Due poesie di Giovanni Raboni

carta e penna

Due poesie di Giovanni Raboni

*

Città dall’alto

Queste strade che salgono alle mura
non hanno orizzonte, vedi: urtano un cielo
bianco e netto, senz’alberi, come un fiume che volta.
Dei signori e dei cani.
Da qui alle processioni che recano guinzagli, stendardi
reggendosi la coda
ci saranno novanta passi, cento, non di più: però più giù,
nel fondo della città
divisa in quadrati (puoi contarli) e dolce
come un catino… e poco più avanti
la cattedrale, di cinque ordini sovrapposti: e
proseguendo a destra, in diagonale, per altri
trenta o quaranta passi – una spanna: continua a leggere
come in una mappa – imbocchi in pieno l’asse della piazza
costruita sulle rocciose fondamenta del circo romano
grigia ellisse quieta dove
dormono o si trascinano enormi, obesi, ingrassati
come capponi, rimpinzati a volontà
di carni e borgogna purché non escano dalla piazza! i poveri
della città. A metà tra i due fuochi
lì, tra quattrocento anni
impiantano la ghigliottina.

(da Le case della Vetra)

~

Il rimorso di San Giovanni Battista

Silenzio. Udite. Io annuncio la sua morte
perchè sono di fronte a voi l’autore
della sua venuta e dei suoi giorni
disastrosi. Oh fossi morto prima,
nel deserto, come muoiono i cammelli
che si fidano troppo del proprio gozzo! Io così
della mia memoria, della memoria
che Dio mi concede sulle cose future.
Io non volevo ucciderlo
ma la mia fede si è tramutata in pietra o coltello il …………………………………………..[ [mio battesimo
in violento scorpione. Mi perdoni
se troppo poco ho peccato! Io fiorisco di colpa
come la Vergine è fiorita in lui
nel grembo involontario.

(da Gesta Romanorum)

Versi di Czesław Miłosz

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Versi di Czesław Miłosz

*

Un incontro

Attraversavamo all’alba campi ghiacciati su un carro.
Un’ala rossa si levò nel buio.

E all’improvviso una lepre corse sulla strada.
Uno di noi la indicò con la mano.

È stato molto tempo fa. Oggi nessuno dei due è vivo,
Né la lepre, né l’uomo che fece quel gesto.

O amore mio, dove sono, dove stanno andando?
Il lampo di una mano, una striscia di movimento, un fruscio di ciottoli.
Lo chiedo non per pena, ma per meraviglia.

di Czeslaw Milosz da Campane d’inverno – Trad. dall’inglese di Andrea Sirotti e Bruce Hunter – condivisa da InternoPoesia che si ringrazia

~

La finestra

Ho guardato dalla finestra e ho visto un giovane melo
diafano nel chiarore.
E quando ho guardato un’altra volta all’alba là c’era
un grande
melo carico di frutti.
Devono quindi essere passati molti anni ma non ricordo
cosa
sia successo nel sonno.
— Berkeley, 1965

~

Prova

E allora hai provato le fiamme dell’inferno.
Potresti perfino dire come sono: vere.
Terminanti con ganci aguzzi per strappare la carne
A pèzzo a pezzo, fino all’osso. E percorrevi la via
E aveva luogo il castigo, l’effusione di sangue, la fustigazione.
Ricordi, quindi non hai dubbi. È davvero l’Inferno.
1975

da “POESIE” di Czeslaw Milosz, a cura di Pietro Marchesani, Adelphi

Due poesie di Octavio Paz

Due poesie di Octavio Paz

*

Tra l’andarsene e il restare dubita il giorno,
innamorato della sua trasparenza.

La sera circolare è già baia:
nel suo quieto viavai oscilla il mondo.

Tutto è visibile e tutto è elusivo,
tutto è vicino e tutto è intoccabile.

I fogli, il libro, il bicchiere, la matita
riposano all’ombra dei loro nomi.

Palpitare del tempo che nelle mie tempie ripete
la stessa ostinata sillaba di sangue.

La luce fa del muro indifferente
uno spettrale teatro di riflessi.

Nel centro di un occhio mi scopro;
non mi guarda, mi guardo nel suo sguardo.

Si dissipa l’istante. Senza muovermi,
io resto e me ne vado: sono una pausa.

