano,
e non sanno che cosa. Ah, gentile morte,
non toccare l’orologio in cucina che batte sopra il muro
tutta la mia infanzia è passata sullo smalto
del suo quadrante, su quei fiori dipinti:
non toccare le mani, il cuore dei vecchi.
Ma forse qualcuno risponde? O morte di pietà,
morte di pudore. Addio, cara, addio, mia dolcissima mater. »

~

Preghiera alla madre di Umberto Saba

Madre che ho fatto soffrire
(cantava un merlo alla finestra, il giorno
abbassava, sì acuta era la pena
che morte a entrambi io m’invocavo) madre
ieri in tomba obliata,
oggi rinata; presenza,
che dal fondo dilaga quasi vena
d’acqua, cui dura forza reprimeva,
e una mano le toglie abile o incauta
l’impedimento;
presaga gioia io sento
il tuo ritorno, madre mia che ho fatto,
come un buon figlio amoroso, soffrire.
Pacificata in me ripeti antichi
moniti vani. E il tuo soggiorno un verde
giardino io penso, ove con te riprendere
può a conversare l’anima fanciulla,
inebbriarsi del tuo mesto viso,
sì che l’ali vi perda come al lume
una farfalla. È un sogno,
un mesto sogno; ed io lo so. Ma giungere
vorrei dove sei giunta, entrare dove
tu sei entrata
ho tanta gioia e tanta stanchezza!
farmi, o madre,
come una macchia dalla terra nata,
che in sé la terra riassorbe ed annulla.

~

Supplica a mia madre di Pier Paolo Pasolini 

È difficile dire con parole di figlio
ciò a cui nel cuore ben poco assomiglio.

Tu sei la sola al mondo che sa, del mio cuore,
ciò che è stato sempre, prima d’ogni altro amore.

Per questo devo dirti ciò ch’è orrendo conoscere:
è dentro la tua grazia che nasce la mia angoscia.

Sei insostituibile. Per questo è dannata
alla solitudine la vita che mi hai data.

E non voglio esser solo. Ho un’infinita fame
d’amore, dell’amore di corpi senza anima.

Perché l’anima è in te, sei tu, ma tu
sei mia madre e il tuo amore è la mia schiavitù:

ho passato l’infanzia schiavo di questo senso
alto, irrimediabile, di un impegno immenso.

Era l’unico modo per sentire la vita,
l’unica tinta, l’unica forma: ora è finita.

Sopravviviamo: ed è la confusione
di una vita rinata fuori dalla ragione.

Ti supplico, ah, ti supplico: non voler morire.
Sono qui, solo, con te, in un futuro aprile…

*

In apertura: G.Balla, “Affetti”

Due poesie di Odisseas Elitis

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Due poesie di Odisseas Elitis (pseudonimo di Odisseas Alepudelis); nato nel 1911 a Iraklio di Creta, nel 1979 riceve il Premio Nobel per la Letteratura, secondo poeta greco dopo Ghiorgos Seferis. Morirà ad Atene nel 1996.

*

Piango il sole e piango gli anni che verranno
Senza di noi e canto gli altri passati
Se veramente sono

Confidenti i corpi e le barche che sbattono dolcemente
Le chitarre che accendono e spengono sotto le acque
I “credimi” e i “non”
Ora nel vento ora nella musica

E le nostre mani, due piccole bestie
Che furtive cercavano di salire l’una sull’altra
Il vaso di brezza negli aperti cortili
E i frammenti di mare che ci seguivano
Fin dietro le siepi e sopra i muri a secco
L’anemone che si depose nella tua mano
E tremò tre volte il viola tre giorni sopra le cascate

Se tutto questo è vero io canto
La trave di legno e l’arazzo quadrato
Alla parete, la Gorgone con i capelli sciolti
Il gatto che ci guardò nel buio
Bambino con la croce vermiglia e l’incenso
Nell’ora che sull’impervia scogliera scende la sera
Piango la veste che sfiorai e fu mio il mondo.

~

Elena

Uccisa con la prima goccia della pioggia l’estate
Madide le parole un tempo madri a chiaro d’astri
Parole tutte destinate solo a Te!
Dove mai tenderemo le mani ora che il tempo non ci calcola più
Dove mai getteremo gli occhi oramai che le remote linee
hanno fatto naufragio nelle nubi
Ora che le tue palpebre sopra i nostri paesi sono chiuse
E siamo – come invasi dalla nebbia – soli
Soli assediati dalle tue sembianze morte.

