Tre poesie di Alexander Shurbanov

carta e penna

Tre poesie di Alexander Shurbanov: poeta, traduttore, saggista, critico letterario e professore universitario nato a Sofia (Bulgaria) nel 1941 è anche dottore honoris causa delle Università britanniche nel Kent e nel Surrey e  traduttore bulgaro dei Racconti di Canterbury di Chaucer,  delle tragedie di Shakespeare, del Paradiso perduto di Milton, delle poesie di Dylan Thomas e di numerosi altri poeti inglesi.

*

Ninnananna

Certe sere il mare si fa pallido e calmo
come se temesse qualcosa di estraneo
che incombe.
Ma subito l’universo buio china
su di lui il proprio volto sorridente,
i suoi capelli lo avvolgono dolcemente,
e acquietandosi
il mare si placa,
scurisce
e inizia a mormorare
qualcosa di incomprensibile,
eppure sereno e sterminato
come un’eternità,
che nel mondo non ha nulla da temere.

~

Sussurri dell'acqua


“Scrivi un verso
.                  e poi cancellalo” –
sussurra l’onda
mentre consegna sabbia alla spiaggia
e la riporta indietro
fino al vivente,
.                  inquieto,
oscuro abisso,
sforzandosi
di non ordinare l’universo
in una eternità immutabile
ma di tenere integra
la fragile catena del movimento,
i cui estremi
non sono cosa che possiamo scorgere.

~

Tutta l’immortalità che abbiamo 

Vorrei conservare quell’acuto confine
che divide il sole e l’ombra
sulla sabbia tra le vigne
sul fondo dei miei occhi
come un solco purpureo
e nel ricordo caldo dei miei passi –
come la cicatrice dolce di una vecchia ferita.
Qualcosa mi suggerisce
che in esso sta l’immortalità –
tutta l’immortalità che abbiamo.
Perciò non dobbiamo lasciarla guizzare
e scivolare via
insieme alla coda della lucertola,
come fa ogni sera d’estate,
mentre guardiamo altrove e non siamo attenti,
perché siamo così ricchi
che lasciamo tutta l’immortalità che abbiamo
cadere a terra in innumerevoli attimi dorati,
scorrere fra le nostre dita come sabbia.


(Traduzioni di Francesco Tomada)

Mario Luzi, Gesù e la terra degli uomini

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Padre mio, mi sono affezionato alla terra
quanto non avrei creduto.
È bella e terribile la terra.
Io ci sono nato quasi di nascosto,
ci sono cresciuto e fatto adulto
in un suo angolo quieto
tra gente povera, amabile e esecrabile.

Mi sono affezionato alle sue strade,
mi sono divenuti cari i poggi e gli uliveti,
le vigne, perfino i deserti.

È solo una stazione per il figlio Tuo la terra
ma ora mi addolora lasciarla
e perfino questi uomini e le loro occupazioni,
le loro case e i loro ricoveri
mi dà pena doverli abbandonare.

Il cuore umano è pieno di contraddizioni
ma neppure un istante mi sono allontanato da te.
Ti ho portato perfino dove sembrava che non fossi
o avessi dimenticato di essere stato.

La vita sulla terra è dolorosa,
ma è anche gioiosa: mi sovvengono
i piccoli dell’uomo, gli alberi e gli animali.
Mancano oggi qui su questo poggio che chiamano Calvario.

Congedarmi mi dà angoscia più del giusto.
Sono stato troppo uomo tra gli uomini o troppo poco?
Il terrestre l’ho fatto troppo mio o l’ho rifuggito?
La nostalgia di te è stata continua e forte,
tra non molto saremo ricongiunti nella sede eterna.

Padre, non giudicarlo
questo mio parlarti umano quasi delirante,
accoglilo come un desiderio d’amore,
non guardare alla sua insensatezza.

