Rileggiamo l’opera: Nave Moe con una nota dell’artista – sassi d’arte

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Paul Gauguin, Nave Nave Moe (Dolci fantasticherie), 1894

olio su tela, cm 73 x 98, San Pietroburgo – The State Hermitage Museum

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Nave nave Moe (Dolci fantasticherie tradotto anche come Acqua deliziosa) fu dipinto da Paul Gauguin in Francia durante il periodo di ritorno in Europa: il pittore ha portato con sé molti disegni e appunti, di cui si serve anche a Parigi per eseguire opere tahitiane e anche in questo caso, dove vengono accostati elementi sacri e della vita quotidiana, si ritrovano caratteri consueti, quali le donne del luogo, il mango e, sullo sfondo, la danza rituale per la dea Hina.

Del mondo polinesiano, oltre al naturale fascino estetico ed esotico, a catturare Gauguin sono stati soprattutto il legame e l’armonia tra essere umano e natura. Nelle sue opere le donne tahitiane spesso simbolizzano diversi stadi della vita. In questo specifico dipinto si osservano una ragazza con l’aureola sulla testa, dormiente, che rappresenta la purezza virginale, e un’altra giovane donna, con un frutto in mano, paragonabile a Eva della tradizione cristiana e fondendo, così, quest’ultima al mondo spirituale tahitiano.

Quando Gauguin torna nella capitale francese vuole assolutamente stupire con un atteggiamento eccentrico e disinvolto, con la speranza di attirare sulle sue opere l’attenzione di eventuali acquirenti; invece, ottiene l’effetto di allontanare anche quei pochi collezionisti che avevano mostrato interesse verso il suo modo di dipingere. Pur essendo tornato nella sua patria continua ad evocare le immagini di quei mari del Sud che lo avevano letteralmente sedotto: egli non si cimenta con motivi nuovi, ma utilizza il vecchio repertorio con la speranza di conquistare il mondo dell’arte; ma il suo distacco da ogni residuo di realtà concreta, a cui si erano orientati finora i suoi mondi figurativi, farà sì che egli si senta sperduto nella sua patria tanto da mantenere vivi anche a Parigi i ricordi dei Tropici e dipinti come Dolci fantasticherie continueranno a essere immersi nella magia del mondo perduto.

In una delle lettere alla moglie, avvalorando il suo carattere e soprattutto le sue scelte improduttive dal punto di vista economico e, forse per questo, anche inutili per tanti, Gauguin dirà qualcosa che – a mio parere – è validissimo ancora oggi e non solo in Pittura: “Sono un grande artista e lo so. Proprio perché lo sono ho sopportato tante sofferenze: per seguire la mia vita, se no mi considererei un bandito. Che è quello che sono, del resto, per molte persone. In fondo, che importa? […] da un pezzo so che cosa faccio e perché lo faccio. Il mio centro artistico è nel mio cervello e non altrove, e io sono grande perché non mi lascio frastornare dagli altri e perché faccio quello che è in me. Beethoven era sordo e cieco, isolato da tutti, e perciò le sue opere rivelano l’artista che vive su un suo pianeta. Guarda che cosa è successo a Pissarro a forza di voler essere sempre all’avanguardia, al corrente di tutto: ha perduto ogni originalità e la sua opera è priva di unità. Segue sempre la corrente, da Courbet a Millet fino a quei giovanottelli chimici che accumulano puntini.

No, io ho un fine e continuo a perseguirlo, accumulando documenti. Ogni anno vi sono trasformazioni, è vero, ma sempre nella medesima direzione. Sono il solo a essere logico e per questo trovo ben poche persone che mi seguano a lungo. Povero Schuffenecker, che mi rimprovera di essere rigido nelle mie determinazioni! Le mie azioni, la mia pittura eccetera, sul momento mi sono sempre contraddette e poi finalmente mi danno ragione. Io devo sempre ricominciare. Sono persuaso di fare il mio dovere e, frte di ciò, non accetto né consigli né rimproveri. Le condizioni in cui lavoro sono sfavorevoli e bisogna essere un colosso per fare quello che faccio in queste condizioni.”

Tratto e adattato (ma ampliato da fonti esterne) dalla monografia “Gauguin” edita da Skira.

Ágota Kristóf, due poesie

5 marzo 2022 ph.AnGre

Àgota Kristóf, due poesie

*

Lentamente imbianca la notte sul suo viso senza sole
incessanti le stelle cadono
in profondi laghi scuri cadono
e in profondi boschi scuri cadono
le stelle

bianche
case ai margini della foresta inceneriscono si tende
il corpo di pietra delle strade dolore insensato
si nasconde nelle vene degli alberi
sempre più forte è il vento
sempre più scura la neve

fratelli
voi non vi ha amato nessuno ma domani
metterete piede sui raggi
della luna
i vostri occhi si abbelliranno laverete via macchie di sangue
dalle vostre mani dalle vostre labbra
attorno a voi cresceranno gli alberi
si placherà anche la notte e il vento porterà
cenere tiepida sulle vostre terre sterili

~

Ti aspettavo in fondo alla strada nella pioggia
andavo a capo chino ti vedevo lo stesso
ma non riuscivo a sfiorarti la mano

Ti aspettavo su una panchina le ombre degli alberi
cadevano sulla ghiaia fresca
come anche la tua ombra mentre ti avvicinavi

Ti aspettavo una volta di notte sul monte
crepitavano i rami quando li hai scostati
dal tuo viso e mi hai detto che non potevi restare

Ti aspettavo a riva con l’orecchio incollato
a terra sentivo il tonfo dei tuoi passi
sulla sabbia morbida poi si fece silenzio

Ti aspettavo quando arrivavano i treni lontani
e le persone tornavano tutte a casa
mi hai fatto un cenno da un finestrino il treno non si è fermato

*

Trad. di Vera Gheno, da Chiodi, Ed. Casagrande, 2018 – ph.AnGre

Due poesie di Giovanni Raboni

carta e penna

Due poesie di Giovanni Raboni

*

Città dall’alto

Queste strade che salgono alle mura
non hanno orizzonte, vedi: urtano un cielo
bianco e netto, senz’alberi, come un fiume che volta.
Dei signori e dei cani.
Da qui alle processioni che recano guinzagli, stendardi
reggendosi la coda
ci saranno novanta passi, cento, non di più: però più giù,
nel fondo della città
divisa in quadrati (puoi contarli) e dolce
come un catino… e poco più avanti
la cattedrale, di cinque ordini sovrapposti: e
proseguendo a destra, in diagonale, per altri
trenta o quaranta passi – una spanna: continua a leggere
come in una mappa – imbocchi in pieno l’asse della piazza
costruita sulle rocciose fondamenta del circo romano
grigia ellisse quieta dove
dormono o si trascinano enormi, obesi, ingrassati
come capponi, rimpinzati a volontà
di carni e borgogna purché non escano dalla piazza! i poveri
della città. A metà tra i due fuochi
lì, tra quattrocento anni
impiantano la ghigliottina.

