Il cerchio imperfetto di Bonifacio Vincenzi inaugura Terre Inquiete, la nuova collana di poesia Macabor Editore diretta da Angela Greco AnGre.

Terre Inquiete collana di AnGre per Macabor

Terre Inquiete è la nuova collana di Poesia diretta da me per la cosentina Macabor Editore che ringrazio per la fiducia. Il nome, nel plurale e nella pluralità, unisce quella che ormai reputo la mia “patria poetica”, la Calabria, terra di affetti preziosi, alla mia terra delle radici, la Puglia, in un unico battito-respiro che è la Poesia, progetto e visione di un domani sempre più a misura d’essere umano. (AnGre, 27 aprile 2024)

Con affetto presento ai miei Amici e Lettori del Sasso il primo volume, rinnovando il ringraziamento all’autore e all’editore!!

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Ilcerchio imperfetto di Bonifacio Vincenzi inaugura Terre Inquiete collana diretta da AnGrela Greco AnGre per Macabor

Bonifacio Vincenzi, Il cerchio imperfetto

(Macabor Editore, maggio 2024 – Qui)

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Prefazione di Angela Greco AnGre

La rappresentazione di un mondo inquieto e animato in ogni momento, in ogni dettaglio, in ogni sfumatura; anche quando sembra che ci si possa fermare, fosse solo per respirare, Bonifacio Vincenzi non concede mai tregua, né si può sperare in una staticità che rinfranchi. In questi versi ci si ritrova ad essere in un movimento continuo generatore di energie e generativo di nuove genesi di senso e significati. Laddove si possa credere finalmente di aver raggiunto la quiete, ecco che allora prendono a muoversi le astrazioni, le visioni incorporee, i pensieri, alimentando il flusso di un divenire che non comprende soltanto il presente o quanto illusoriamente crediamo di vivere, possedere o abitare. Che siano case o corpi, non muta la sorte.

I componimenti raccolti in questa silloge sono stargate da varcare in successione, affidandosi non già alla razionalità o alla conoscenza, quanto piuttosto a un sentire altro che afferra dal profondo. Ogni testo dà accesso a un meandro non in luce, ma non in senso negativo, quanto piuttosto nel senso di non svelamento, anche laddove risulti il pieno giorno. Comprensibile nel significato meno complesso, ogni verso invita alla riflessione profonda subito, senza sconti, captando la volontà del lettore con fascino e gentilezza. Persino se si parla di conflitti cruciali con quel se stesso che costantemente ci abita da estraneo e di cui, però, l’autore ha splendida consapevolezza e conoscenza.

Questa scrittura di Bonifacio Vincenzi coglie di sorpresa chi fosse avvezzo alla sua produzione realizzata fin qui, rivelando una poliedricità che non è nuova nell’autore e che diventa un pregio non da poco, se messa in relazione con un presente dal dilagante appiattimento anche artistico. Desta, nel senso proprio del termine, da un torpore che pervade oppiaceo i giorni che si susseguono senza nemmeno più la speranza, se non un progetto, che veda impegnato un essere umano alle prese con la fase discendete della sua parabola. Vincenzi, invece, un progetto ce l’ha e si configura in un ritorno allo stato primordiale passando attraverso quello che questa esistenza offre. O toglie. Perché vi è consapevolezza della dicotomia esistenziale contesa tra bene e male, con netta propensione per quest’ultimo, inteso come realtà nascosta, natura effettiva si potrebbe dire, mascherata da tutto quello che mira a non consentirne più il riconoscimento.

Questa poesia, partendo da punto preciso, giunge man mano ad una desiderata e ricercata evanescenza, nell’allargarsi di un cerchio che nell’espansione ingloba esperienze, accadimenti, azioni e ricordi e con essi man mano i protagonisti che sono rimasti nella sfera selettiva ed emotiva del poeta. Il tono narrativo, nel senso di andamento per parti successive, secondo un tracciato che in poesia resta lontanissimo dalla temporalità e dalla logica sequenziale, rende questa scrittura difficile da categorizzare, com’è proprio della produzione meno legata alla meglio conosciuta e praticata tradizione italiana. Si è senza dubbi nel tempo contemporaneo per metrica e frammentazione del verso, ma all’attenzione profonda di chi vuole partecipare di questa poesia, non si può mancare di percepire il lirismo del sentire meno evidente. Perché tutta la Poesia, quando è tale, passa dal cuore. Ed ecco allora che un ricordo fa da substrato fertile per la riflessione profonda, senza restare sterile orpello estetico e non realista.

Bonifacio Vincenzi sa bene che il mondo non è un giocattolo per passare il miglior tempo a propria disposizione. Ha vissuto e ha ancora occhi per vedere la meta finale, la finitudine che designa l’umano. In vista del limite estremo di ogni essere vivente, il tempo diventa entità relativa, perdendo potenza al cospetto di interrogativi e dubbi dalla forte connotazione filosofico-metafisica. Si riscontra una spiritualità primordiale, come presentimento di impossibilità che tutto possa essere soltanto quello che si è capaci di comprendere. La Poesia diventa un mezzo per tentare una comprensione che mai si porterà a termine, decretando, in tal modo, la necessità che essa continui un discorso iniziato in una notte dei tempi che ancora non ha abbandonato il presente.

È anche una poesia di ricerca non scevra dalle difficoltà che tanto comporta, questa, nella quale tutto scorre fornendo la dimensione e la soluzione per meglio vivere il poco o il tanto, non ha importanza, che è capitato a ciascuno per differente sorte. In tutto questo, non manca Dio, inteso come parte spirituale senza dubbi presente, anche quando non si appartiene ad una religione specifica, il quale diventa un convivente con cui confrontarsi nel costante equilibrio tra due metà di cui si è vittima e carnefice momento per momento.

Una caratteristica, che diventa anche simbolica, è l’uso del tempo Imperfetto che assume una valenza di onesta e concreta conoscenza della materia – soprattutto umana – imperfetta per antonomasia. Mancata perfezione messa a cardine di questa scrittura fluviale ed eruttiva, in un accostamento che non paia azzardato nella sua antitesi. Il poeta non ha risposte o coordinate precise del dove si ritroverà a realizzarsi nella sua natura e nei suoi progetti, ma ha certezza che questo luogo-non luogo esiste ed è meta e punto di partenza all’unisono. È utopia che salva nella sua accezione migliore di “ancora da realizzare”, questa poesia profondamente sincera tanto da incutere un timore simile a quello di vivere.