~

Archi

a Silvina Ocampo

Chi canta sulle sponde del foglio?
Chino, bocconi sul fiume
di immagini, mi vedo, lento e solo,
da me stesso allontanarmi: lettere pure,
costellazioni di segni, cesure
nella carne del tempo, oh scrittura,
rigo nell’acqua!

Vago fra verdi
intrecciati, vago fra trasparenze,
fiume che scivola via e non trascorre;
mi allontano da me stesso, mi trattengo
senza trattenermi a una sponda e discendo,
lungo il fiume, fra archi di intrecciate
immagini, il fiume di pensieri.
Proseguo, là mi attendo, mi vado incontro,
fiume felice che allaccia e scioglie
un istante di sole fra due pioppi,
sulla pietra liscia che si trattiene,
e si distacca da se stesso e discende,
lungo il fiume, all’incontro di se stesso.

*

Il fuoco di ogni giorno (Garzanti, 1992), trad. it. E. Franco

Sibilla Aleramo, tre poesie

Sibilla Aleramo, tre poesie

*

Ironica e pallida
da un cielo bianco d’inverno
la luna mi guarda,
è quasi sera,
io sono tanto stanca
e povera come la più povera…
Mendicare ancora, perchè?
Son sola e senza più giovinezza;
s’irride ai miei canti
e pallida e di pietra,
come da un cielo d’inverno,
la vita mi guarda;
è quasi sera…

~

Una risata.
Forse un giorno
la sentirò prorompermi in gola.
Giorno di gran sole,
risata sopra il mondo,
e poi
due braccia
che mi sollevino ansante
verso la prima stella della sera.

~

Nuda nel sole
per te che dipingi sto immobile,
il seno soltanto ritmando
la vita gagliarda del cuore.
Come un cielo soave d’aurora
è per te questa mia forma lucente,
un prato un’acqua una solitaria fiorita di petali,
tralci di vigna in festività.
E adori, e fervente le dolci dita
su la tela conduci.
Nuda nel sole ed immobile,
frammento di natura,
ti miro orante ed oprante.
Da te invasa da te riassorbita,
sei tu che mi divinizzi
o la mia divinità è che ti crea,
artista, arte, spirito?
Tacitamente il seno respira.

Versi di Jorge Luis Borges

Montagna - dal web

Versi di Jorge Luis Borges

*

Buenos Aires

E adesso la città quasi è una mappa
di tanti fallimenti e umiliazioni;
da questa porta ho ammirato i tramonti,
davanti a questo marmo ho atteso invano.
Qui l’indistinto ieri e l’oggi nitido
mi hanno elargito gli ordinari casi
d’ogni destino; qui i miei passi intessono
il loro labirinto incalcolabile.
Qui l’imbrunire di cenere aspetta
il frutto che gli deve la mattina;
qui l’ombra mia si perderà, leggera,
nella non meno vana ombra finale.
Ci unisce la paura, non l’amore;
sarà per questo che io l’amo così tanto.

~

Notti penose della lunga insonnia
che anelavano all’alba e la temevano,
giorni che vanamente ripetevano
gli ieri, uguali. Oggi li benedico.
Potevo mai presentire in quegli anni
di deserto d’amore che le atroci
favole della febbre e le feroci
aurore fossero solo i gradini
incerti, le vaganti gallerie
per i quali sarei giunto alla pura
vetta azzurra che nell’azzurro dura
della sera d’un giorno, dei miei giorni?
Nella mia è la tua mano, Elsa. Guardiamo
lenta nell’aria la neve e l’amiamo.

~

Sono i fiumi

Siamo il tempo. Siamo la famosa
parabola di Eràclito l’Oscuro.
Siamo l’acqua, non il diamante duro,
che si perde, non quella che riposa.
Siamo il fiume e siamo anche quel greco
che si guarda nel fiume. Il suo riflesso
muta nell’acqua del cangiante specchio,
nel cristallo che muta come il fuoco.
Noi siamo il vano fiume prefissato,
dritto al suo mare. L’ombra l’ha accerchiato.
Tutto ci disse addio, tutto svanisce.
La memoria non conia più monete.
E tuttavia qualcosa c’è che resta
e tuttavia qualcosa c’è che geme.