(da Le case della Vetra)

~

Il rimorso di San Giovanni Battista

Silenzio. Udite. Io annuncio la sua morte
perchè sono di fronte a voi l’autore
della sua venuta e dei suoi giorni
disastrosi. Oh fossi morto prima,
nel deserto, come muoiono i cammelli
che si fidano troppo del proprio gozzo! Io così
della mia memoria, della memoria
che Dio mi concede sulle cose future.
Io non volevo ucciderlo
ma la mia fede si è tramutata in pietra o coltello il …………………………………………..[ [mio battesimo
in violento scorpione. Mi perdoni
se troppo poco ho peccato! Io fiorisco di colpa
come la Vergine è fiorita in lui
nel grembo involontario.

(da Gesta Romanorum)

Sulla poetica di Giovanni Luca Asmundo di Angela Greco AnGre in Italia insulare i poeti, volume sesto (Macabor Editore)

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Italia insulare i poeti, sesto volume (Macabor Editore – QUI)

a cura di Bonifacio Vincenzi e dedicato alla poetessa sarda Marina Minet.

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Il poeta della moltitudine in transito di Angela Greco AnGre

Giovanni Luca Asmundo è poeta della moltitudine in transito; quella che è stata e quella che è, in una attualità che non sfugge al suo sguardo. Una moltitudine che procede, non senza fatica, nella direzione di un futuro che il poeta ammette plurale e – soprattutto – senza più differenze, riconoscendosi umani nella stessa sorte, pur provenendo da storie e luoghi e sofferenze differenti. Una caratteristica, questa, legata alla genetica della città natale di Asmundo, Palermo, e a quella, finanche, della residenza lavorativa, Venezia. Un percorso compreso tra due realtà che hanno insito in sé il viaggio stesso, che tanto offre alla sensibilità di un giovane che guarda con gli occhi della Storia da cui ha avuto origine la civiltà che lega il Mediterraneo al resto del mondo.

il mito sfrangia in leggenda il tessuto / di un’oralità fatta a mano / e la colonna rotta e non finita / è il fuso ingigantito di una vecchia / che sorta all’ombra di un gesto ancestrale / siede filando la notte dei tempi (da “Disattese – coro di donne mediterranee”, 2019). Sintesi perfetta del soggetto, anzi, dei soggetti della poesia di Giovanni Luca Asmundo, in questi versi si ritrovano le radici della civiltà occidentale ed i topoi più significanti dell’opera di questo autore, dalla quale emergono, fino a rimanere impresse in modo incisivo, figure femminili che hanno attraversato il tempo per consegnare ai lettori di oggi la propria voce e le proprie azioni. Perché questa poesia è ricca di gesta e di gesti, verbi che la movimentano, luci che la colorano e Storia passata nelle maglie strette della difficoltà di giungere ai nostri tempi. Attualità, nella quale il poeta è immerso tenendo saldi i capi di una fune che ad un certo punto ha ceduto. Lui stesso diventa, così, il mezzo dell’unione necessaria per costruire un futuro comune. I personalismi sono avulsi a questo poeta gentile, raffinato e coltissimo; le rare esplicitazioni di accadimenti personali sono diluite con maestria nel dire comune che diviene, nella maniera in cui solo la Poesia sa essere, dire di ciascuno.

E finì per assomigliare al mare / perché sempre ne aveva scrutato obliquamente / il senso, oltre il silenzio abbacinato / […] E finì per assomigliare al mare / e al consumo dei giorni, incessante / e cangiante, oltre lo sguardo salato. (da “Stanze d’isola”, 2017)

La Sicilia è il grande palcoscenico sul quale Asmundo fa muovere le sue figure reali e radicate nella classicità, ma che – va sottolineato – estendono le proprie radici fino a quel suolo dove noi oggi ci muoviamo a nostra volta. Non è, però, una poesia che affida alla sicura riuscita dell’uso di canoni e temi classici la propria riuscita; ma è poesia che crede fermamente nei legami con le proprie origini e nella forza, in senso assolutamente positivo, dell’unione tra coloro che guardano lo stesso orizzonte e si impegnano per raggiungere la propria meta.

Sì, perché nonostante l’impianto da teatro greco di tanta parte della scrittura poetica di Asmundo, la sua è una poesia tesa ad uno scopo civile proprio nell’etimologia del termine: è una poesia che riguarda i cittadini e i loro luoghi e che guarda alla civiltà. Poesia che prende le mosse dal perimetro di un’isola e man mano si espande fino a includere un Mediterraneo allargato ben oltre il visibile. Ed ecco che, col procedere delle pubblicazioni e con la maturità della scrittura, affiora il Mare nostrum in tutta la sua splendente drammaticità, culla e bara, generatore di immense civiltà di cui ancora oggi ci sentiamo figli e figlie e luogo di tradimenti dei sogni di tanti, a causa di un dilagare della perdita del senso di umanità: Se solo fosse statua di fulgido bronzo / come quel giovinetto danzante / tutto quello che viene ripescato / in questo tratto di mare accecante. (da “Lacerti di coro”, 2022)

Un linguaggio ricercato accompagnato e sostenuto da suoni di eco di conchiglia caratterizza questa poesia; una scrittura meditata, concisa, precisa e affascinante, tecnicamente ineccepibile anche nei termini derivanti dall’attività di Gianluca (come si fa chiamare) Asmundo, che è architetto nel senso nobile del termine. Da ogni composizione emerge un equilibrio di sillabe e suoni, appunto, che rende la lettura un momento speciale, capace di trasportare il lettore in quell’armonia anelata come rifugio da un quotidiano che stride sempre più forte nelle tempie. Suoli di diversa natura generano suoni differenti al passaggio etereo di figure in massima parte femminili, che sembrano danzare nel loro affermare profonde verità nascoste e più spesso incise nei loro gesti quotidiani. Le donne del poeta Asmundo fanno parte di un vivere concreto, che assicura loro straordinarietà nei piccoli gesti antichi ripetuti per tradizione che diviene storia e cultura. Il mare è luce e specchio ustorio, mentre i prodotti della terra diventano compagni di una narrazione che travalica il tempo. E gelsomini, limoni e fichi sono simboli, ancora in quel plurale che il poeta non lascia mai. Nemmeno nei titoli delle sue pubblicazioni, dove si fa cenno sempre al coro, quello della tragedia classica, voce e insegnamento che proviene dall’esterno in momenti precisi della rappresentazione.