Sono venuto sulla terra per fare la tua volontà
eppure talvolta l’ho discussa.
Sii indulgente con la mia debolezza, te ne prego.
Quando saremo in cielo ricongiunti
sarà stata una prova grande
ed essa non si perde nella memoria dell’eternità.
Ma da questo stato umano d’abiezione
vengo ora a te, comprendimi, nella mia debolezza.

Mi afferrano, mi alzano alla croce piantata sulla collina,
ahi, Padre, mi inchiodano le mani e i piedi.
Qui termina veramente il cammino.
Il debito dell’iniquità è pagato all’iniquità.
Ma tu sai questo mistero. Tu solo.

*

Padre Mio, mi sono affezionato alla terra di Mario Luzi è un testo composto, assieme ai commenti e alle meditazioni, per la Via Crucis presieduta da papa Giovanni Paolo II, che invitò il poeta a scrivere per l’occasione, per il Venerdì Santo del 1999, a Roma, al Colosseo. Il componimento, meglio conosciuto con il titolo Gesù e la terra degli uomini, è stato redatto a commento del passo del Vangelo secondo Matteo 27,33-35, ovvero del passo relativo al Golgota. Il poeta ipotizza un dialogo di Gesù con Dio, poco prima della crocifissione. (In apertura, opera di L.Fontana)

Ancora Barabba

La città vista da qui sembra smisurata.
Il drappo protegge il sinedrio dalla luce.
Stanno decidendo il mio futuro.
Chi? Una commistione di popolo e leggi.
Ma quello che dovrà scegliere tra me e l’altro
è anche il mio popolo. Ho le mani legate.

In alcuni giorni la sopravvivenza è un dono altrui
(come nelle notti in mare
quando l’approdo è solo un caso).

Oggi, vista da quassù la città sembra più bella
eppure decreterà chi deve morire.

*

Il governatore della regione scruta il cielo fosco:
una sequenza di grigi è presagio di maltempo.

Dalle torri per svariati ettari si estende fumo
(inno ad un futuro scambiato per denaro).
Forse verrà la pioggia,
ma non sarà sufficiente.

Dalla finestra Pilato confonde le nuvole:
alcune porteranno acqua; altre,
somigliano a presagi
(ma lo sapremo soltanto tra cinquant’anni).

Obliquo un raggio
dallo specchio colpisce l’occhio.
Non basta la mano a schermarsi.

Il processo sta per iniziare:
si indossi pure l’abito migliore.

*

Impronte nel Getsemani dicono che
non era uno solo
a calpestare terra e preghiere.

Sotto il riverbero del sole di mezzogiorno
c’è chi non distingue l’innocente
tra le pagine e i nodi dell’ulivo.

La città ha già reso note le sue intenzioni:
issano altre croci prima del tramonto;
viene il giorno di festa.
La morte per questo può aspettare.

Il vento gonfia le tende rosse.
Il tribunale dà segno d’inizio.

Metà mattina. La piazza aspetta
in silenzio le sorti capovolte: oggi
trenta Giuda tradiranno per un denaro
chiunque stia loro seduto accanto.

Nel vuoto tra muro e strada
aspetta la sorte.

da ANCORA BARABBA di Angela Greco AnGre

(YCP, Collezione Bocche Naufraghe – QUI)

in apertura, immagine da Vangelo secondo Matteo di P.P.Pasolini

Ghiannis Ritsos, tre poesie

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Tre poesie di Ghiannis Ritsos (Grecia, 1909 – 1990)

*

Insuccesso

Vecchi giornali gettati in cortile. Sempre le stesse cose.
Malversazioni, delitti, guerre. Che cosa leggere?
Cade la sera rugginosa. Luci gialle.
E quelli che un tempo avevano creduto nell’eterno sono invecchiati.
Dalla stanza vicina giunge il vapore del silenzio. Le lumache
salgono sul muro. Scarafaggi zampettano
nelle scatole quadrate di latta dei biscotti.
Si ode il rombo del vuoto. E una grossa mano deforme
tappa la bocca triste e gentile di quell’Uomo
che ancora una volta provava a dire: fiore.