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Due poesie tratte da Il cerchio imperfetto di Bonifacio Vincenzi

(Qui la scheda sull’autore)

Vibra costante l’eterno ritorno
a tutto ciò che è stato. Riavvolgere il nastro,
ricominciare da capo, ogni volta, chiedendo
all’istante di non lasciare cadere il passato,
portando in dote l’intera meraviglia del viaggio.

Tutto a ripetersi per mai partecipare alla perdita.
La replica non corruttibile ricomincia quando
la realtà si dilata, spettacolo parallelo alla morte,
in una danza senza tempo che non conosce la sorte.

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Occhi dappertutto.
Occhi che non guardavano più.
Atmosfera inquietante.
Uomini, donne, bambini che correvano.
Si sarebbe potuti essere contenti, volendo.
Può essere una consolazione scoprire di esistere;
essere certi che si è comunque vivi.

Ma in quella corsa qualcosa era sbagliato.
Sembrava che ognuno vivesse ogni giorno
senza accorgersene.

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terre24@libero.it 
Per chi fosse interessato a inviare una silloge (non meno di 40-50 testi) in valutazione per una eventuale pubblicazione con Macabor Editore, nella collana Terre Inquiete, questo è l’indirizzo e-mail da utilizzare. Grazie a tutti per l’attenzione e la stima che sempre avverto nei miei confronti. Vi voglio bene, Angela.
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La geometria dei pensieri di Agostina Spagnuolo, prefazione di Angela Greco AnGre (Macabor Editore)

Angela Greco AnGre per Agostina Spagnuolo Macabor

Agostina Spagnuolo, La geometria dei pensieri (Macabor Editore, 2024 – qui il libro)

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Prefazione di Angela Greco AnGre

Il mondo chiama con i suoi drammi – scrive Agostina Spagnuolo – e la Poesia risponde, giunge in soccorso, tende la mano, tenta di riconfigurare un presente, effetto di un vissuto che ciascuno porta con sé, difficile, per le forze del singolo, da accettare quand’anche fosse il proprio ed inevitabile. La Poesia porge un motivo a cui fare riferimento, a cui aggrapparsi nel declino; diventa contatto e concretezza con quella parte che, separata dagli eccessi della contingenza, ristabilisce equilibrio con il mondo primordiale dal quale, per forza di cose, ci si è dovuti allontanare, separare, strappare. E tutta la vita del poeta scorre in questo senso: nel tentativo – riuscito solo nella scrittura più alta – di ricomporre una unità perduta; nella ricerca di un Eden precedente all’offerta del frutto, nel riconoscere quel qualcosa dal quale si deriva e al quale si anela tornare.

La poesia di Agostina Spagnuolo è un percorso nel vivere quotidiano, tra gli ostacoli che insegnano a trovare la soluzione e fanno, poi, crescere, tra le inconciliabili assenze con un vivere che procede nonostante tutto; una poesia dell’accadimento. Una poesia che guarda e che ha attenzione verso l’altro, gli altri. E se l’attenzione è la prima forma d’amore, come ebbe a dire Simone Weil, allora questa è una poesia d’amore. La poetessa posa lo sguardo su quanto vive e su quanto la circonda e a ciò dedica il suo fiato, la sua scrittura. Scrittura filtrata dal ricordo, sedimentata sul fondo del quotidiano e che si arricchisce, quindi, di quella pacatezza di chi ha consapevolezza che se è vero che indietro non si può tornare, si può almeno consegnare al domani un tentativo di reazione. Per non soccombere.

La donna, il padre, la terra, gli affetti più cari e vicini sono gli elementi di una via che si tratteggia nel corso delle pagine e dei versi; una strada con punti fermi non slegati, ma uniti nella costruzione di quello che è il mondo non solo della Spagnuolo, dove non è difficile incontrare almeno un frammento che appartiene a ciascun lettore. E qui sta la Poesia. Il vecchio muore e lascia tempo al nuovo – ancora un verso – è coscienza e invito al futuro, nella persistenza della memoria e della storia personale. S’aggira tra le pagine con tono dismesso, di fatto, questa poesia, guardando anche alla reazione umana, partendo da quella di chi la sta scrivendo e, interrogandosi, analizza e riflette, affidando al lettore ancora qualcosa che possa non lasciarlo così come è stato trovato. Perché la poesia deve fare esattamente questo: non consentire a chi legge di restare il medesimo dopo averla letta. Deve operare un cambiamento, far abbandonare lo stato dei fatti da cui ha anche potuto avere origine, e una riflessione è un ottimo inizio di mutamento.

Agostina Spagnuolo, in questa prova edita, ha una scrittura anche ben adornata di richiami e conoscenze molteplici, spesso sussurrate o accennate, talvolta esplicitate e usate per rafforzare il testo. La poetessa offre al lettore ancora un ulteriore dono: un ampio ventaglio lessicale che spazia tra i diversi sensi, dove poter soffermarsi un tempo in più, un aspetto positivo e da non sottovalutare nella frenesia di una contemporaneità che troppo spesso non risparmia nemmeno la poesia. Tra le pagine viene concesso il lusso di “stare in poesia”, ormai raro e per questo ancora più prezioso, che conferma e amplia la vocazione alla riflessione di questa autrice contemporanea.

Sono primule, generazioni che avanzano: la poetessa svela il senso profondo della suo lavoro in questo riferimento alle generazioni future, ai figli propri e altrui e senza distinzione di appartenenza a nessuna parte di una Terra che sta man mano dimenticando che il domani si costruisce nel presente. Sono di fatto stagioni in perpetuo ritorno nelle quali per Agostina Spagnuolo Affiora dal fondale dei ricordi un sentimento di pace e ci si può affidare con fiducia e coraggio alla Poesia, alla quale viene conferito il ruolo meno semplice, ovvero di formare le Persone con l’iniziale maiuscola. Quelle Persone che domani perpetueranno finanche la stessa poesia.