Se apro le orecchie, sento solo / ragli d’uomo / emergono dal buio cavernoso / compreso dal mio petto / otre amaro. // Magari potessi riudire / il canto docile delle cicale. / Con queste mani mi lego / a un tronco d’ulivo. (da “Stanze d’isola”, 2017)

E il suono è un altro grande protagonista di questa poesia che è tela ordita da mani sapienti in sapienti incroci e filo per filo consegnata al lettore, memoria e speranza per il domani. Il suono delle voci dei protagonisti, ma anche e soprattutto dei luoghi; echi di memorie del territorio, un’isola aperta in quel Mare nostrum, spesso dato per scontato, da cui si dipanano vie e il poeta stesso è un navigante di omerica memoria.

Il viaggio è spostamento fisico e dei destini a cui il poeta presta visioni e voce; di attese e di speranza che il futuro possa trovarci consapevoli e capaci di arginare i torti, le disuguaglianze e le ingiustizie che sempre hanno accompagnato la vita umana, ma che negli ultimi tempi paiono dominarla.

Quella di Asmundo è una poesia di pace e di riappacificazione, dove il ritorno è una costante anche per il poeta stesso, intensamente e appassionatamente legato alla sua terra e della quale porta impressa nella scrittura l’appartenenza anche a distanza; una voce che chiama a raccolta, lentamente, figure che sembrano emergere e prendere corpo dalla terra antica, richiamate da un nuovo Orfeo, che non si capacita della perdita del suo affetto più grande e continua a cantare e filare l’armonia spezzata dalla e della realtà. E ogni figura reca in dote il suo corredo di storie, con i suoi propri colori e le sue caratteristiche; mentre il poeta, dal suo punto d’ancoraggio nonostante lo spostamento fisico, assume le connotazioni di un faro che lampeggia il suo personalissimo alfabeto di salvezza.

la voce ancora nell’aria, vibrante / le ultime onde, lente e possenti / giunte da ovunque alla fine del mare / qui dove tutto ha inizio. (da “Lacerti di coro”, 2022)

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Tre poesie estratte dalla produzione del poeta.

L’irriducibilità delle stelle
era pari alle braccia delle madri.
Non più vasi in testa, mutati i fardelli
ma sempre un arcaico sorriso giocondo
e il gomito ad anfora greca.
La cicala iniziava di notte, domandava
alle guance, alle caviglie di ognuna
se fossimo brandelli di uno stesso
corpo, attorno alla cesta di origano.

(da “Trittico di esordio”, Ed.Cofine, 2017, a cura di Anna Maria Curci)

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Forse alla parola
ma credo alla presenza.
Presenza indistruttibile
di certo non si arretrerà di un passo
sui diritti.
Che sia una voce muta o cristallina
si resti a sostenere il fianco caldo
la mano stretta a confortare il braccio
di sorella o fratello, non distinti.
La parità di ognuno sia ben ferma
conquista in discussione in tempi grevi
che occorre rinsaldare in fiume d’oro.
La proprietà di carne è inammissibile
coraggio, nostra voce, nostre fronti
sfavilliamo.

(da “DISATTESE – Coro di donne mediterranee”, Collana di poesia Versante ripido)

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Se candida luce ci lasciasse implumi
degli affanni, delle attese, delle sorti
se ci riducesse a minore, scevri
di rumori di fondo, potremmo
riporre al sicuro ogni ricordo.
Di molti canti e immagini il respiro
rimase evanescenza delle menti.

Ma se torneremo alla prima rada
o alla scoperta dell’ultima rena
ritroveremo finalmente approdo
e riusciremo a tramutare in cosmi
le nostre colonne in rovina.

(da “Lacerti di coro”, Il Convivio Editore)

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Giovanni Luca Asmundo (Palermo, 1987) vive a Venezia, dove ha conseguito un Dottorato presso l’Università IUAV su Danilo Dolci e lavora nel campo dell’architettura, della ricerca e della didattica. Sue sillogi sono pubblicate nel volume Trittico d’esordio, a cura di Anna Maria Curci (Cofine 2017), e nei libri Stanze d’isola (Oèdipus 2017, vincitore del Premio Felix 2016, introduzione di Domenico Notari), Disattese. Coro di donne mediterranee (Versante Ripido 2019, vincitore del Premio omonimo, postfazione di Cinzia Demi) e Lacerti di coro (Il Convivio 2022, tra i vincitori del Premio Pietro Carrera 2022, nota di Giuseppe Manitta). Suoi scritti in poesia, narrativa e prosa lirica appaiono in antologie, riviste e blog letterari. È tra i fondatori del progetto di poesia e fotografia Topografia di uno smarrimento, su una Sicilia in dissolvenza. Promuove progetti di scrittura e intermediali su migrazioni e dialogo, cura dei luoghi, riflessioni sulla città e il paesaggio contemporanei, tra i quali Periplo delle Repubbliche marinare o dei porti aperti, che raccoglie, inoltre, in rubriche sul blog Peripli.

Versi di Tom Pearson

Versi di Tom Pearson

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I. Una calma straniera

i. Frammenti di Icaro

….Fa’ che follia divina e frattura paterna non abbiano
importanza, sciagura è per noi l’esser resi immortali,
costellazioni che altri navigheranno via
……da ciò che va evitato.

….Sentii una gran voce nella testa la mattina
dopo la morte che mi destò dal sonno, mi sussurrò
all’orecchio: alzati e va’ – va’ a scrivere, spingendomi
……alla confessione –

….Per ricordarlo non come un volo fallito,
non per la caduta, per la fine di quella vita,
ma per i teneri anni di dolce gioventù passati con
……te, bestia della mia infanzia –

….Per tesori ricevuti, nascosti nel giardino,
ci scambiavamo storie raccogliendo cera e penne,
dicevamo la storia per poi rinnegarla
……subito dopo averla detta.

….E poi, infine, la nostra prima strofa giovanile,
l’autobiografia di una reclusione,
la metronomica distanza tra l’arrivo
……e la partenza.

….Nell’alba a stecche ho visto, sbirciando,
ombre nel giardino e incrementi di
colore, luce e suono strisciare furtivi in mezzo
……alla mia attenzione.

….In preda a correnti ignote, tenevo le imposte
chiuse di notte e le aprivo al mattino, l’umore
regolato dalla quantità di luce che accoglievo
……nella stanza fredda –

….Disponendo idee là, sui letti gemelli,
spinti insieme di notte e audacemente preparati
per un raccolto, all’interno, di sogni futuri, per
……ciò che sarebbe stato.

….In futuro, mi ricorderò di questo:
la benedizione della flotta, una quiete straniera,
cugini a nostalgia e malinconia,
……le effimere lanterne

….dei pescatori di notte che puntando le pertiche pregavano
per allamare un sogno o fiocinare una luce sotto la
suggestione di stelle, una volta attraversate, riattraversate,
……a ricucire il cielo.