Karlòvasi, 4.VII.87

~

Questo solo

È un uomo ostinato. A dispetto del tempo afferma:
“amore, poesia, luce”. Costruisce su un fiammifero
una città con case, alberi, statue, piazze,
con belle vetrine, con balconi, sedie, chitarre,
con abitanti veri e vigili gentili. I treni
arrivano in orario. L’ultimo scarica
tavolini di marmo per un locale in riva al mare
dove rematori sudati con belle ragazze
bevono limonate diacce guardando le navi.
Questo solo ho voluto dire, se non mi credono fa niente.

Karlòvasi, 7.VII.87

~

Qualcosa resta

Dopo tanti bombardamenti a tappeto
rimase intatto soltanto un muro della grande chiesa
con l’alta finestra; intatta anche
la bella vetrata della finestra
con colori viola, arancioni, azzurri, rossi
e raffigurazioni di fiori, uccelli e santi.
Perciò confido ancora nella poesia.

Atene, 2.II.88

*

Da Molto tardi nella notte, trad. di Nicola Crocetti, Crocetti, 2020.

Versi da Aiguiller di Angela Greco AnGre

Cagnaccio di S.Pietro -Donna allo specchio-1927

Torna l’immagine della cornice annerita;
dalla strada esalano differenti umanità.
Un odore eccessivo tormenta il pomeriggio;
un fuso orario che confonde lo stomaco.
Vaghi segnali di rottura con l’ultimo periodo.
Un’attesa si staglia contro il vetro rotto, mandando
in frantumi la visione del giorno; torna anche Amleto
e la sfera di vetro e la poesia mi meraviglia ancora.
Venezia è sempre di acque e cristalli e
tento di riprendere i fili del discorso.
Ho eliminato ogni macchia dagli specchi, ma
ancora non è nitida la visione.
Caduti ai piedi di un imprevisto, viene maltrattata
ogni sicurezza acquisita con fatica e piccoli passi.
Della maschera abbiamo ancora notizie e bisogno,
nonostante il palcoscenico tenti di cambiare.
Vasti incendi si sviluppano intorno e dentro;
potrebbe essere dicembre, noi saremmo gli stessi.
«E, quindi?» mi domandi con la stessa curiosità
«Non so» rispondo sistemando i chiodi nei polsi.
Un’agonia s’attarda tra azioni e pensieri, mentre
intorno le superfici divengono specchi abbaglianti.
La riflessione è obbligatoria.
[…]

~

Angela Greco AnGre, Aiguiller (Ladolfi Editore, 2022)

https://www.ladolfieditore.it/index.php/it/component/jshopping/perle-poesia/aiguiller.html

*

In apertura: ” Donna allo specchio”, opera di Cagnaccio di San Pietro

Mark Strand, due poesie

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Due poesie di Mark Strand (1934 – 2014), poeta e critico letterario canadese naturalizzato statunitense. 

*

Poesia

Si intrufola dalla porta di servizio,
di soppiatto oltrepassa la cucina,
il salotto, l’ingresso, sale le scale ed entra
in camera. Si china
sul mio letto e dice che è venuto
a uccidermi. Il lavoro
lo compirà a stadi.

Prima le unghie
verranno spuntate, poi le dita
dei piedi eccetera fino
a che nulla resti di me.
Stacca uno strumentucolo
dal portachiavi, e attacca.
Sento Il Lago dei Cigni dallo stereo
di un vicino e canticchio.

Quanto tempo trascorra
non so dire. Ma quando torno in me
sento che dice che è arrivato al collo
e non può continuare
perché è stanco. Gli dico
che ha fatto abbastanza,
che dovrebbe rincasare, riposare.
Mi ringrazia e se ne va.

Resto sempre sorpreso
da come si accontenta facilmente
certa gente.

~

La lunga festa triste

Qualcuno diceva
qualcosa sulle ombre che coprivano il campo, su
come le cose passano, su come ci si addormenta verso l’alba
e il mattino se ne va.