Rocco Scotellaro, brevissima antologia

Rocco Scotellaro, brevissima antologia

*

Fra me e te

Fra me e te
voglio piantare un frutteto.
Con le tue braccia intreccerò una vite
e quando la pioggia verrà
non ti lascerò sola.
Appena il sole sarà alto
ti canterò nelle vene.
Ogni sera verrò a bere
ai tuoi grappoli,
poi l’ alba verrà.

~

È calda così la malva

È rimasto l’odore
della tua carne nel mio letto.
È calda così la malva
che ci teniamo ad essiccare
per i dolori dell’inverno.

~

Improvvisa la sera

Improvvisa la sera ci ha toccati
me, le mie carte, la pezza di luce
sui mattoni della stanza.

È tanto imbrunito
che mi sento addosso paura.
Ha ripreso la vita
dei piccoli rumori.
Sono sui tetti le anime
dei morti del vicinato,
camminano sulle zampe dei gatti.

~

La luna piena

La luna piena riempie i nostri letti,
camminano i muli a dolci ferri
e i cani rosicchiano gli ossi.
Si sente l’asina nel sottoscala,
i suoi brividi, il suo raschiare.
In un altro sottoscala
dorme mia madre da sessant’anni.

~

Ho capito fin troppo

Ho capito fin troppo gli anni e i giorni e le ore
gl’intrecci degli uomini, chi ride e chi urla
giura che Cristo poteva morire a vent’anni
le gru sono passate, le rondini ritorneranno.
Sole d’oro, luna piena, le nevi dell’inverno
le mattine degli uccelli a primavera
le maledizioni e le preghiere.

~

Nel trigesimo di mio padre

In quei viottoli neri
una serata di queste,
sedevano le famiglie dopo cena
ai gradini delle porte,
contavano i defunti e i nati
dell’estate che correva.
E il contadino tardo che trascorse
per i monti sul mulo
con l’ultimo raccolto
passava salutando i suoi compari.
Una porta era deserta
del compare scomparso un mese fa.

Sergej Esenin, due poesie

autunno nel bosco - ytresu

Sergej Esenin, due poesie

*

Non invano hanno soffiato i venti,
non invano c’è stata la tempesta.
Un misterioso qualcuno ha colmato
i miei occhi di placida luce.

Qualcuno con primaverile dolcezza
ha placato nella nebbia azzurrina
la mia nostalgia per una bellissima,
ma straniera, arcana terra.

Non mi opprime il latteo silenzio,
non mi angoscia la paura delle stelle.
Mi sono affezionato al mondo e all’eterno
come al focolare natio.

Tutto in esso è buono e santo,
e ciò che turba è luminoso.
Schiocca sul vetro del lago
il papavero rosso del tramonto.

E senza volerlo nel mare di grano
un’immagine si strappa dalla lingua:
il cielo che ha figliato
lecca il suo rosso vitello.

~

Noi adesso ce ne andiamo a poco a poco
verso il paese dov’è gioia e quiete.
Forse, ben presto anch’io dovrò raccogliere
le mie spoglie mortali per il viaggio.

Care foreste di betulle!
Tu, terra! E voi, sabbie delle pianure!
Dinanzi a questa folla di partenti
non ho forza di nascondere la mia malinconia.

Ho amato troppo in questo mondo
tutto ciò che veste l’anima di carne.
Pace alle betulle che, allargando i rami,
si sono specchiate nell’acqua rosea.

Molti pensieri in silenzio ho meditato,
molte canzoni entro di me ho composto.
Felice io sono sulla cupa terra
di ciò che ho respirato e che ho vissuto.

Felice di aver baciato le donne,
pestato i fiori, ruzzolato nell’erba,
di non aver mai battuto sul capo
gli animali, nostri fratelli minori.

So che là non fioriscono boscaglie,
non stormisce la segala dal collo di cigno.
Perciò dinanzi a una folla di partenti
provo sempre un brivido.

So che in quel paese non saranno
queste campagne biondeggianti nella nebbia.
Anche perciò mi sono cari gli uomini
che vivono con me su questa terra.