Una silloge articolata e densa, capace di tenere a sé il lettore che vuole ritrovarsi, che vuole far parte di un progetto di futuro, come la miglior poesia chiama a concretizzare, in effetti; un canto dai toni sommessi, ma non per questo meno appassionati, dove la vicenda umana personale è il terreno a cui affidare il germogliare nuovamente di quello sguardo ormai stanco di un presente sedato dall’abitudine persino al peggio.

Una poetessa che ha voce delicata e forte al contempo per la fermezza e la fiducia con cui crede nella Poesia, salvezza e risurrezione.

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Tre poesie tratte da La geometria dei pensieri (qui la scheda sull’Autrice)

A lungo nella notte
le lucciole furono fiaccole
al nostro discorrere, di luce.
Snocciolammo parole
e versammo miele
alle anfore della vita
per non lasciarla andare.
L’alba ci sorprese stanchi.
Tu ti eri arreso alla partenza
per la nube di Oort.
Spazi infiniti si aprirono
in sella alle comete
che ti condussero lontano.
A distanza, le nostre vite
rimasero legate.

~

Fotogrammi di silenzi
mietono grappoli di domande.
Appoggiato agli altari della notte
il motore dell’anima si fa scandaglio
di irreversibili percezioni,
inciampa nei fantasmi di ieri
vestiti di carta rossa dietro ai vetri.
Gocce di ghiaccio sul viso.
Lungo il viale del mattino
in una conca di rugiada
si specchia un fragile pulsare.
Danza la punta di un cipresso.
Geometrie di spazi tra metamorfosi di nuvole
strappano il velo alle ombre di cristallo,
tessono fiori di luce tra le ciglia.
Sospira altre promesse il cuore
come chiaro d’aurora.

~

Affondammo il piede nella zolla,
un contatto di molecole
tra radici di sostegno.
La vita si ciba della stessa linfa:
fratello albero prende e dà.
Nel fitto del bosco
scegliemmo l’albero più alto,
che toccasse il cielo,
il cerro dalle ghiande grasse,
per offrirlo a te, Terra Madre.
Lo sposammo alla chioma d’agrifoglio,
che adornammo di un bouquet di rose.
Raccogliemmo le paure
e le affidammo al vento
che alitava tra le fronde,
perché le disperdesse.
Cantammo insieme, un corpo solo.
Danzammo al suono delle armoniche, la sera.
Cerere elargirà sementi:
il vecchio muore e lascia tempo al nuovo.
Si sparge dalla ghirlanda dei pazienti buoi
un profumo di rose.

Sulla poetica di Giovanni Luca Asmundo di Angela Greco AnGre in Italia insulare i poeti, volume sesto (Macabor Editore)

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Italia insulare i poeti, sesto volume (Macabor Editore – QUI)

a cura di Bonifacio Vincenzi e dedicato alla poetessa sarda Marina Minet.

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Il poeta della moltitudine in transito di Angela Greco AnGre

Giovanni Luca Asmundo è poeta della moltitudine in transito; quella che è stata e quella che è, in una attualità che non sfugge al suo sguardo. Una moltitudine che procede, non senza fatica, nella direzione di un futuro che il poeta ammette plurale e – soprattutto – senza più differenze, riconoscendosi umani nella stessa sorte, pur provenendo da storie e luoghi e sofferenze differenti. Una caratteristica, questa, legata alla genetica della città natale di Asmundo, Palermo, e a quella, finanche, della residenza lavorativa, Venezia. Un percorso compreso tra due realtà che hanno insito in sé il viaggio stesso, che tanto offre alla sensibilità di un giovane che guarda con gli occhi della Storia da cui ha avuto origine la civiltà che lega il Mediterraneo al resto del mondo.

il mito sfrangia in leggenda il tessuto / di un’oralità fatta a mano / e la colonna rotta e non finita / è il fuso ingigantito di una vecchia / che sorta all’ombra di un gesto ancestrale / siede filando la notte dei tempi (da “Disattese – coro di donne mediterranee”, 2019). Sintesi perfetta del soggetto, anzi, dei soggetti della poesia di Giovanni Luca Asmundo, in questi versi si ritrovano le radici della civiltà occidentale ed i topoi più significanti dell’opera di questo autore, dalla quale emergono, fino a rimanere impresse in modo incisivo, figure femminili che hanno attraversato il tempo per consegnare ai lettori di oggi la propria voce e le proprie azioni. Perché questa poesia è ricca di gesta e di gesti, verbi che la movimentano, luci che la colorano e Storia passata nelle maglie strette della difficoltà di giungere ai nostri tempi. Attualità, nella quale il poeta è immerso tenendo saldi i capi di una fune che ad un certo punto ha ceduto. Lui stesso diventa, così, il mezzo dell’unione necessaria per costruire un futuro comune. I personalismi sono avulsi a questo poeta gentile, raffinato e coltissimo; le rare esplicitazioni di accadimenti personali sono diluite con maestria nel dire comune che diviene, nella maniera in cui solo la Poesia sa essere, dire di ciascuno.

E finì per assomigliare al mare / perché sempre ne aveva scrutato obliquamente / il senso, oltre il silenzio abbacinato / […] E finì per assomigliare al mare / e al consumo dei giorni, incessante / e cangiante, oltre lo sguardo salato. (da “Stanze d’isola”, 2017)

La Sicilia è il grande palcoscenico sul quale Asmundo fa muovere le sue figure reali e radicate nella classicità, ma che – va sottolineato – estendono le proprie radici fino a quel suolo dove noi oggi ci muoviamo a nostra volta. Non è, però, una poesia che affida alla sicura riuscita dell’uso di canoni e temi classici la propria riuscita; ma è poesia che crede fermamente nei legami con le proprie origini e nella forza, in senso assolutamente positivo, dell’unione tra coloro che guardano lo stesso orizzonte e si impegnano per raggiungere la propria meta.