Con la fronte sul vetro vegliamo il nuovo cruccio
Non è la morte che ci abbatterà se ci sei Tu
Se un vento altrove c’è che tutta intera ti vivrà
Ti vestirà da presso come la speranza nostra ti veste da lontano
Se altrove c’è
Una pianura verde di là dal tuo sorriso fino al sole
E gli confida che c’incontreremo ancora
Non è la morte che fronteggeremo no
Ma così breve goccia della pioggia d’autunno
Un sentimento torbido
L’odore della terra infradiciata nelle anime nostre che s’allontanano via via

Se non è la tua mano nella nostra
Se non è il sangue nostro nelle vene dei tuoi sogni O la luce nel cielo immacolato
E dentro noi la musica segreta – malinconica
Pellegrina di tutto ciò che ci tiene al mondo ancora
È quest’umido vento l’ora dell’autunno il distacco
L’amaro appoggio del cubito al ricordo
Che spunta quando già la notte sta per scinderci dal chiaro
Di là dalla finestra quadra
Che guarda sull’angoscia e nulla vede
Perché s’è fatta musica segreta vampa al focolare bàttito
dell’orologio grande alla parete
Perché s’è già cangiata
In poesia – verso su verso – in suono parallelo a pioggia lacrime parole
Altre parole eppure anch’esse destinate solo a Te!

Marocco di Tommaso Greco da Laboratorio Camenzind

Marocco by Tommaso Greco

MAROCCO

Lungo le strade del Marocco
ho visto una creatura di sabbia
e pietre, su cui le donne si muovono
leggere, portando i loro fardelli,
avvolte nei veli colorati.
Silenziose si scostano
dagli uomini che affollano i mercati
o che all’ombra aspettano il muezzin
che proclami l’ora della preghiera.
Solo i ragazzi sorridono
mentre tornano dalla scuola
piroettando sulla bicicletta
o camminando senza fretta
lungo il ciglio della strada.

Mi accorgo di aver già vissuto
il Marocco nel grido degli ambulanti
che giravano il paese carichi di tappeti,
e ancor più nella mia gente:
accompagnando mia madre al fiume
dove lavava le coperte
e poi le stendeva al sole sulle pietre;
andando incontro agli asini
su cui uomini cotti dalla fatica tornavano
al focolare nell’ora del tramonto;
negli operai sulle ‘nnajte
di tavola, che costruivano le case
coi blocchetti di cemento.

Non è lontano, per me, il Marocco.
Nelle sue facce olivastre,
nelle sue attese operose,
nei vicoli stretti tra le case
negli spazi riempiti dai giochi
dei bambini ad ogni ora
ritrovo ciò che siamo stati,
ciò che siamo ancora.

di Tommaso Greco 

QUI il testo originale con le fotografie di viaggio

***

Tommaso Greco è professore ordinario di Filosofia del diritto nel Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Pisa, dove è anche direttore del Centro Interdipartimentale di Bioetica. Dirige la collana “Bobbiana” dell’editore Giappichelli e la rivista di storia della filosofia del diritto “Diacronìa”.Ha pubblicato Norberto Bobbio. Un itinerario intellettuale tra filosofia e politica (Donzelli, 2000), La bilancia e la croce. Diritto e giustizia in Simone Weil (Giappichelli, 2006) , Diritto e legame sociale (Giappichelli, 2012), La legge della fiducia (Laterza, 2022 – Qui in questo blog).

Peppino Impastato, versi da Amore Non Ne Avremo

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E venne a noi un adolescente

dagli occhi trasparenti

e dalle labbra carnose,

alla nostra giovinezza

consunta nel paese e nei bordelli.

non disse una sola parola

né fece gesto alcuno;

questo suo silenzio

e questa sua immobilità

hanno aperto una ferita mortale

nella nostra consunta giovinezza.

Nessuno ci vendicherà;

la nostra pena non ha testimoni.

*

da Amore Non Ne Avremo, Poesia e immagini di Peppino Impastato

a cura di Guido Orlando e Salvo Vitale, Navarra Editore 2008

(versi a centro-pagina come sul testo) – http://www.peppinoimpastato.com/poesiedipeppino.htm

*

Giuseppe Impastato, nato a Cinisi (PA) il 5 gennaio 1948, “Peppino”, è stato un giornalista, attivista e poeta italiano, membro di Democrazia Proletaria e noto per le sue denunce contro le attività di Cosa Nostra, a seguito delle quali fu assassinato il 9 maggio 1978.

Inediti di Angela Greco AnGre

Pianto d'amore - Giorgio De Chirico

Penelope lo sa
delle tue peripezie quotidiane e
dei giorni in alto mare.
Lettere dopo lettere, le ore
ordiscono un'attesa
ed è la tua voce a dirti accanto,
in questo maggio finalmente fiorito.
S'avvicina Itaca,
al di là dei presagi e degli dei,
mentre lo sguardo insegue una scia azzurra 
tra l'orizzonte e questo foglio.

~
La sera sono i tuoi occhi
vicini alle stelle tra le parole
di un giorno di burrasca. Alla fine,
l'approdo è rivedere il tuo volto;
una geografia di vissuto oltredire.

Il silenzio sospende il fiato e
in un momento nessuna distanza
riesce a dirci lontani. Sarà poi
il sogno a ricordarmi le tue mani e
quella vena che scorre impetuosa sottopelle.

~

Domani 
bacerò ancora la mia Itaca.
Domani.
Avrà approdo, casa e i tuoi occhi
il viaggio.
Dopo i giochi di dei e destino,
domani.

(2023)