Paul Éluard, tre poesie

Paul Éluard, tre poesie

*

Io te l’ho detto per le nuvole
te l’ho detto per l’albero del mare
per ogni onda gli uccelli tra le fronde
per l’acciottolato del rumore
per le mani familiari
per l’occhio che si fa paesaggio o viso
e il sonno che gli rende
cieli del suo colore
per la notte bevuta interamente
per il tombino nelle strade
per la finestra aperta la fronte scoperta
io te l’ho detto per i tuoi pensieri le tue parole
ogni carezza ogni confidenza resta

~

Si chiude

Non abbiamo imparato nulla
Dalle lezioni dell’abitudine e dai compiti
Del ritmo e del calcolo
Il cuscino delle somiglianze
Ha un bel lambiccarsi sotto le nostre teste

Non abbiamo perso nulla
Nessun motivo per stare in disparte
È per questo che teniamo i capelli sulla fronte

Non siamo stati nulla
Portiamo i sacchi di carbone della sventura
Al cospetto della lanterna magica

Non siamo mai stati svegli

~

Nessuno mi può conoscere
Come tu mi conosci
I tuoi occhi dove dormiamo
Tutti e due
Hanno dato ai miei fanali umani
Una sorte migliore che alle notti del mondo
I tuoi occhi dove viaggio
Hanno offerto ai gesti delle strade
Un senso tolto alla terra
Nei tuoi occhi che ci svelano
La nostra infinita solitudine
Niente è più ciò che credevamo
Chi ti può conoscere
Meglio di me.

Fernando Pessoa, due poesie

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Fernando Pessoa, due poesie

*

Furtiva mano di un fantasma occulto
fra le pieghe del buio e del torpore
mi scuote, e io mi sveglio, ma nel cuore
notturno non trovo gesto o volto.

Un antico terrore che insepolto
porto nel petto, come da un trono
scende sopra di me senza perdono,
mi fa suo servo senza cenno o insulto.

E sento la mia vita di repente
legata con un filo di Incosciente
a ignota mano diretta nell’ignoto.

Sento che niente sono se non l’ombra
di un volto imperscrutabile nell’ombra:
e per assenza esisto, come il vuoto.

~

Ricordo bene il suo sguardo.
Attraversa ancora la mia anima
Come una scia di fuoco nella notte.
Ricordo bene il suo sguardo. Il resto…
Sì, il resto è solo una parvenza di vita.

Ieri ho passeggiato per le strade come una qualsiasi persona.
Ho guardato le vetrine spensieratamente
E non ho incontrato amici con i quali parlare.
D’improvviso mi sono sentito triste, mortalmente triste,
così triste che mi è parso di non poter vivere
un altro giorno ancora, e non perché potessi morire o uccidermi,
ma solo perché sarebbe stato impossibile
vivere il giorno dopo e questo è tutto.

Fumo, sogno, adagiato sulla poltrona.
Mi duole vivere in una situazione di disagio.
Debbono esserci isole verso il sud delle cose
Dove soffrire è qualcosa di più dolce,
dove vivere costa meno al pensiero,
e dove è possibile chiudere gli occhi e addormentarsi al sole
e svegliarsi senza dover pensare a responsabilità sociali
né al giorno del mese o della settimana che è oggi.

Do asilo dentro di me come a un nemico che temo d’offendere,
un cuore eccessivamente spontaneo
che sente tutto ciò che sogno come se fosse reale
che accompagna col piede la melodia delle canzoni
che il mio pensiero canta,
tristi canzoni, come le strade strette quando piove.

Marina Cvetaeva, due poesie

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Marina Ivanovna Cvetaeva, due poesie 

*

E guardò come le prime volte
Non si guarda.
Neri occhi sorseggiarono lo sguardo.
Ho alzato le ciglia e sto ferma.
— Che c’è, — fa giorno? —
E’ che sono bevuta fino in fondo.
Tutto, fino all’ultima goccia, trangugiò la pupilla.
Io sto ferma.
E scorre in me la tua anima.

7 agosto 1916

~

Da «versi per Blok»

Il tuo nome è una rondine nella mano,
il tuo nome è un ghiacciolo sulla lingua.
Un solo unico movimento delle labbra.
Il tuo nome sono cinque lettere.
Una pallina afferrata al volo,
un sonaglio d’argento nella bocca.

Un sasso gettato in un quieto stagno
singhiozza come il tuo nome suona.
Nel leggero schiocco degli zoccoli notturni
il tuo nome rumoroso rimbomba.
E ce lo nomina lo scatto sonoro
del grilletto contro la tempia.