….E in futuro penserò a lui lungo una
cartografia dei luoghi percorsi dalle sue mani,
mappe vergate su seta, nascoste in tasca ai cappotti e
……alla sua quiete furtiva.

….Ho segnato i giorni e un catalogo di minori
innovazioni sulla parete in un tentativo
di registrare le nostre sere senza pensare adesso
……a come considerarle –

….Nel mare, più che davanti a noi, e in quello
sforzo di annotare quel che era accaduto di
notte, più che vicino alle tue promesse, più che
……il sussurro delle onde –

….Più di Helios da ipnotizzare, con ali
o vele, testando, se gli dèi non fossero arrivati, che
gli dèi saremmo stati noi, in volo e in hubris, con
……un’imbracatura per il vento.

….Ma la nostra alchimia ne trasse poco vantaggio,
il nostro moto verso la libertà, s’immerse, ingollato
dai gabbiani o predato dai marlin, angeli che
……nuotano, pesci che volano.

….Lungo il margine dello strato liminale,
l’acqua inseguì il vento, correnti in coppia conflissero
a placare gli appetiti di troppi in
……ogni direzione –

….E l’energia della tua anima, intensamente sfruttata –
come ho pianto nel lasciarti lì, a urlare nel tuo
labirinto, e io a poppa, dietro al vento di coda
……del volo di mio padre!

….Un’opera simile, lasciata come il gioco di un bimbo,
la sua disattenzione, una spada, e in futuro
lo penserò così, a un padre che dorme,
……un mentore obsoleto –

….Un tempo prigioniero, ora ragazzo che annega
nel mare. Era stato scritto di mio pugno
sui rotoli degli abissi, questo stesso amore, questa
……passione per la caduta.

*

da Eppure, il cielo (Interno Poesia Editore, 2023), cura e traduzione di Andrea Sirotti.

Versi di Czesław Miłosz

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Versi di Czesław Miłosz

*

Un incontro

Attraversavamo all’alba campi ghiacciati su un carro.
Un’ala rossa si levò nel buio.

E all’improvviso una lepre corse sulla strada.
Uno di noi la indicò con la mano.

È stato molto tempo fa. Oggi nessuno dei due è vivo,
Né la lepre, né l’uomo che fece quel gesto.

O amore mio, dove sono, dove stanno andando?
Il lampo di una mano, una striscia di movimento, un fruscio di ciottoli.
Lo chiedo non per pena, ma per meraviglia.

di Czeslaw Milosz da Campane d’inverno – Trad. dall’inglese di Andrea Sirotti e Bruce Hunter – condivisa da InternoPoesia che si ringrazia

~

La finestra

Ho guardato dalla finestra e ho visto un giovane melo
diafano nel chiarore.
E quando ho guardato un’altra volta all’alba là c’era
un grande
melo carico di frutti.
Devono quindi essere passati molti anni ma non ricordo
cosa
sia successo nel sonno.
— Berkeley, 1965

~

Prova

E allora hai provato le fiamme dell’inferno.
Potresti perfino dire come sono: vere.
Terminanti con ganci aguzzi per strappare la carne
A pèzzo a pezzo, fino all’osso. E percorrevi la via
E aveva luogo il castigo, l’effusione di sangue, la fustigazione.
Ricordi, quindi non hai dubbi. È davvero l’Inferno.
1975

da “POESIE” di Czeslaw Milosz, a cura di Pietro Marchesani, Adelphi

Rileggiamo i luoghi: Mezzogiorno a Caloveto

Caloveto ph.AnGre 2023 - 1 A

Un mio racconto di viaggio pubblicato un anno fa su Laboratorio Camenzind – Percorsi di antropologia meridiana di Tommaso Greco che ringrazio ancora oggi di cuore. (AnGre)

Clicca Qui per l’articolo completo di foto

– clicca anche per conoscere il Laboratorio e gli ultimi articoli –

“Quando un’amica che si trova in vacanza in Calabria passa “a trovarti” nel tuo paese, sapendo che non ci sei…e riesce persino a trovarti! Cose che riescono soltanto a chi ha dimestichezza con la poesia….come Angela Greco AnGre (preciso: non siamo parenti!), che ringrazio per questo bellissimo omaggio a Caloveto.” (Tommaso Greco)

***

Di ritorno da Le Castella, direzione Taranto, attraversando l’abitato di Mirto ritrovo quel cartello dell’andata, Caloveto, il paese di Tommaso. C’ero passata molte volte lungo quel tratto della SS106 Jonica, ma se non avessi ascoltato la presentazione del suo libro, letto qualcosa su di lui e guardato qualche foto sul suo profilo social, non avrei mai seguito quella strada.
Inizia la salita: l’alveo sconfinato di un fiume un tempo generoso e oggi ridotto a guardiano silenzioso della valle, boschi di eucalipti, fiori selvatici, colline e colline, salite e curve fino al fatidico cartello di benvenuto. Appena oltre la linea spezzata delle montagne, lo Jonio si lasciava ammirare anche con la foschia di quella mattina. Lo avevo visto proprio in una foto scintillare azzurro in lontananza alle spalle della terra ed era stata anche quell’immagine a portarmi a Caloveto, pur non avendo la minima idea di come giungere al punto di quella visione. Né avevo voluto chiedere nulla a Tommaso, che poco credeva al fatto che qualcuno potesse andare a visitare il suo paese senza nemmeno che lui fosse presente.
.
Una strada giunge in piazza. Una fontana zampillante accoglie il visitatore, in una vicinanza di botteghe e luoghi della vita comunale. I forestieri non passano inosservati. Subito saluto un signore sulla soglia di un tabacchino; chiedo se è possibile parcheggiare lì nei pressi e, magari, dove si può mangiare qualcosa. Ed ecco svelarsi lo stupore, quello stesso di Tommaso, che qualcuno avesse raggiunto quel sereno e silenzioso centro di un mondo che sembrava uscito da un romanzo d’inizio Novecento. Qualche indicazione, un saluto sorridente e via, a visitare stradine in pendenza che già mi agitavano pensando alla risalita, ad osservare gli esterni di case colme di tempo trascorso e immutabile attesa, incrociando gatti diffidenti e bimbi simili, che hanno salutato solo in presenza dei genitori. Ero nella parte storica del paese, quella che guarda dritto verso lo Jonio. Le case, una accanto all’altra, serene e mute, sembravano incoraggiarsi a vicenda. E tra quei colori terrosi – così vicini a quelli dello sperone argilloso rosso alla base e cretaceo alla sommità, su cui sorgeva Caloveto e che incuteva rispetto affacciandosi dal dirupo – timide primule gialle a bordo strada svelavano aspetti poco in vista della natura del luogo.
.
Le stradine, che proseguivano dalla chiesa matrice in direzione vallata, terminavano su una strada costeggiata da una balconata; signore di passaggio salutavano per prime, sorridendo a chi stava scattando foto da quello che sembrava essere il belvedere, dove un tetto dagli embrici ormai divelti raccontava più di tante parole. Dopo tantissimi anni tornavo ad ascoltare un orologio che batteva le ore e i quarti – uno, due e tre. Fotografie, tante: ai gatti, alla valle, alle nuvole, alla ringhiera di ferro che curvava simile al letto del fiume verso il mare…Un paio di ore sono giusto il tempo di catturare qualche dettaglio e si spera un’emozione magari da riuscire a trasmettere, poi, ad altri.
.
Man mano che torno a percorrere le viuzze a ritroso per tornare in piazza, mi fermo ad osservare meglio le abitazioni e dietro finestre socchiuse immagino i gesti quotidiani, le voci, i rumori e persino le tendine che abbellivano quei vetri ormai in frantumi. La curiosità mi porta a guardare dietro una porta fatta di assi di legno, attratta da uno spiraglio dal quale si intravedeva un esterno con vegetazione spontanea. Abituati gli occhi alla penombra, una grande mola, con le ruote ancora in situ, mi parla di una realtà ancora vivissima, quella agricola, che avevo constatato nel salire al paese, vedendo le podoliche al pascolo. Mi lascio meravigliare dallo stato di abbandono e immagino qualcuno intento a raccontare ai bambini ancora le storie di quel luogo. Un piccolo frantoio abbandonato, invece, raccontava a me, in silenzio, persino delle divinità greche, che in Calabria abitano ancora.
.
Era ora di tornare.
Nei pressi della chiesa madre, mangio un panino al volo, seduta su una panchina verde dalla quale si vede l’orologio non in perfetto orario e le nuvole che si affacciano sulla vallata in uno strepitio di rondini che volano vicinissime. E rimango a pensare alla signora dell’alimentari che, con il suo bel sorriso, mi aveva chiesto: “Ma avete qualcuno al paese?”, una magnifica perifrasi per domandarmi cosa ci facessi in quel posto tranquillo, che tra metà luglio e metà agosto, però, tornava ad animarsi di persone e situazioni da bella stagione. “Un amico, che è nato qui, ma ora vive e lavora al Nord.” Ho salutato sorridendo, pensando a Tommaso, che se fosse stato lì, non ci avrebbe messo molto a presentarmi tutte le persone che conosceva.
Magari quest’estate ci torno.
Per ora porto con me questa sensazione di tempi perduti per tanto, per tanti, ma non per il cuore.
.
Angela Greco AnGre 