Sì, perché nonostante l’impianto da teatro greco di tanta parte della scrittura poetica di Asmundo, la sua è una poesia tesa ad uno scopo civile proprio nell’etimologia del termine: è una poesia che riguarda i cittadini e i loro luoghi e che guarda alla civiltà. Poesia che prende le mosse dal perimetro di un’isola e man mano si espande fino a includere un Mediterraneo allargato ben oltre il visibile. Ed ecco che, col procedere delle pubblicazioni e con la maturità della scrittura, affiora il Mare nostrum in tutta la sua splendente drammaticità, culla e bara, generatore di immense civiltà di cui ancora oggi ci sentiamo figli e figlie e luogo di tradimenti dei sogni di tanti, a causa di un dilagare della perdita del senso di umanità: Se solo fosse statua di fulgido bronzo / come quel giovinetto danzante / tutto quello che viene ripescato / in questo tratto di mare accecante. (da “Lacerti di coro”, 2022)

Un linguaggio ricercato accompagnato e sostenuto da suoni di eco di conchiglia caratterizza questa poesia; una scrittura meditata, concisa, precisa e affascinante, tecnicamente ineccepibile anche nei termini derivanti dall’attività di Gianluca (come si fa chiamare) Asmundo, che è architetto nel senso nobile del termine. Da ogni composizione emerge un equilibrio di sillabe e suoni, appunto, che rende la lettura un momento speciale, capace di trasportare il lettore in quell’armonia anelata come rifugio da un quotidiano che stride sempre più forte nelle tempie. Suoli di diversa natura generano suoni differenti al passaggio etereo di figure in massima parte femminili, che sembrano danzare nel loro affermare profonde verità nascoste e più spesso incise nei loro gesti quotidiani. Le donne del poeta Asmundo fanno parte di un vivere concreto, che assicura loro straordinarietà nei piccoli gesti antichi ripetuti per tradizione che diviene storia e cultura. Il mare è luce e specchio ustorio, mentre i prodotti della terra diventano compagni di una narrazione che travalica il tempo. E gelsomini, limoni e fichi sono simboli, ancora in quel plurale che il poeta non lascia mai. Nemmeno nei titoli delle sue pubblicazioni, dove si fa cenno sempre al coro, quello della tragedia classica, voce e insegnamento che proviene dall’esterno in momenti precisi della rappresentazione.

Se apro le orecchie, sento solo / ragli d’uomo / emergono dal buio cavernoso / compreso dal mio petto / otre amaro. // Magari potessi riudire / il canto docile delle cicale. / Con queste mani mi lego / a un tronco d’ulivo. (da “Stanze d’isola”, 2017)

E il suono è un altro grande protagonista di questa poesia che è tela ordita da mani sapienti in sapienti incroci e filo per filo consegnata al lettore, memoria e speranza per il domani. Il suono delle voci dei protagonisti, ma anche e soprattutto dei luoghi; echi di memorie del territorio, un’isola aperta in quel Mare nostrum, spesso dato per scontato, da cui si dipanano vie e il poeta stesso è un navigante di omerica memoria.

Il viaggio è spostamento fisico e dei destini a cui il poeta presta visioni e voce; di attese e di speranza che il futuro possa trovarci consapevoli e capaci di arginare i torti, le disuguaglianze e le ingiustizie che sempre hanno accompagnato la vita umana, ma che negli ultimi tempi paiono dominarla.

Quella di Asmundo è una poesia di pace e di riappacificazione, dove il ritorno è una costante anche per il poeta stesso, intensamente e appassionatamente legato alla sua terra e della quale porta impressa nella scrittura l’appartenenza anche a distanza; una voce che chiama a raccolta, lentamente, figure che sembrano emergere e prendere corpo dalla terra antica, richiamate da un nuovo Orfeo, che non si capacita della perdita del suo affetto più grande e continua a cantare e filare l’armonia spezzata dalla e della realtà. E ogni figura reca in dote il suo corredo di storie, con i suoi propri colori e le sue caratteristiche; mentre il poeta, dal suo punto d’ancoraggio nonostante lo spostamento fisico, assume le connotazioni di un faro che lampeggia il suo personalissimo alfabeto di salvezza.

la voce ancora nell’aria, vibrante / le ultime onde, lente e possenti / giunte da ovunque alla fine del mare / qui dove tutto ha inizio. (da “Lacerti di coro”, 2022)

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Tre poesie estratte dalla produzione del poeta.

L’irriducibilità delle stelle
era pari alle braccia delle madri.
Non più vasi in testa, mutati i fardelli
ma sempre un arcaico sorriso giocondo
e il gomito ad anfora greca.
La cicala iniziava di notte, domandava
alle guance, alle caviglie di ognuna
se fossimo brandelli di uno stesso
corpo, attorno alla cesta di origano.

(da “Trittico di esordio”, Ed.Cofine, 2017, a cura di Anna Maria Curci)

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Forse alla parola
ma credo alla presenza.
Presenza indistruttibile
di certo non si arretrerà di un passo
sui diritti.
Che sia una voce muta o cristallina
si resti a sostenere il fianco caldo
la mano stretta a confortare il braccio
di sorella o fratello, non distinti.
La parità di ognuno sia ben ferma
conquista in discussione in tempi grevi
che occorre rinsaldare in fiume d’oro.
La proprietà di carne è inammissibile
coraggio, nostra voce, nostre fronti
sfavilliamo.

(da “DISATTESE – Coro di donne mediterranee”, Collana di poesia Versante ripido)

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Se candida luce ci lasciasse implumi
degli affanni, delle attese, delle sorti
se ci riducesse a minore, scevri
di rumori di fondo, potremmo
riporre al sicuro ogni ricordo.
Di molti canti e immagini il respiro
rimase evanescenza delle menti.

Ma se torneremo alla prima rada
o alla scoperta dell’ultima rena
ritroveremo finalmente approdo
e riusciremo a tramutare in cosmi
le nostre colonne in rovina.