Il tuo nome − ah, non si può! −
il tuo nome è un bacio sugli occhi,
sul tenero freddo delle palpebre immobili.
Il tuo nome è un bacio dato alla neve.
Un sorso di fonte, gelato, turchino.
Con il tuo nome il sonno è profondo.

15 aprile 1916

Mark Strand, tre poesie

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Mark Strand, tre poesie

*

Luna

Apri il libro della sera alla pagina
in cui la luna, la luna sempre, appare

tra due nuvole, spostandosi così piano che parrà
siano trascorse ore prima che tu giunga alla pagina seguente

dove la luna, ora più luminosa, fa scendere un sentiero
per condurti via da ciò che hai conosciuto

entro i luoghi in cui quello che ti eri augurato si avvera,
la sua sillaba solitaria come una frase sospesa

sull’orlo del significato, in attesa che tu ne dica il nome
una volta ancora mentre alzi gli occhi dalla pagina

e chiudi il libro, sentendo ancora com’era
soffermarsi in quella luce, quell’improvviso paradiso di suono.

~

La storia della poesia

I nostri maestri se ne sono andati e se tornassero
chi tra noi li sentirebbe, chi riconoscerebbe
il suono corporeo del paradiso o il paradisiaco
suono del corpo, infinito ed evanescente, che dava sintonia
ai nostri giorni prima che le stelle roteanti
venissero private di ogni potere? La risposta è
nessuno di noi qui. E cosa significa se vediamo
le montagne invetriate di luna e il paese con le porte
e i serbatoi piezometrici muti, e ci viene da alzare la voce
un poco, o a volte a fine autunno
quando la sera fiorisce un momento sui monti a occidente
e ci immaginiamo angeli che si precipitano lungo gli scalini freddi
dell’aria per augurarci il bene, se abbiamo perso ogni volontà
e non facciamo altro che poltrire, udendo e non udendo, i sospiri
di questa o quella brezza vagare senza meta sulle fattorie in malora
e i giardini sterili? Questi giorni quando ci svegliamo
ogni cosa risplende della stessa luce celeste
che colmava il nostro sonno qualche minuto prima,
così non facciamo altro se non contare alberi, nubi,
i pochi uccelli rimasti; poi decidiamo che non dovremmo
essere severi con noi stessi, che il passato non era meglio
di adesso, perché non è forse sempre esistito il nemico,
e la chiesa del mondo non era già in macerie?

~

A volte scoppiava un incendio e io ci camminavo dentro
e ne uscivo illeso e continuavo per la mia strada,
e per me era soltanto un’altra cosa fatta e finita.
Quanto a estinguere l’incendio, lo lasciavo ad altri
che si gettavano nelle nubi di fumo con ramazze
e coperte per spegnere le fiamme. Una volta finito
facevano crocchio per parlare di quello che avevano visto –
la gran fortuna di aver testimoniato i lucori del calore,
l’effetto acquietante della cenere, ma anche più di aver conosciuto il profumo
della carta che brucia, il suono delle parole che respirano la loro fine.

.

(Traduzioni di Damiano Abeni con Moira Egan, la seconda)

Due poesie di Dario Bellezza

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Due poesie di Dario Bellezza 

*

Per sempre

Eri una emozione per vivere,
per stridere durante il pasto
serale. Era emozionante ricevere
posta. La mattina in fretta
le scale scendevo e lì
trovavo le ingiurie tue
alla mortale natalità.

Accuse per andare avanti.
Ma dopo ti rendevi inquieta
al delitto del non detto
se non rispondevo per le rime.
O rima che dirti non sapevo
senza la fuga in avanti
di terzine squilibrate
sul dolce stil vecchio della
Musa canterina a presiedere
gli ozi di Sodoma. Dirti
che ero pieno di sonno
se l’immortalità era un pio
desiderio, lugubre sospiro
ti avrebbe annoiato.
Talvolta una stradina
mi risucchia indenne
dove non alberga strepito di auto;
allora sciolto dai tuoi lunghi
sensi camminare ti vedo per sempre.

~

In Calabria

Davanti immacolate montagne
nel sole meridiano indicano
al viandante la sosta e la calma.
Ma fino a quando? E io chi sono
se ancora ardo di voluttà segreta
nel giorno finito, anzi nei giorni
finiti del mondo caduto?