Qualcuno diceva
di come il vento si spegne ma poi torna,
di come le conchiglie sono le bare del vento
ma le intemperie continuano.

Era una lunga serata
e qualcuno diceva qualcosa sulla luna che cosparge di bianco
i campi gelidi, e che non c’era niente da aspettarsi
se non sempre le stesse cose.

Qualcuno parlò
di una città in cui era stata prima della guerra, una stanza e due candele
contro la parete, qualcuno che ballava, qualcuno che guardava.
Cominciammo a credere

che la sera non sarebbe mai terminata.
Qualcuno diceva che la musica era finita e non se n’era accorto nessuno.
Poi qualcuno disse qualcosa sui pianeti, sulle stelle,
di quant’erano minuscoli, quant’erano lontani.

da “Tutte le poesie” , Mondadori. Traduzione di Damiano Abeni e Moira Egan

Czesław Miłosz, due poesie

Due poesie di Czesław Miłosz (Lituania, 1911 – Polonia, 2004) 

*

Prefazione

Tu, che non ho potuto salvare,
Ascoltami.
Cerca di capire questo linguaggio semplice, mi vergognerei di un altro.
Non possiedo, lo giuro, la magia della parola.
Ti parlo tacendo, come una nuvola o un albero.

Ciò che fortificava me, per te era mortale.
Hai scambiato il congedo di un’epoca per l’inizio di una nuova,
L’afflato dell’odio per bellezza lirica,
La forza cieca per forma compiuta.

Ecco la valle dei bassi fiumi polacchi. E il ponte enorme
Che avanza nella bianca nebbia. Ecco la città infranta
E il vento scaglia contro la tua tomba gli stridi dei gabbiani,
Mentre parlo con te.

Cos’è la poesia che non salva
I popoli né le persone?
Una complicità di menzogne ufficiali,
Una cantilena di ubriachi, a cui fra un attimo verrà tagliata la gola,
Una lettura per signorinette.

Che volevo una buona poesia, senza esserne capace,
Che ho capito, tardi, il suo fine salvifico,
Questo, e solo questo, è la salvezza.

Spargevano sulle tombe miglio e semi di papavero
Per nutrire i morti accorrenti in volo – gli uccelli.
Depongo qui questo libro per te, o trascorso,
Perché d’ora innanzi tu smetta di apparirci.

~

Sugli angeli

Vi hanno tolto le vesti bianche,
Le ali e perfino l’esistenza.
Tuttavia io vi credo, messaggeri.

Là dove il mondo è girato a rovescio,
Pesante stoffa ricamata di stelle e animali,
Passeggiate esaminando i punti veritieri della cucitura.

La vostra tappa qui è breve,
Forse nell’ora mattutina, se il cielo è limpido,
In una melodia ripetuta da un uccello,
O nel profumo delle mele verso sera
Quando la luce rende magici i frutteti.

Dicono che vi abbia inventato qualcuno
Ma non ne sono convinto.
Perché gli uomini hanno inventato anche se stessi.

La voce − senza dubbio questa è la prova,
Perché appartiene a esseri indubbiamente limpidi,
Leggeri, alati (perché no?),
Cinti dalla folgore.
Ho udito sovente questa voce in sogno
E, cosa ancor più strana, capivo pressappoco
il dettame o l’invito in lingua ultraterrena:

è presto giorno
ancora uno
fa’ ciò che puoi.

Traduzione di Pietro Marchesani

Due poesie di Michel Faber

cuore

Due poesie di Michel Faber 

Nato in Olanda nel 1960 e cresciuto in Australia oggi vive nel nord della Scozia. È uno degli autori in lingua inglese più acclamati degli ultimi anni. Il romanzo che lo ha consacrato a livello internazionale è stato “Il petalo cremisi e il bianco”, uscito nel 2002. Dopo la morte della moglie, di cui si è preso cura fin dalla scoperta della malattia, interrompendo il suo lavoro di narratore, si è dedicato alla composizione di poesie incentrate sul dolore e sul tema della perdita.