Due poesie di Octavio Paz

Due poesie di Octavio Paz

*

Tra l’andarsene e il restare dubita il giorno,
innamorato della sua trasparenza.

La sera circolare è già baia:
nel suo quieto viavai oscilla il mondo.

Tutto è visibile e tutto è elusivo,
tutto è vicino e tutto è intoccabile.

I fogli, il libro, il bicchiere, la matita
riposano all’ombra dei loro nomi.

Palpitare del tempo che nelle mie tempie ripete
la stessa ostinata sillaba di sangue.

La luce fa del muro indifferente
uno spettrale teatro di riflessi.

Nel centro di un occhio mi scopro;
non mi guarda, mi guardo nel suo sguardo.

Si dissipa l’istante. Senza muovermi,
io resto e me ne vado: sono una pausa.

~

Archi

a Silvina Ocampo

Chi canta sulle sponde del foglio?
Chino, bocconi sul fiume
di immagini, mi vedo, lento e solo,
da me stesso allontanarmi: lettere pure,
costellazioni di segni, cesure
nella carne del tempo, oh scrittura,
rigo nell’acqua!

Vago fra verdi
intrecciati, vago fra trasparenze,
fiume che scivola via e non trascorre;
mi allontano da me stesso, mi trattengo
senza trattenermi a una sponda e discendo,
lungo il fiume, fra archi di intrecciate
immagini, il fiume di pensieri.
Proseguo, là mi attendo, mi vado incontro,
fiume felice che allaccia e scioglie
un istante di sole fra due pioppi,
sulla pietra liscia che si trattiene,
e si distacca da se stesso e discende,
lungo il fiume, all’incontro di se stesso.

*

Il fuoco di ogni giorno (Garzanti, 1992), trad. it. E. Franco

Sibilla Aleramo, tre poesie

Sibilla Aleramo, tre poesie

*

Ironica e pallida
da un cielo bianco d’inverno
la luna mi guarda,
è quasi sera,
io sono tanto stanca
e povera come la più povera…
Mendicare ancora, perchè?
Son sola e senza più giovinezza;
s’irride ai miei canti
e pallida e di pietra,
come da un cielo d’inverno,
la vita mi guarda;
è quasi sera…

~

Una risata.
Forse un giorno
la sentirò prorompermi in gola.
Giorno di gran sole,
risata sopra il mondo,
e poi
due braccia
che mi sollevino ansante
verso la prima stella della sera.

~

Nuda nel sole
per te che dipingi sto immobile,
il seno soltanto ritmando
la vita gagliarda del cuore.
Come un cielo soave d’aurora
è per te questa mia forma lucente,
un prato un’acqua una solitaria fiorita di petali,
tralci di vigna in festività.
E adori, e fervente le dolci dita
su la tela conduci.
Nuda nel sole ed immobile,
frammento di natura,
ti miro orante ed oprante.
Da te invasa da te riassorbita,
sei tu che mi divinizzi
o la mia divinità è che ti crea,
artista, arte, spirito?
Tacitamente il seno respira.

Versi di Jorge Luis Borges

Montagna - dal web

Versi di Jorge Luis Borges

*

Buenos Aires

E adesso la città quasi è una mappa
di tanti fallimenti e umiliazioni;
da questa porta ho ammirato i tramonti,
davanti a questo marmo ho atteso invano.
Qui l’indistinto ieri e l’oggi nitido
mi hanno elargito gli ordinari casi
d’ogni destino; qui i miei passi intessono
il loro labirinto incalcolabile.
Qui l’imbrunire di cenere aspetta
il frutto che gli deve la mattina;
qui l’ombra mia si perderà, leggera,
nella non meno vana ombra finale.
Ci unisce la paura, non l’amore;
sarà per questo che io l’amo così tanto.

~

Notti penose della lunga insonnia
che anelavano all’alba e la temevano,
giorni che vanamente ripetevano
gli ieri, uguali. Oggi li benedico.
Potevo mai presentire in quegli anni
di deserto d’amore che le atroci
favole della febbre e le feroci
aurore fossero solo i gradini
incerti, le vaganti gallerie
per i quali sarei giunto alla pura
vetta azzurra che nell’azzurro dura
della sera d’un giorno, dei miei giorni?
Nella mia è la tua mano, Elsa. Guardiamo
lenta nell’aria la neve e l’amiamo.