La casa è decrepita
come piace a me, ma troppo tardi,
mi dico, è arrivata, come tutto
ormai tardi è arrivato agli umani.
Panni stesi al balcone al vento
del Pollino, letti disfatti, aurore
così si placa nel risentimento
la vita che ci è data vivere.
Il mio io è distrutto, non esiste:
la realtà è un nome assiderato.

Buona Pasqua da Il sasso nello stagno di AnGre

Jorge Luis Borges, Giovanni 1,14 (da Elogio dell’ombra)

Non sarà questa pagina enigma minore
di quelle dei Miei libri sacri
o delle altre che ripetono
le bocche inconsapevoli,
credendole d’un uomo, non già specchi
oscuri dello spirito.
Io che sono l’È, il Fu e il Sarà
accondiscendo ancora al linguaggio
che è tempo successivo e simbolo.
Chi gioca con un bimbo gioca con ciò che è
prossimo e misterioso;
io volli giocare coi Miei figli.
Stetti fra loro con stupore e tenerezza.
Per opera di un incantesimo
nacqui stranamente da un ventre.
Vissi stregato, prigioniero di un corpo
e di un’umile anima.
Conobbi la memoria,
moneta che non è mai la medesima.
Il timore conobbi e la speranza,
questi due volti del dubbio futuro.
Ed appresi la veglia, il sonno, i sogni,
l’ignoranza, la carne,
i tardi labirinti della mente,
l’amicizia degli uomini,
la misteriosa devozione dei cani.
Fui amato, compreso, esaltato e sospeso a una croce.
Bevvi il calice fino alla feccia.
Gli occhi Miei videro quel che ignoravano:
la notte e le sue stelle.
Conobbi ciò ch’è terso, ciò ch’è arido,
quanto è dispari o scabro,
il sapore del miele e della mela
e l’acqua nella gola della sete,
il peso d’un metallo sul palmo,
la voce umana, il suono di passi sopra l’erba,
l’odore della pioggia in Galilea,
l’alto gridio degli uccelli.
Conobbi l’amarezza.
Ho affidato quanto è da scrivere a un uomo qualsiasi;
non sarà mai quello che voglio dire,
sarà almeno la sua eco.
Dalla Mia eternità cadono segni.
Altri, non questi ch’è il suo amanuense, scriva l’opera.
Domani sarò tigre fra le tigri
e dirò la Mia legge nella selva,
o un grande albero in Asia.
Ricordo a volte e rimpiango l’odore
di quella bottega di falegname.
.
.

*

Piero della Francesca, Resurrezione (immagine d’apertura)

La luce rosa di un’alba primaverile illumina il bianco dell’Appennino e la natura silente. In primo piano l’umanissima figura di Cristo. Nel corpo i segni della Passione, in mano il vessillo della Resurrezione. Un piede poggia sul bordo del sarcofago nell’atto di uscire: ha vinto la morte, simboleggiata dai quattro personaggi abbandonati nel sonno nella parte bassa della composizione. Tra loro, frontale rispetto allo spettatore, Piero si autoritrae. Quest’opera, considerata del tutto autografa ed eseguita tra il 1463 e il 1468 ad affresco da Piero di Benedetto de’ Franceschi, detto Piero della Francesca (1420 ca. – 1492), è ubicata nel Palazzo dei Conservatori di Sansepolcro (Arezzo), attuale sede del Museo Civico.

Cristo risorto emerge dal Santo Sepolcro, simbolo della città, stringendo con presa sicura lo stendardo crociato e poggiando saldamente il piede sul sarcofago dal quale si erge vincitore della morte, esprimendo, attraverso sembianze concretamente umane, la sua sovranità divina accentuata dalla fissità quasi inquietante dello sguardo. Il perno della composizione è costituito dalla figura del figlio di Dio ormai risorto, che divide in due parti il paesaggio: quello a destra rigoglioso e quello a sinistra morente, dove gli alberi, che a sinistra appaiono secchi, come in pieno inverno, a destra sono ritratti verdi, come in primavera, sottolineano l’inizio di un nuovo tempo nella storia dell’umanità.