(da “Lacerti di coro”, Il Convivio Editore)

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Giovanni Luca Asmundo (Palermo, 1987) vive a Venezia, dove ha conseguito un Dottorato presso l’Università IUAV su Danilo Dolci e lavora nel campo dell’architettura, della ricerca e della didattica. Sue sillogi sono pubblicate nel volume Trittico d’esordio, a cura di Anna Maria Curci (Cofine 2017), e nei libri Stanze d’isola (Oèdipus 2017, vincitore del Premio Felix 2016, introduzione di Domenico Notari), Disattese. Coro di donne mediterranee (Versante Ripido 2019, vincitore del Premio omonimo, postfazione di Cinzia Demi) e Lacerti di coro (Il Convivio 2022, tra i vincitori del Premio Pietro Carrera 2022, nota di Giuseppe Manitta). Suoi scritti in poesia, narrativa e prosa lirica appaiono in antologie, riviste e blog letterari. È tra i fondatori del progetto di poesia e fotografia Topografia di uno smarrimento, su una Sicilia in dissolvenza. Promuove progetti di scrittura e intermediali su migrazioni e dialogo, cura dei luoghi, riflessioni sulla città e il paesaggio contemporanei, tra i quali Periplo delle Repubbliche marinare o dei porti aperti, che raccoglie, inoltre, in rubriche sul blog Peripli.

Sulla poetica di Giuseppe Schembari di Angela Greco AnGre in Italia insulare i poeti, volume sesto (Macabor Editore)

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Italia insulare i poeti, sesto volume (Macabor Editore – QUI)

a cura di Bonifacio Vincenzi e dedicato alla poetessa sarda Marina Minet.

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Sulla poetica di Giuseppe Schembari di Angela Greco AnGre

Due libri editi in poco meno di quarant’anni (sono del 1987 alcuni testi inseriti nella prima silloge), ma una vita intera affidata alla scrittura; alla poesia, che salva persino da se stessi. Un poeta di fatto, per quella visione nitida del presente e quella sottile capacità profetica, che caratterizza una scrittura essenziale, scabra, mai ingioiellata per vezzo o moda. Anzi, spogliata e nuda per essere assolutamente aderente a quella verità, che è la profonda ricerca di questo autore cresciuto nella realtà più concreta e meno poetica che si possa immaginare.

E qui sta il grande pregio di questa penna oggi decisamente – e ancora – fuori dagli schemi: riuscire a fare poesia, come l’etimo del termine stesso indica, artigianalmente, scrivendo materialmente un verso alla volta per poi comporre, in un altro tempo, quello della rilettura e della rielaborazione. Nuova elaborazione non tanto finalizzata al sempre proficuo labor limae, quanto piuttosto a restituire il legame tra emozione e realtà che ai versi ha portato. Un lavoro lungo, di analisi particolareggiata, che non contempla fretta o ansie da pubblicazione.

Versi votati alla sommossa fisica e ancor più interiore; una alternativa alla stasi dominante, alla quiete da accettazione passiva della realtà imposta dai sistemi alti: una poesia di reazione civile dalla forte connotazione politica, che conduce, anche a fronte di un linguaggio estremamente diretto, a prendere in seria considerazione gli argomenti di cui il poeta si fa portavoce. Ed ecco, allora, che incontriamo la contestata presenza americana nei territori della Sicilia orientale, la condizione dei detenuti, i margini della società per bene, la Chiesa, lo Stato e le forze dell’ordine visti con gli occhi di chi non condivide gli stessi ideali. Ma su tutto emerge la ricerca della verità, intesa come fame di autenticità.

Giuseppe Schembari, nelle peregrinazioni della sua esistenza non si è mai stancato di indagare oltre il visibile per tentare di trovare una risposta a quello che si vede in superficie e che affonda le proprie radici nelle scelte e nelle decisioni sociali di cui il poeta si sente, fondamentalmente, vittima e ostaggio e alle quali è d’obbligo reagire. Ma vittima del sistema è anche la stessa società, per conformismo, per adeguamento ad un quieto vivere che uniforma, appiattisce e, soprattutto, appanna grandemente la visione dell’ingiustizia perpetrata ai danni dei più deboli, di coloro di cui il sistema societario non si preoccupa e dei quali ha addirittura cattiva opinione, perché hanno un conto in sospeso con il perbenismo se non addirittura con la legge, che regola ogni rapporto tra le parti.

Due testi editi, Al di sotto dello zero e Naufragi (Sicilia Punto L Edizioni, 1989 e 2015) per un totale di quaranta poesie, il lascito – per ora – consegnato ai lettori di tre decenni, fanno di questo autore un concreto poeta del dissenso – come spesso è stato definito – anche nella scelta di non essere una presenza nel bel mondo delle pubblicazioni poetiche italiane. Anzi, il suo sguardo attento individua subito le realtà che si trincerano dietro apparenze benevole, salvo poi artigliare e rivelarsi nell’intimo come negative, coerentemente con il poeta che non tollera i soprusi, i favoritismi e l’inestirpabile ingiustizia sociale.

E l’attenzione ai temi della società e alla condizione del disagio è il trait d’union tra la produzione giovanile e quella ultima, che beneficia, però, anche di un più lucido sguardo al percorso di vita personale. Il tono si fa meno tagliente, nel secondo libro pubblicato a distanza di un quarto di secolo, ma non meno incisivo, indulgendo anche in una certa ricerca linguistica e formale, consapevole del fatto estetico più che altro, sfiorando un lirismo maggiormente confacente all’età, che porta ad ammorbidire – ma solo nell’espressività – il dire, che tuttavia resta volutamente pungente, diretto, ancora capace di scuotere persino i lettori di oggi, che sembrano ormai assuefatti a tutto.

Schembari, tra gli ultimi esponenti dell’Antigruppo siciliano (movimento letterario, artistico e culturale di contestazione nato in Sicilia nel 1966) resta fedele nel tempo alle caratteristiche di quest’ultimo, alla «natura anomala e conflittuale dello stesso consorzio letterario» che poggerebbe «sull’idea di dissidenza, di contrasto: non era necessario che un poeta Antigruppo fosse d’accordo con i principi di un altro, bastava che fosse contro i potenti, contro lo status quo. Era l’atteggiamento di critica che contava». A tale riguardo è utile riportare, traendolo dalla voce omonima presente on-line, anche un’altra breve specifica ancora oggi ben aderente alla poetica di questo autore: «La polemica antigruppo sembra(va) contemplare il categorico rifiuto di ogni possibile forma di dominio culturale e politico. […] essere “antigruppo” non vuol (voleva) dire, dunque, far parte di un movimento strutturato, ma piuttosto assumere un modus operandi di permanente contestazione anti-autoritaria».