~

Sono i fiumi

Siamo il tempo. Siamo la famosa
parabola di Eràclito l’Oscuro.
Siamo l’acqua, non il diamante duro,
che si perde, non quella che riposa.
Siamo il fiume e siamo anche quel greco
che si guarda nel fiume. Il suo riflesso
muta nell’acqua del cangiante specchio,
nel cristallo che muta come il fuoco.
Noi siamo il vano fiume prefissato,
dritto al suo mare. L’ombra l’ha accerchiato.
Tutto ci disse addio, tutto svanisce.
La memoria non conia più monete.
E tuttavia qualcosa c’è che resta
e tuttavia qualcosa c’è che geme.

Sulla poetica di Giuseppe Schembari di Angela Greco AnGre in Italia insulare i poeti, volume sesto (Macabor Editore)

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Italia insulare i poeti, sesto volume (Macabor Editore – QUI)

a cura di Bonifacio Vincenzi e dedicato alla poetessa sarda Marina Minet.

*

Sulla poetica di Giuseppe Schembari di Angela Greco AnGre

Due libri editi in poco meno di quarant’anni (sono del 1987 alcuni testi inseriti nella prima silloge), ma una vita intera affidata alla scrittura; alla poesia, che salva persino da se stessi. Un poeta di fatto, per quella visione nitida del presente e quella sottile capacità profetica, che caratterizza una scrittura essenziale, scabra, mai ingioiellata per vezzo o moda. Anzi, spogliata e nuda per essere assolutamente aderente a quella verità, che è la profonda ricerca di questo autore cresciuto nella realtà più concreta e meno poetica che si possa immaginare.

E qui sta il grande pregio di questa penna oggi decisamente – e ancora – fuori dagli schemi: riuscire a fare poesia, come l’etimo del termine stesso indica, artigianalmente, scrivendo materialmente un verso alla volta per poi comporre, in un altro tempo, quello della rilettura e della rielaborazione. Nuova elaborazione non tanto finalizzata al sempre proficuo labor limae, quanto piuttosto a restituire il legame tra emozione e realtà che ai versi ha portato. Un lavoro lungo, di analisi particolareggiata, che non contempla fretta o ansie da pubblicazione.

Versi votati alla sommossa fisica e ancor più interiore; una alternativa alla stasi dominante, alla quiete da accettazione passiva della realtà imposta dai sistemi alti: una poesia di reazione civile dalla forte connotazione politica, che conduce, anche a fronte di un linguaggio estremamente diretto, a prendere in seria considerazione gli argomenti di cui il poeta si fa portavoce. Ed ecco, allora, che incontriamo la contestata presenza americana nei territori della Sicilia orientale, la condizione dei detenuti, i margini della società per bene, la Chiesa, lo Stato e le forze dell’ordine visti con gli occhi di chi non condivide gli stessi ideali. Ma su tutto emerge la ricerca della verità, intesa come fame di autenticità.

Giuseppe Schembari, nelle peregrinazioni della sua esistenza non si è mai stancato di indagare oltre il visibile per tentare di trovare una risposta a quello che si vede in superficie e che affonda le proprie radici nelle scelte e nelle decisioni sociali di cui il poeta si sente, fondamentalmente, vittima e ostaggio e alle quali è d’obbligo reagire. Ma vittima del sistema è anche la stessa società, per conformismo, per adeguamento ad un quieto vivere che uniforma, appiattisce e, soprattutto, appanna grandemente la visione dell’ingiustizia perpetrata ai danni dei più deboli, di coloro di cui il sistema societario non si preoccupa e dei quali ha addirittura cattiva opinione, perché hanno un conto in sospeso con il perbenismo se non addirittura con la legge, che regola ogni rapporto tra le parti.

Due testi editi, Al di sotto dello zero e Naufragi (Sicilia Punto L Edizioni, 1989 e 2015) per un totale di quaranta poesie, il lascito – per ora – consegnato ai lettori di tre decenni, fanno di questo autore un concreto poeta del dissenso – come spesso è stato definito – anche nella scelta di non essere una presenza nel bel mondo delle pubblicazioni poetiche italiane. Anzi, il suo sguardo attento individua subito le realtà che si trincerano dietro apparenze benevole, salvo poi artigliare e rivelarsi nell’intimo come negative, coerentemente con il poeta che non tollera i soprusi, i favoritismi e l’inestirpabile ingiustizia sociale.

E l’attenzione ai temi della società e alla condizione del disagio è il trait d’union tra la produzione giovanile e quella ultima, che beneficia, però, anche di un più lucido sguardo al percorso di vita personale. Il tono si fa meno tagliente, nel secondo libro pubblicato a distanza di un quarto di secolo, ma non meno incisivo, indulgendo anche in una certa ricerca linguistica e formale, consapevole del fatto estetico più che altro, sfiorando un lirismo maggiormente confacente all’età, che porta ad ammorbidire – ma solo nell’espressività – il dire, che tuttavia resta volutamente pungente, diretto, ancora capace di scuotere persino i lettori di oggi, che sembrano ormai assuefatti a tutto.

Schembari, tra gli ultimi esponenti dell’Antigruppo siciliano (movimento letterario, artistico e culturale di contestazione nato in Sicilia nel 1966) resta fedele nel tempo alle caratteristiche di quest’ultimo, alla «natura anomala e conflittuale dello stesso consorzio letterario» che poggerebbe «sull’idea di dissidenza, di contrasto: non era necessario che un poeta Antigruppo fosse d’accordo con i principi di un altro, bastava che fosse contro i potenti, contro lo status quo. Era l’atteggiamento di critica che contava». A tale riguardo è utile riportare, traendolo dalla voce omonima presente on-line, anche un’altra breve specifica ancora oggi ben aderente alla poetica di questo autore: «La polemica antigruppo sembra(va) contemplare il categorico rifiuto di ogni possibile forma di dominio culturale e politico. […] essere “antigruppo” non vuol (voleva) dire, dunque, far parte di un movimento strutturato, ma piuttosto assumere un modus operandi di permanente contestazione anti-autoritaria».

Dissenso, rifiuto del potere, messa al bando del capitalismo, critica verso gli stereotipi della società dabbene, ma anche sguardo verso gli emarginati vittime del sistema, includendo non senza dolore un’analisi impietosa della propria esistenza, sono ancora le caratteristiche di questo poeta che continua a percorrere una strada alla ricerca di un presente differente, non regolato dalle logiche utilitaristiche dei dominatori a scapito dei dominati, dei forti sui deboli, tanto da farne una questione tutta politica e sociale, come ormai la poesia contemporanea ci sta disabituando.

*

Tre poesie estratte dalla produzione del poeta.