Il pittore sceglie, invece, di ritrarre se stesso addormentato ai piedi del sarcofago, mentre all’asta del vessillo con la croce guelfa attribuisce il compito di tenerlo in diretto contatto con la divinità, come ad ispirare e ricordare il Piero politico, quando, consigliere comunale, sedeva nella stanza attigua all’affresco. (Giorgio Chiantini)

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Mario Luzi – Padre mio, mi sono affezionato alla terra

Padre mio, mi sono affezionato alla terra
quanto non avrei creduto.
È bella e terribile la terra.
Io ci sono nato quasi di nascosto,
ci sono cresciuto e fatto adulto
in un suo angolo quieto
tra gente povera, amabile e esecrabile.

Mi sono affezionato alle sue strade,
mi sono divenuti cari i poggi e gli uliveti,
le vigne, perfino i deserti.

È solo una stazione per il figlio Tuo la terra
ma ora mi addolora lasciarla
e perfino questi uomini e le loro occupazioni,
le loro case e i loro ricoveri
mi dà pena doverli abbandonare.

Il cuore umano è pieno di contraddizioni
ma neppure un istante mi sono allontanato da te.
Ti ho portato perfino dove sembrava che non fossi
o avessi dimenticato di essere stato.

La vita sulla terra è dolorosa,
ma è anche gioiosa: mi sovvengono
i piccoli dell’uomo, gli alberi e gli animali.
Mancano oggi qui su questo poggio che chiamano Calvario.

Congedarmi mi dà angoscia più del giusto.
Sono stato troppo uomo tra gli uomini o troppo poco?
Il terrestre l’ho fatto troppo mio o l’ho rifuggito?
La nostalgia di te è stata continua e forte,
tra non molto saremo ricongiunti nella sede eterna.

Padre, non giudicarlo
questo mio parlarti umano quasi delirante,
accoglilo come un desiderio d’amore,
non guardare alla sua insensatezza.

Sono venuto sulla terra per fare la tua volontà
eppure talvolta l’ho discussa.
Sii indulgente con la mia debolezza, te ne prego.
Quando saremo in cielo ricongiunti
sarà stata una prova grande
ed essa non si perde nella memoria dell’eternità.
Ma da questo stato umano d’abiezione
vengo ora a te, comprendimi, nella mia debolezza.

Mi afferrano, mi alzano alla croce piantata sulla collina,
ahi, Padre, mi inchiodano le mani e i piedi.
Qui termina veramente il cammino.
Il debito dell’iniquità è pagato all’iniquità.
Ma tu sai questo mistero. Tu solo.

*

🖋 Mario Luzi per la liturgia del Venerdì Santo al Colosseo, 2 aprile 1999 — in foto: Taranto, dettaglio della processione (dal web)

R.M.Rilke, Annunciazione

Rainer Maria Rilke

Annunciazione
(Le parole dell’Angelo)

Tu non sei piú vicina a Dio di noi;
siamo lontani tutti. Ma tu hai stupende
benedette le mani.
Nascono chiare a te dal manto,
luminoso contorno:
io sono la rugiada, il giorno,
ma tu, tu sei la pianta.

Sono stanco ora, la strada è lunga,
perdonami, ho scordato
quello che il Grande alto sul sole
e sul trono gemmato,
manda a te, meditante
(mi ha vinto la vertigine).
Vedi: io sono l’origine,
ma tu, tu sei la pianta.

Ho steso ora le ali, sono
nella casa modesta immenso;
quasi manca lo spazio
alla mia grande veste.
Pur non mai fosti tanto sola,
vedi: appena mi senti;
nel bosco io sono un mite vento,
ma tu, tu sei la pianta.

Gli angeli tutti sono presi
da un nuovo turbamento:
certo non fu mai cosí intenso
e vago il desiderio.
Forse qualcosa ora s’annunzia
che in sogno tu comprendi.
Salute a te, l’anima vede:
ora sei pronta e attendi.
Tu sei la grande, eccelsa porta,
verranno a aprirti presto.
Tu che il mio canto intendi sola:
in te si perde la mia parola
come nella foresta.

Sono venuto a compiere
la visione santa.
Dio mi guarda, mi abbacina…

Ma tu, tu sei la pianta.

(traduzione di Giaime Pintor, da Il libro delle immagini, dal web — immagine: M.Chagall, “Apparizione”)