Dissenso, rifiuto del potere, messa al bando del capitalismo, critica verso gli stereotipi della società dabbene, ma anche sguardo verso gli emarginati vittime del sistema, includendo non senza dolore un’analisi impietosa della propria esistenza, sono ancora le caratteristiche di questo poeta che continua a percorrere una strada alla ricerca di un presente differente, non regolato dalle logiche utilitaristiche dei dominatori a scapito dei dominati, dei forti sui deboli, tanto da farne una questione tutta politica e sociale, come ormai la poesia contemporanea ci sta disabituando.

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Tre poesie estratte dalla produzione del poeta.

Luna proletaria (da Al di sotto dello zero)

La notte sussurra
arcane armonie
di nenie dolcissime
mentre la luna
è un’immensa amaca
che culla con fare materno
il sonno sereno
dello stanco operaio
La notte è lacerata
da urla strazianti
di uomini morti
in fabbriche lager
mentre la luna
è un occhio severo
un’eterna minaccia
un perfetto alternarsi
di terribili incubi
e spasmi cardiaci
che tormentano il sonno
dello sporco padrone

3 settembre 1988

*
Orfani (da Naufragi)

Cammino e raschio ruggine dal petto,
niente può scalfire quest’afa greve,
i calci restano lì dove li abbiamo presi
nella costanza di un presente inamovibile.

Per sempre orfani, senza più attese
un dimenarsi assurdo nella frenesia,
la timida avvisaglia in un capogiro
noi che attraverso il silenzio ci parliamo.

Si gioca sui timbri lessicali di un copione,
la didascalia indecifrabile delle parole
che scorre dentro la bocca come una preghiera.

S’è complici e mandanti di feroci rappresaglie,
stanare dalle viscere lo sdegno trasversale
nel fuoco senza attrito di un cuore depredato;
le verità nascoste di tutte le mancanze.

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Cos’è rimasto (da Naufragi)

Cos’è rimasto

un sorriso lacero
la memoria prosciugata

scomposte geometrie
fratture inevitabili

l’ira dei pupi
e quella dei pupari

E’ rimasto
un vagito
a ricordare la vita

e il fruscio della seta
che increspa
il silenzio della parola

per farsi poesia

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Giuseppe Schembari (Ragusa, 1963), ha pubblicato due volumi in versi: nel 1989, Al di sotto dello zero, con prefazione di Emanuele Schembari, e nel 2015, Naufragi, con prefazione di Pino Bertelli, entrambi editi da Sicilia punto L. Diverse volte vincitore del Concorso di Poesia “Mario Gori”, del Concorso nazionale di poesia civile “B. Brècht” città di Comiso, del Premio Nazionale di Poesia “Ignazio Russo” città di Sciacca; nel 2017/18 riceve Menzione d’onore al “Premio Lorenzo Montano”; è 3° classificato al Premio Il Convivio, Premio Speciale per l’originalità compositiva, e al Premio “Ugo Carreca” 2018; Premio Speciale “Il Sublime” 2018; Menzione d’onore al Premio Internazionale “Seneca” 2019; 3° Classificato al Concorso Nazionale “Luigi Balzano Conti” 2019 e al Premio Letterario “Città di San Giuliano 2020”; 3° e 5° classificato al Premio Letterario Etna Book, “Cultura sotto il vulcano 2020”. Sue poesie sono inserite in varie Antologie, una tra tutte “Bisogna armare d’acciaio i canti del nostro tempo, Antologia di poeti rivoluzionari”, a cura di Gian Luigi Nespoli e Pino Angione. E’ stato uno degli ultimi esponenti dell’Antigruppo Siciliciano.

Pino Corbo, Con il canto sulle labbra, prefazione di Angela Greco AnGre (Macabor Editore)

Con il canto sulle labbra P.Corbo a cura di AnGre

CON IL CANTO SULLE LABBRA – Testimonianze critiche per la poesia di Pino Corbo

Con una antologia poetica a cura di Angela Greco AnGre

Collana PERCORSI – Testimonianze per la poesia italiana, n°10 –  Macabor Editore, aprile 2024

Hanno collaborato a questo volume: Rocco Taliano Grasso, Silvano Trevisani, Anna Rita Merico, Rocco Salerno, Bonifacio Vincenzi, Alberico Guarnieri, Antonia Vetrone, Tommaso Di Brango, Carlo Giacobbi.

QUI il libro

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Prefazione di Angela Greco AnGre

Meditate attese con riflessioni verticali, potrebbe essere l’essenza di questa poesia di Pino Corbo, poeta denso di slancio filosofico e consapevole della criticità che attanaglia i viventi. Il tempo, l’assenza, il vuoto sono compagni della vita e della morte che fanno la Poesia. Corbo attraversa i decenni con pubblicazioni che non perdono la voglia di domandarsi soprattutto e, quindi, porre al lettore, quesiti che diventano ricerca, motivo vitale e meta da raggiungere. L’esperienza personale diviene comune attraverso una scrittura che pratica straniamento e quindi a-temporalità negli accostamenti arditi, nei salti di immagine, nell’uso degli incisi e degli spazi che consentono al poeta di appartenere all’oggi fuori dalla data in cui effettivamente ha reso editi i suoi lavori. Nelle poesie di Pino Corbo ci si ritrova per fermata obbligata sull’evento esistenziale che lui frammenta dal primo all’ultimo verso di ognuno dei vari componimenti, segnando curve impegnative in una compagine di significati che resta impressa nel lettore.

Le testimonianze critiche su questa voce poetica contemporanea e contemporaneamente del Sud più profondo nella riflessione del vivere, fanno ben emergere il carattere filosofico nel senso di porsi domande, che questo autore ha ben chiaro. In una analisi dei testi pubblicati in quattro decenni, si intercettano sguardi obiettivi e utili al lettore per toccare con mano una poesia dagli echi ermetici e scarna di orpelli, ma non di capacità di costruzione del verso. Pino Corbo conosce benissimo il peso di ogni singolo dire e attende, spera, si augura che il lettore colga il suo, di tempo, quello dato amorevolmente alla Poesia in virtù di un lascito per l’umanità. Potremmo azzardare a dire – con Bonifacio Vincenzi – che per Corbo sia molto più importante l’attesa della creazione della creazione stessa.