*

Non sapevamo mai
quando sarebbe stata
l’ultima volta.
Era importante
non saperlo.
Facevamo l’amore
la penultima volta,
sempre la penultima volta,
tante volte
quanto il tempo ne concedeva.
Andavamo a letto
e accostavamo le teste,
cercando di scoprire
dov’eri andata.
La tua malattia era un terreno
vasto ma, in un modo o nell’altro,
ancora e sempre,
ti trovavamo.

~

Ecco come stanno le cose:
trascorreremo la notte separati.
Ho il tuo nuovo indirizzo
stampato su un bigliettino
ma non conosco la città abbastanza bene
da figurarmi il posto dove stai dormendo.
Inoltre, è tutto finito ormai.
Non sono più necessario ai tuoi bisogni.
Sei con altri della tua stessa razza
e io, alfine, sono assente dalla tua mente.

Ci sono così tante persone alle quali dovrei dire
che mi hai lasciato.
Una sfida per un altro giorno.
Che caldo c’è! Ormai è luglio.
Alzo gli occhi mentre cammino e in cielo
vedo la prima delle lune
che non condivideremo.

Traduzione di Luca Manini

Abdellatif Laâbi, due poesie

carta e penna

Due poesie di Abdellatif Laâbi (Fes, Marocco, 1942), poeta, scrittore e attivista marocchino.

*

L’epoca è banale
meno sorprendente della tariffa di una prostituta
I satrapi si divertono parecchio
al gioco della verità
I diseredati si convertono in massa
alla religione del Lotto
Gli amanti si separano
per un chilo di banane
Il caffè non è né più né meno amaro
L’acqua resta sullo stomaco
La siccità colpisce i più affamati
I sismi si compiacciono nel complicare
il compito dei soccorritori
La musica si raffredda
Il sesso guida il mondo
Solo i cani continuano a sognare
per tutta la durata del pomeriggio e delle notti

~

La lingua di mia madre 

Non vedo mia madre da vent’anni
si è lasciata morire di fame
dicono si togliesse ogni mattina
il foulard dalla testa
per sbatterlo in terra sette volte
maledicendo il cielo e il Tiranno
io ero nella caverna
là dove il forzato legge nelle ombre
e dipinge sulle pareti il bestiario dell’avvenire
Non vedo mia madre da vent’anni
mi ha lasciato un servizio da caffè cinese
le cui tazze si rompono l’una dopo l’altra
senza che m’importi per quanto sono brutte
Ma ne amo ormai solo il caffè
oggi, quando solo
chiedo in prestito la voce di mia madre
o meglio è lei che parla dalla mia bocca
con le sue bestemmie, grossolanità e imprecazioni
l’introvabile rosario dei suoi diminutivi
tutta la specie in estinzione delle sue parole
non vedo mia madre da vent’anni
ma sono l’ultimo uomo sulla terra
a parlare ancora la sua lingua

Volontà di pace

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La fine e l’inizio di Wisława Szymborska

Dopo ogni guerra
c’è chi deve ripulire.
In fondo un po’ d’ordine
da solo non si fa.
C’è chi deve spingere le macerie
ai bordi delle strade
per far passare
i carri pieni di cadaveri.
C’è chi deve sprofondare
nella melma e nella cenere,
tra le molle dei divani letto,
le schegge di vetro
e gli stracci insanguinati.
C’è chi deve trascinare una trave
per puntellare il muro,
c’è chi deve mettere i vetri alla finestra
e montare la porta sui cardini.
Non è fotogenico
e ci vogliono anni.
Tutte le telecamere sono già partite
per un’altra guerra.
Bisogna ricostruire i ponti
e anche le stazioni.
Le maniche saranno a brandelli
a forza di rimboccarle.
C’è chi con la scopa in mano
ricorda ancora com’era.
C’è chi ascolta
annuendo con la testa non mozzata.
Ma presto
gli gireranno intorno altri
che ne saranno annoiati.
C’è chi talvolta
dissotterrerà da sotto un cespuglio
argomenti corrosi dalla ruggine
e li trasporterà sul mucchio dei rifiuti.
Chi sapeva
di che si trattava,
deve far posto a quelli
che ne sanno poco.
E meno di poco.
E infine assolutamente nulla.
Sull’erba che ha ricoperto
le cause e gli effetti,
c’è chi deve starsene disteso
con la spiga tra i denti,
perso a fissare le nuvole.

