Iosif Brodskij, due poesie ed un approfondimento

“In America, sul comodino degli alberghi, si trova una copia della Bibbia. Da qualche anno, in quelli più importanti, anche un libro di Josif Brodskji, un uomo convinto che la poesia come le automobili, può portare lontano, perché è uno straordinario acceleratore mentale, e il poeta è l’animale più sano, l’unico che riesca a fondere il mondo razionale con il mondo intuitivo.”

In Italia

a Roberto e Fleur Calasso

Vivevo anch’io in una città dove spuntano statue
sopra le case e al grido: “Corrompere! corrompere!”, per le strade
correva il filosofo locale, scuotendo la barbetta,
e il lungofiume infinito faceva breve la vita.

Ora, accecando cariatidi, declina il sole laggiù.
Ma coloro che mi hanno amato più
di se stessi non sono ormai tra i vivi. I cani, perduto
il contatto con l’oggetto della caccia, fiutano avanzi,

in questo simili alla memoria, alla vita delle cose. Tramonto,
in lontananza voci, grida tipo: “Vattene, mostro!”
in un’altra parlata. Ma non c’è nulla di più comprensibile.
Con la sua colombaia d’oro la laguna più bella

manda bagliori, velando la pupilla. Quando arriva
al punto in cui non lo si può più amare, l’uomo,
disdegnando di risalire a nuoto
la corrente indemoniata, si nasconde nella prospettiva.

da Poesie italiane (Adelphi, 1996), trad. di Giovanni Buttafava, Serena Vitale

*

A Urania

a I.K.

Tutto ha un limite, compresa la tristezza.
S’impiglia lo sguardo alla finestra, come alla palizzata
la foglia. Puoi versare acqua, scuotere chiavi.
Solitudine è l’uomo al quadrato. Il dromedario
così fiuta, ingobbendosi, il binario.
Si scosta il vuoto, come una portiera.
E cos’è poi lo spazio, in generale, io
dico? Assenza di corpo in ogni punto.
Per questo Urania è più vecchia di Clio.
Di giorno, e al lume di lumini ciechi,
vedi che non nasconde nulla: cerchi
di guardare il globo, e guardi una nuca.
Eccoli, i boschi pieni di mirtillo,
fiumi dove si pesca a mano lo storione,
una città che non ti annovera più
nell’elenco del telefono. E a sud
anzi a sud-ovest, ecco montagne brune,
e vagano nel càrice cavalli prževali,
si fanno gialli i visi. Poi, più in là, corvette
navigano e si fa azzurro lo spazio,
come una biancheria con i merletti.

da Poesie, (Adelphi, 2012), trad. di Giovanni Buttafava.

*

“Josif Brodskji nasce a S. Pietroburgo il 24 maggio del 1940. Il padre Alexandr era ufficiale della Marina sovietica con la passione per la fotografia. Una passione che diventò un mestiere-ripiego, quando, a causa dell’origine ebraica, sopraggiunse il prepensionamento, perché l’antisemitismo stava diventando dottrina di stato. La madre Maria Volpert, durante la guerra lavorò come traduttrice nei campi di lavoro per prigionieri tedeschi, e finì per fare la contabile.

S. Pietroburgo e quel quotidiano fatto di diversità consapevole, coltivata dalla sua famiglia, in un Paese in cui la regola era essere uguali, daranno il ritmo al suo destino. Una città sospesa, lontana, affollata d’odori, ricordi, densa di personaggi letterari, e mai dimenticata, ritrovata in Venezia, in una sorta di trasposizione fisica e letteraria, di cui ci lascerà la descrizione in Fondamenta degli incurabili, attraverso un inimitabile gioco di specchi. È quella città, insieme con una capacità di raccogliere tutto quello che si sospendeva sulla retina, ad averlo reso grande. Sia la fotografia sia la poesia colgono frammenti di vissuto, ma se la prima coglie l’attimo, la superficie, la seconda guarda all’eterno. Incoraggiato dalla madre, aveva abbandonato la scuola a quindici anni, incominciò a studiare da autodidatta e a comporre le prime poesie.

L’apprezzamento dell’Achmatova e l’eco delle sue letture — in molti accorrevano per ascoltare la sua indimenticabile voce nasale, capace di sollevare le parole e farle danzare — lo rendono inviso al Potere Sovietico. Accusato di fannullaggine sociale, processato, nel 1972 fu costretto a emigrare negli Stati Uniti, dove diventò cittadino americano nel 1977. Lì insegnò in diverse università, svolgendo contemporaneamente una vasta attività di pubblicista e poeta. Nel 1991-1992 fu nominato Poet Laureate degli Stati Uniti. La prima persona che volle incontrare, una volta arrivato in Occidente, fu Auden, l’unico che a suo parere, potesse sedersi sull’Enciclopedia Britannica. Della sua condizione d’esule moderno, sospeso nel tempo, nello spazio, ci resta il discorso d’accettazione al premio Nobel per la Letteratura, ricevuto nel 1987, pubblicato in Dall’esilio.

Il problema su cui ruota l’impianto della sua vasta e coerente opera è riuscire a far accettare, non solo percepire, la cultura, e nello specifico la poesia come vettore per la comprensione della realtà. Ma soprattutto chiarire, in modo definitivo, che l’estetica è la madre dell’etica. Che uno sguardo incapace di riconoscere la simmetria delle cose è anche incapace di essere giusto. L’amore per Austen, Frost, Achmatova, Cvetaeva (l’unica con cui avesse deciso di non competere per il suo tono tragico inarrivabile), la capacità di rimettersi in discussione attraverso le parole e la loro plasticità rendono la sua attività un’opera d’arte pienamente compiuta. La possibilità di scrivere in russo, poesie, e in inglese, saggi, anche se scrisse in inglese un’elegia dal titolo Lowell per rendere omaggio alla memoria del poeta, e di mantenere intatta anche nella traduzione italiana il sottile estetismo della sua mente, lo rendono ineguagliabile. Una parola modulare la sua, come se le due lingue che usava non facessero altro che intersecarsi e comprendersi, quasi a lenire quella lontananza che l’esilio aveva tracciato in maniera definitiva.

Un uomo che riconosceva come unica divinità la lingua. Tutto il resto, corpo compreso, una trappola, capace di una fissità innaturale, una corazza per la parola, parola che in lui risuonava come un’onda. Morto il 28 gennaio del 1996 a Brooklyn, ha trovato finalmente riposo a Venezia.” (notizie, in apertura ed in chiusura, dal sito italialibri.net che si ringrazia)

immagine d’apertura: Claude Monet, Tramonto a Venezia