Si conviene con Carlo Giacobbi, quando scrive che l’ ‘in se’ dell’io-lirico si sostanzia in quella sorta di acutezza sensoriale che amplifica il sentire. Secondo Corbo – come scrive Tommaso Di Brango – noi uomini cerchiamo un’armonia impossibile con la vita: perché, erroneamente, pensiamo di avere dei diritti di fronte all’esistenza; mentre Silvano Trevisani coglie con occhio attento che Nelle poesie di Pino Corbo ciò che lascia spiazzati è il diffuso senso di pudore che riguarda il suo stesso proiettarsi verso la scrittura, che si manifesta come atto solo residuale in chi è stato lungamente a vagliare. Sulla scrittura del poeta cosentino Anna Rita Merico mette in luce che essa conosce dinamismi leggeri, il suo ritmo procede attraversando altezze, profondità, linee mediane, tutto – nella Sua parola – si risolve e ricomincia, si apre e chiude in un movimento acceso che obbliga a sempre nuove scoperte di punti di vista, a sempre nuovi accessi dello sguardo; mentre Antonia Ventrone porta al lettore che in Corbo La parola diviene un contenitore di una calma verità che dall’Io si unisce al Tutto nello stesso destino.

Dalla lettura di Rocco Salerno, i versi sono come Diario, storia, dunque, di un’anima inquieta e sconsolata che cerca e si cerca nel continuo balbettio, nel continuo straripare che pone e ripone la sua “segreta” forza nella rivoluzione interiore della parola, fino a far affermare ad Alberico Guarnieri che il poeta insomma, si rifugia in un incantato maniero di cristallo, dove può vedere attraverso la trasparenza dei suoi versi (del vetro) il lento, uguale, disumano trascorrere della vita. Rocco Taliano Grasso evidenzia che Il poeta contempla con occhio immobile le immagini del mondo e con tono distante dal canto, un canto che si spegne sempre senza eco. Se poi dalle visioni si passa all’auscultazione si coglie pure, in filigrana, questa dispersione, la frantumazione avvicinando, così, Pino Corbo alla dimensione attuale, a quella disintegrazione dell’unità che tanto dice dell’Uomo moderno.

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Quattro poesie di Pino Corbo estratte da Con il canto sulle labbra

ti riconosci ex voto nello specchio
ma non ritrovi grazia
peccato illuminante

ti riconosci
– non ti sorprendi – caldo di gennaio:
nessuno sa che soffri
il fuoco dell’inverno –
aspetti (ad altre latitudini)
meteoropatie o un tempo
senza variazioni

certo le strade irregolari
(le strade di montagna)
tengono assorti incantati
a un passo dell’attesa

dove sopravvive il mistero
per continuare dissolvenze –
dimenticarsi è follia
dismisura del mondo

I sogni

I sogni dimenticati
non diventano poesie.

I versi più vicini alla coscienza
si cancellano nella memoria –
per pigrizia, stanchezza, pudore
e infinità vanità del tutto.

La mia poesia

La mia poesia
è una vecchia serva
a cui permetto poche volte
di mostrarsi in pubblico.

La mia poesia
è una muta aguzzina
che mi sottopone
ai suoi capricci
al suo imprevedibile
desiderio di parole.

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Pino Corbo è nato nel 1958 a Cosenza. Nel 1982 si è laureato in Lettere Moderne con indirizzo artistico (DAMS) presso l’Università della Calabria. Come poeta ha pubblicato quattro sillogi: Cerco nel vento, 1978; Il segreto del fuoco, 1984; In canto, 1995; La logica delle falene, 2018. Ha pubblicato, inoltre: sei plaquettes (di cui quattro con artisti), due volumi come critico letterario (uno su Pasolini, l’altro su cinema e letteratura) e numerosi saggi, interventi, recensioni su varie riviste italiane e straniere e volumi collettanei.  È stato redattore di numerose riviste; ha insegnato nella Scuola Superiore e ha collaborato dal 1991 al 1998 con il Dipartimento di Scienze dell’Educazione dell’UNICAL, svolgendo una ricerca su Pier Paolo Pasolini ‘diseducatore’.

Fragili legami letto da Angela Greco AnGre su IL SARTO DI ULM – Rivista di Poesia (Macabor)

Fragili Legami Macabor letto da Angela Greco AnGre

Fragili legami – Disarmonia e precarietà del mondo contemporaneo (Macabor) letto da Angela Greco AnGre – su IL SARTO DI ULM – Rivista di poesia (anno V – numero 19 – 2024, Macabor Editore).

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2023, Collana Nuova luce. A cura di Alessia Lombardi; prefazione di Anna Rita Merico. Poesie di Vasyl’ Ivanovyč Holoborod’ko, Patrizia Baglione, Maria Benedetta Cerro, Flaminia Colella, Mariapia L.Crisafulli, Alessandro Fo, Valentino Fossati, Caterina Lazzarini, Isabella Leardini, Paola Loreto, Rossella Tempesta, Silvano Trevisani, Bonifacio Vincenzi.

Una lettura attenta della contemporaneità interpretata da voci che negli ultimi anni sembrano aver visto con anticipo l’esito di questo presente. O, più probabilmente, hanno saputo cogliere la costante disarmonia, appunto, come recita il titolo, che accompagna l’essere umano in quanto tale. In quanto essere consapevole della propria precarietà difronte agli accadimenti, sentimenti o avversità che siano.

Un lavoro collettaneo con il suo coro di voci ha il grande merito di identificare la frammentazione dell’epoca letteraria a cui apparteniamo, consentendo al lettore un confronto; non già per trarne una valutazione estetica, quanto piuttosto per ampliare il ventaglio della lettura. La contemporaneità ha sdoganato stilemi e strutture e un’antologia consente di toccare con mano le prospettive verso cui la poesia si sta orientando. E’ dunque lodevole un lavoro che metta insieme più voci anche distanti anagraficamente e geograficamente, ma accomunate dall’appartenenza a questo oggi; anzi, fragilmente legate da e ad un sentire acuminato nei confronti degli aspetti meno luminosi di questo momento.