🕊

Il volto della pace di Paul Éluard 

Conosco tutti i luoghi dove abita la colomba
e il più naturale è la testa dell’uomo.

L’amore della giustizia e della libertà
ha prodotto un frutto meraviglioso.
Un frutto che non marcisce
perché ha il sapore della felicità.

Che la terra produca, che la terra fiorisca
che la carne e il sangue viventi
non siano mai sacrificati.

Che il volto umano conosca
l’utilità della bellezza
sotto l’ala della riflessione.

Pane per tutti, per tutti delle rose.
L’abbiamo giurato tutti.
Marciamo a passi da giganti.
E la strada non è poi tanto lunga.

Fuggiremo il riposo, fuggiremo il sonno,
coglieremo alla svelta l’alba e la primavera
e prepareremo i giorni e le stagioni
a seconda dei nostri sogni.

La bianca illuminazione
di credere tutto il bene possibile.
L’uomo in preda alla pace s’incorona di speranza.
L’uomo in preda alla pace ha sempre un sorriso
dopo tutte le battaglie, per chi glielo chiede.

Fertile fuoco dei grani delle mani e delle parole
un fuoco di gioia s’accende e ogni cuore si riscalda.
La vittoria si appoggia sulla fraternità.
Crescere è senza limiti.
Ciascuno sarà vincitore.

La saggezza è appesa al soffitto
e il suo sguardo cade dalla fronte come una
lampada di cristallo
la luce scende lentamente sulla terra
dalla fronte del più vecchio passa al sorriso
dei fanciulli liberati dal timore delle catene.

Pensare che per tanto tempo l’uomo ha fatto
paura all’uomo
e fa paura agli uccelli che porta nella sua testa.

Dopo aver levato il suo viso al sole
l’uomo ha bisogno di vivere
bisogno di far vivere e s’unisce d’amore
s’unisce all’avvenire.

La mia felicità è la nostra felicità
il mio sole è il nostro sole
noi ci dividiamo la vita
lo spazio e il tempo sono di tutti.

L’amore è al lavoro, egli è infaticabile.
Eravamo nel millenovecento diciassette
e conserviamo il senso
della nostra liberazione.
Noi abbiamo inventato gli altri
come gli altri ci hanno inventato.
Avevamo bisogno gli uni degli altri.

Come un uccello che vola ha fiducia nelle sue ali
noi sappiamo dove conduce la nostra mano tesa:
verso nostro fratello.

Colmeremo l’innocenza
della forza che tanto a lungo
ci è mancata
non saremo mai più soli.

Le nostre canzoni chiamano la pace
e le nostre risposte sono atti per la pace.
Non è il naufragio, è il nostro desiderio
che è fatale, e la pace inevitabile.

L’architettura della pace
riposa sul mondo intero.

Apri le tue ali, bel volto;
imponi al mondo di essere saggio
poiché diventiamo reali,
diventiamo reali insieme per lo sforzo
per la nostra volontà di disperdere le ombre
nel corso folgorante di una nuova luce.

La forza diventerà sempre più leggera
respireremo meglio, canteremo a voce più alta.