Luna proletaria (da Al di sotto dello zero)

La notte sussurra
arcane armonie
di nenie dolcissime
mentre la luna
è un’immensa amaca
che culla con fare materno
il sonno sereno
dello stanco operaio
La notte è lacerata
da urla strazianti
di uomini morti
in fabbriche lager
mentre la luna
è un occhio severo
un’eterna minaccia
un perfetto alternarsi
di terribili incubi
e spasmi cardiaci
che tormentano il sonno
dello sporco padrone

3 settembre 1988

*
Orfani (da Naufragi)

Cammino e raschio ruggine dal petto,
niente può scalfire quest’afa greve,
i calci restano lì dove li abbiamo presi
nella costanza di un presente inamovibile.

Per sempre orfani, senza più attese
un dimenarsi assurdo nella frenesia,
la timida avvisaglia in un capogiro
noi che attraverso il silenzio ci parliamo.

Si gioca sui timbri lessicali di un copione,
la didascalia indecifrabile delle parole
che scorre dentro la bocca come una preghiera.

S’è complici e mandanti di feroci rappresaglie,
stanare dalle viscere lo sdegno trasversale
nel fuoco senza attrito di un cuore depredato;
le verità nascoste di tutte le mancanze.

*

Cos’è rimasto (da Naufragi)

Cos’è rimasto

un sorriso lacero
la memoria prosciugata

scomposte geometrie
fratture inevitabili

l’ira dei pupi
e quella dei pupari

E’ rimasto
un vagito
a ricordare la vita

e il fruscio della seta
che increspa
il silenzio della parola

per farsi poesia

.

Giuseppe Schembari (Ragusa, 1963), ha pubblicato due volumi in versi: nel 1989, Al di sotto dello zero, con prefazione di Emanuele Schembari, e nel 2015, Naufragi, con prefazione di Pino Bertelli, entrambi editi da Sicilia punto L. Diverse volte vincitore del Concorso di Poesia “Mario Gori”, del Concorso nazionale di poesia civile “B. Brècht” città di Comiso, del Premio Nazionale di Poesia “Ignazio Russo” città di Sciacca; nel 2017/18 riceve Menzione d’onore al “Premio Lorenzo Montano”; è 3° classificato al Premio Il Convivio, Premio Speciale per l’originalità compositiva, e al Premio “Ugo Carreca” 2018; Premio Speciale “Il Sublime” 2018; Menzione d’onore al Premio Internazionale “Seneca” 2019; 3° Classificato al Concorso Nazionale “Luigi Balzano Conti” 2019 e al Premio Letterario “Città di San Giuliano 2020”; 3° e 5° classificato al Premio Letterario Etna Book, “Cultura sotto il vulcano 2020”. Sue poesie sono inserite in varie Antologie, una tra tutte “Bisogna armare d’acciaio i canti del nostro tempo, Antologia di poeti rivoluzionari”, a cura di Gian Luigi Nespoli e Pino Angione. E’ stato uno degli ultimi esponenti dell’Antigruppo Siciliciano.

Rocco Scotellaro, brevissima antologia

Rocco Scotellaro, brevissima antologia

*

Fra me e te

Fra me e te
voglio piantare un frutteto.
Con le tue braccia intreccerò una vite
e quando la pioggia verrà
non ti lascerò sola.
Appena il sole sarà alto
ti canterò nelle vene.
Ogni sera verrò a bere
ai tuoi grappoli,
poi l’ alba verrà.

~

È calda così la malva

È rimasto l’odore
della tua carne nel mio letto.
È calda così la malva
che ci teniamo ad essiccare
per i dolori dell’inverno.

~

Improvvisa la sera

Improvvisa la sera ci ha toccati
me, le mie carte, la pezza di luce
sui mattoni della stanza.

È tanto imbrunito
che mi sento addosso paura.
Ha ripreso la vita
dei piccoli rumori.
Sono sui tetti le anime
dei morti del vicinato,
camminano sulle zampe dei gatti.

~

La luna piena

La luna piena riempie i nostri letti,
camminano i muli a dolci ferri
e i cani rosicchiano gli ossi.
Si sente l’asina nel sottoscala,
i suoi brividi, il suo raschiare.
In un altro sottoscala
dorme mia madre da sessant’anni.

~

Ho capito fin troppo

Ho capito fin troppo gli anni e i giorni e le ore
gl’intrecci degli uomini, chi ride e chi urla
giura che Cristo poteva morire a vent’anni
le gru sono passate, le rondini ritorneranno.
Sole d’oro, luna piena, le nevi dell’inverno
le mattine degli uccelli a primavera
le maledizioni e le preghiere.

~

Nel trigesimo di mio padre

In quei viottoli neri
una serata di queste,
sedevano le famiglie dopo cena
ai gradini delle porte,
contavano i defunti e i nati
dell’estate che correva.
E il contadino tardo che trascorse
per i monti sul mulo
con l’ultimo raccolto
passava salutando i suoi compari.
Una porta era deserta
del compare scomparso un mese fa.

Sergej Esenin, due poesie

autunno nel bosco - ytresu

Sergej Esenin, due poesie

*

Non invano hanno soffiato i venti,
non invano c’è stata la tempesta.
Un misterioso qualcuno ha colmato
i miei occhi di placida luce.

Qualcuno con primaverile dolcezza
ha placato nella nebbia azzurrina
la mia nostalgia per una bellissima,
ma straniera, arcana terra.

Non mi opprime il latteo silenzio,
non mi angoscia la paura delle stelle.
Mi sono affezionato al mondo e all’eterno
come al focolare natio.

Tutto in esso è buono e santo,
e ciò che turba è luminoso.
Schiocca sul vetro del lago
il papavero rosso del tramonto.

E senza volerlo nel mare di grano
un’immagine si strappa dalla lingua:
il cielo che ha figliato
lecca il suo rosso vitello.

~

Noi adesso ce ne andiamo a poco a poco
verso il paese dov’è gioia e quiete.
Forse, ben presto anch’io dovrò raccogliere
le mie spoglie mortali per il viaggio.

Care foreste di betulle!
Tu, terra! E voi, sabbie delle pianure!
Dinanzi a questa folla di partenti
non ho forza di nascondere la mia malinconia.

Ho amato troppo in questo mondo
tutto ciò che veste l’anima di carne.
Pace alle betulle che, allargando i rami,
si sono specchiate nell’acqua rosea.

Molti pensieri in silenzio ho meditato,
molte canzoni entro di me ho composto.
Felice io sono sulla cupa terra
di ciò che ho respirato e che ho vissuto.

Felice di aver baciato le donne,
pestato i fiori, ruzzolato nell’erba,
di non aver mai battuto sul capo
gli animali, nostri fratelli minori.

So che là non fioriscono boscaglie,
non stormisce la segala dal collo di cigno.
Perciò dinanzi a una folla di partenti
provo sempre un brivido.