Si entra a far parte, così, di un vissuto comune, substrato per emozioni, sicuramente, ma anche per riflessioni di ampio respiro, che lascia emergere non tanto la poesia di mestiere – che pure non manca tra le pagine di questa collettanea – quanto un movimento empatico verso quel che è successo e verso cui si è assunta un’indulgenza che è diventata scrittura. I poeti di questa antologia hanno vissuto intensamente quello che hanno scelto di condividere con i lettori senza nascondimenti e finzioni; hanno elaborato e rivestito di esperienza il succedersi di eventi sentimentali o personali, per offrire un punto di vista sul presente e sui suoi mutevoli aspetti. Ci si ritrova tutti in questi versi. E questo è un pregio non da poco. Si torna a partecipare dell’altro oltre se stessi; attività ampiamente caduta in disuso, ormai, a fronte di egoismi ritenuti sempre la catastrofe maggiore. C’è una delicatezza anche nella sofferenza, nello scorrere delle pagine e delle esperienze poetiche, e si apprezza il suono corale privo di stonature, nel quale non prevale nessuna voce sull’altra, ma tutte insieme lasciano sentire quell’armonia tanto auspicata non solo in poesia.

La Prefazione, nella quale particolare rilievo è da attribuire alla sintesi scritta per ogni poeta, bene mette in mostra le connessioni con il tempo che stiamo vivendo, ancorando al meglio la selezione dei partecipanti alla possibilità di fornire una valida alternativa: “Fragili legami […] è sguardo che non si arrende all’esistente. Lo sguardo che si palesa, nei testi poetici presentati, è sguardo indagatore di lettura del presente, di testimonianza disciplinata sull’evento dell’essere e delle sue possibilità di stare nel cambiamento.”

[Angela Greco AnGre]

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QUI Fragili legami, antologia

QUI – Il sarto di Ulm – tutti i numeri

Lucilla Trapazzo, tre poesie da Paralleli e meridiani – Diari di viaggio

Il sasso nello stagno di AnGre poesia edita

Tre poesie da Paralleli e meridiani – Diari di viaggio di Lucilla Trapazzo 

prefazione di Mara Venuto – Macabor Editore, 2023 – Qui il libro

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All’ombra del castello
(41°24’27.32″N – 13°45’55.89″E)

Non ritornerai
nel paese dei cartelli Vendesi
dove il silenzio ci contiene
tutti
contiene i nomi e il vuoto
delle vite e dei negozi
chiusi

Certi giorni la nebbia avvolge
il campanile e i merli
il sole diventa una pietra
o forse è luna piena – certi giorni
si sfaldano i confini
del pensabile

Ricordo quando c’era luce sul laghetto
(quasi un onsen giapponese)
di rosa e d’arancio vestiva il salice
piangente

– custode del campo, dei sogni e di futili promesse
sussurrate –

e qui oggi la corsa del criceto

sospesi sul pozzo dei vermi restiamo
e guardiamo lo sterco
dei buoi la mano che graffia che tende
all’azzurro.

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Ziitreis – Ha Long Bay
(20°53’59.99″ N 107°11’60.00″ E)

Corrono a grappoli le isole
s’aprono e si chiudono
vanno vengono s’allargano
nella luce cambiano di posto
È una sera qualunque
poi arriva un suono
un punto un dove, un sapore
come macchina del tempo.

Se esiste una costante
è che ogni giorno cambia
eppur non cambia niente
tutto resta uguale.

L’unico rumore è quello delle onde.

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Napoli
(40° 51′ 6.389″ N 14° 16′ 5.248″ E)

Il maestrale romba tempesta
sulla roccia a ponente
del porto. Solleva le onde
e le tue gonne gitane.
A piedi nudi e con il rosso al vento
danzi. Danzi sopra i versi.
Danzi sul dolore delle prugne.

Tra le parentesi dei venti s’inabissa
la parola io e poi s’alza
in sinfonia di noi.

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Lucilla Trapazzo è una poeta, traduttrice, artista e performer italo-svizzera.

Redattrice della sezione poesia di MockUp Magazine, Italia e di Innsaei Literary Journal, India, consulente editoriale per Zheng Xin International Award and Journal, Cina, co-redattrice di antologie internazionali, è giurata in concorsi di poesia internazionali e co-organizza e modera eventi di poesia, festival internazionali e mostre d’arte per associazioni internazionali. Le sue poesie sono state tradotte in diciotto lingue e pubblicate ampiamente su importanti riviste letterarie internazionali. copertina TrapazzoNumerosi anche i premi e i riconoscimenti internazionali

Convinta sostenitrice dei diritti umani e del pianeta, il suo punto di vista sociale, e femminile si riflette in molti dei suoi scritti. Da una sua poesia, Salmodia, che narra di una sposa bambina, è stato tratto un video (produzione Palazzo del Poeta, OST Marco Di Stefano), trasmesso da RAI 1 nella stagione primaverile e autunnale 2021. Nelle sue opere cerca spesso una sintesi tra i diversi linguaggi artistici. Cinque i suoi libri di poesia

Flavio Almerighi, tre poesie da Risorgive

Flavio Almerighi Risorgive

Flavio Almerighi, tre poesie da Risorgive (Macabor, 2022).

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Quando un uomo scrive

Quando un uomo scrive
non vive,
riepiloga l’inventario
del fieno chiuso in cascina
col senso di possesso
del leone affamato

si guarda la barba
trascurata da giorni,
stenta a riconoscersi
dentro uno specchio sadico
per via dell’età,
inventa facce nuove, dure

sono mio padre
e il contrario di lui,
perché in ogni contraddire
sta il valore di un figlio
che disonora il padre
per poterlo salvare.

Nella scrittura

Nella scrittura il riparo,
la dolina incolore dove, nascosto,
nessuno potrà riconoscermi,
qualcosa difficile da trovare
che spenga l’amaro asciutto
nella mia bocca, calmi la lingua
grossa di sete, una calma
dove poter riavviare capelli
e pensiero.

Il piccolo inquieto
perché rimasto a lungo in posa,
la sua camicina
color della neve il primo giorno
che non c’è più.

Iaio

la madre morta troppo presto
il padre inesistente
una vita di lavoro per rimanere nulla
la figlia amatissima frutto di rinunce
come ogni amore
ha pagato con moneta di ferro

Qui il libro sul blog dell’Autore