So che in quel paese non saranno
queste campagne biondeggianti nella nebbia.
Anche perciò mi sono cari gli uomini
che vivono con me su questa terra.

Paul Éluard, tre poesie

Paul Éluard, tre poesie

*

Io te l’ho detto per le nuvole
te l’ho detto per l’albero del mare
per ogni onda gli uccelli tra le fronde
per l’acciottolato del rumore
per le mani familiari
per l’occhio che si fa paesaggio o viso
e il sonno che gli rende
cieli del suo colore
per la notte bevuta interamente
per il tombino nelle strade
per la finestra aperta la fronte scoperta
io te l’ho detto per i tuoi pensieri le tue parole
ogni carezza ogni confidenza resta

~

Si chiude

Non abbiamo imparato nulla
Dalle lezioni dell’abitudine e dai compiti
Del ritmo e del calcolo
Il cuscino delle somiglianze
Ha un bel lambiccarsi sotto le nostre teste

Non abbiamo perso nulla
Nessun motivo per stare in disparte
È per questo che teniamo i capelli sulla fronte

Non siamo stati nulla
Portiamo i sacchi di carbone della sventura
Al cospetto della lanterna magica

Non siamo mai stati svegli

~

Nessuno mi può conoscere
Come tu mi conosci
I tuoi occhi dove dormiamo
Tutti e due
Hanno dato ai miei fanali umani
Una sorte migliore che alle notti del mondo
I tuoi occhi dove viaggio
Hanno offerto ai gesti delle strade
Un senso tolto alla terra
Nei tuoi occhi che ci svelano
La nostra infinita solitudine
Niente è più ciò che credevamo
Chi ti può conoscere
Meglio di me.

Rileggiamo l’opera: Il ponte di Maincy

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Paul Cézanne (1839 – 1906), Il ponte di Maincy (1879 circa)

olio su tela, cm 58,5 x 72,5 – Parigi, Musée d’Orsay

*

Questo dipinto, apparentemente, non sembra un’opera maggiore del grande pittore francese. Ma solo apparentemente: questo piccolo dipinto contiene già tutti i germi di ciò che un quarto di secolo dopo verrà chiamato cubismo. Se si guarda con attenzione (nell’immagine sottostante, le tre opere riportate nell’ordine) il dipinto domestico Il buffet, del 1873, tutta la pittura successiva di Cézanne vi è già dichiarata: il tratto delle pennellate forti posate in parallelo l’una all’altra, i fondi drammatici, il senso della realtà, al contempo percepita e trasfigurata con cinque frutti posati su una tovaglia che sembra già la montagna di Sainte-Victoire, quella che dipingerà in modo ossessivo, quando tornerà nel suo meridione. E il tutto che si staglia su uno sfondo che sembra il mondo boschivo dei suoi bagnanti. E pure già questo sfondo, che si fa intuitivo del cubismo, torna poco dopo nella stesura del paesaggio del Ponte di Maincy.

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Sarebbe del tutto errato confondere Cézanne con gli impressionisti, quelli che tali vengono definiti nella mostra del 1874 e con i quali effettivamente esporrà con totale insuccesso nella mostra successiva. Egli è autonomo sin dall’inizio del suo percorso, e lo è per un motivo quasi ideologico che lo lega ad Émile Zola, suo compagno di liceo ad Aix-en-Provence, provinciale quasi per definizione e del sud come lui. A Zola deve una fede, anch’essa quasi ideologica, nel verismo, quello di una generazione giovane che trova in Victor Hugo lo scrittore vate della realtà. Cézanne, come Zola, appartiene ad una generazione di ragazzi di provincia che a Parigi si fanno protagonisti dell’alternativa esistenziale prima ancora che  di quella artistica.

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Il tema del dipinto, Il ponte di Maincy, noto anche come Il ponticello, è strettamente legato al gusto dei pittori impressionisti nella scelta del soggetto: uno scorcio di paesaggio dipinto all’aria aperta. L’opera deve il suo titolo al ponticello raffigurato in secondo piano, costituito da una passerella di legno sorretta da arcate in pietra. Le acque del torrente che lambiscono il ponte riflettono la sua immagine. La tela è dominata dalle tonalità del verde; alberi esili si slanciano verso il cielo, lasciando filtrare una luce dorata. Il punto di osservazione adottato da Cézanne è posto sulla riva del torrente, come si intuisce dalla raffigurazione del ponte, inquadrato leggermente dal basso; il ponte è rappresentato di scorcio mediante una linea obliqua che attraversa la tela e questa prospettiva, evidenziata dalla differente profilatura delle arcate portanti, conferisce profondità al quadro.

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Sullo sfondo la verticalità degli alberi si contrappone all’andamento orizzontale del ponte; in primo piano si ergono due tronchi che attirano l’occhio dell’osservatore e lo invitano ad esplorare il dipinto nella successione dei suoi piani alti. Il pittore stende il colore attraverso pennellate dense e compatte che danno vita alle forme, offrendo in tal modo un nuovo approccio alla rappresentazione della natura e per suggerire il senso di movimento, egli cambia la direzione delle pennellate a seconda della forma dell’oggetto rappresentato.

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Ultimo e più importante precursore delle avanguardie artistiche del Novecento, Pul Cézanne cominciò la sua esperienza nel solco dell’esperienza impressionista. Tra i pittori del gruppo si avvicinò a Pissarro, che frequentò assiduamente tra il 1872 e il 1873 e del quale condivise subito la pittura più solida e strutturata. Grazie all’interessamento di Pissarro, che vinse la riluttanza di Degas e degli altri che ritenevano le sue opere troppo scandalose, Cézanne partecipò alla prima mostra degli impressionisti, organizzata nel 1874 presso lo studio del fotografo Nadar, e frequentò gli studi degli artisti pur prendendo subito le distanze da loro.

Rifiutò infatti il loro concetto di visione, incentrato sulla percezione e la fluttuazione della luce, e si concentrò invece su quello che chiamava “la forma meditata”, cioè l’organizzazione mentale e la conseguente elaborazione, da parte dell’artista, del soggetto tradotto nella percezione personale, che approfondisce l’essenza di ciò che ha visto. Da questo punto di vista, l’opera di Cézanne ebbe grande importanza per i successivi sviluppi della pittura moderna. I cubisti lo considerano un precursore del loro movimento, ma la sua influenza andò ben oltre il cubismo. Cézanne è stato infatti il primo ad assegnare una nuova funzione alla pittura: quella di costruire una realtà propria, retta da leggi indipendenti dal dato naturale o emotivo, principio che è alla base di tutti gli sviluppi dell’arte a noi contemporanea. (Tratto da Cèzanne, Il ponte di Maincy, con introduzione di Philippe Daverio, serie I Capolavori dell’arte, Corriere della Sera)

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