🕊

Ode alla pace di Pablo Neruda 

Sia pace per le aurore che verranno,
pace per il ponte, pace per il vino,
pace per le parole che mi frugano
più dentro e che dal mio sangue risalgono
legando terra e amori con l’antico
canto;
e sia pace per le città all’alba
quando si sveglia il pane,
pace al libro come sigillo d’aria,
e pace per le ceneri di questi
morti e di questi altri ancora;
e sia pace sopra l’oscuro ferro di Brooklin, al portalettere
che entra di casa in casa come il giorno,
pace per il regista che grida al megafono rivolto ai convolvoli,
pace per la mia mano destra che brama soltanto scrivere il nome
Rosario, pace per il boliviano segreto come pietra
nel fondo di uno stagno, pace perché tu possa sposarti;
e sia pace per tutte le segherie del Bio-Bio,
per il cuore lacerato della Spagna,
sia pace per il piccolo Museo
di Wyoming, dove la più dolce cosa
è un cuscino con un cuore ricamato,
pace per il fornaio ed i suoi amori,
pace per la farina, pace per tutto il grano
che deve nascere, pace per ogni
amore che cerca schermi di foglie,
pace per tutti i vivi,
per tutte le terre e le acque.
Ed ora qui vi saluto,
torno alla mia casa, ai miei sogni,
ritorno alla Patagonia, dove
il vento fa vibrare le stalle
e spruzza ghiaccio
l’oceano. Non sono che un poeta
e vi amo tutti, e vago per il mondo
che amo: nella mia patria i minatori
conoscono le carceri e i soldati
danno ordini ai giudici.
Ma io amo anche le radici
del mio piccolo gelido paese.
Se dovessi morire mille volte,
io là vorrei morire:
se dovessi mille volte nascere,
là vorrei nascere,
vicino all’araucaria selvaggia,
al forte vento che soffia dal Sud.
Nessuno pensi a me.
Pensiamo a tutta la terra, battendo
dolcemente le nocche sulla tavola.
Io non voglio che il sangue
torni ad inzuppare il pane, i legumi, la musica:
ed io voglio che vengano con me
la ragazza, il minatore, l’avvocato, il marinaio, il fabbricante di bambole
e che escano a bere con me il vino più rosso.
Io qui non vengo a risolvere nulla.
Sono venuto solo per cantare
e per farti cantare con me.

🕊

Ma l’amore…

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Ma l’amore, noL’amore mio non puòDisperdersi nel vento, con le rose…

*

Avremo letti pieni d’odori leggeri,
divani profondi come avelli
e strani fiori sulle mensole,
schiusi per noi sotto cieli più belli.

Consumando a gara i loro estremi ardori,
i nostri due cuori saranno due grandi torce
che rifletteranno i loro duplici splendori
nelle due nostre anime, questi specchi gemelli.

In una sera fatta di rosa e di mistico azzurro
ci scambieremo un unico lampo
come un lungo singhiozzo, tutto carico d’addio;

e più tardi un angelo, aprendo le porte,
verrà a rianimare, fedele e giocoso,
gli offuscati specchi e le fiamme morte.

Charles Baudelaire, La morte degli amanti

***

Il nostro amore è come Bisanzio
deve essere stata
l’ultima sera. Deve esserci stato
immagino
un riflesso sui visi
di quelli che affollavano le vie
o stavano in gruppetti
negli angoli di strada e nelle piazze
e parlavano insieme a bassa voce
doveva somigliare a quel riflesso
nel viso tuo
quando te ne scosti i capelli
e mi guardi.

Immagino che non abbiano parlato
molto, e di cose
del tutto indifferenti,
che abbiano tentato di parlare
e si siano arrestati
senza aver detto ciò che desideravano
e abbiano tentato ancora
e rinunziato ancora
e si siano guardati
e chinato lo sguardo.

ntichissime icone per esempio
portano quel riflesso
come il riflesso d’una città in fiamme
o quel riflesso che una morte imminente
lascia sulle fotografie dei morti giovani
nella memoria dei sopravvissuti.

Quando mi volto verso di te
nel letto, ho l’impressione
d’entrare in una chiesa
che è bruciata
da molto tempo
e dove il buio negli occhi delle icone
è rimastocolmo di quelle fiamme che li cancellarono.

Henrik Nordbrandt, Il nostro amore è come Bisanzio

***

Ora che sei venuta,
che con passo di danza sei entrata
nella mia vita
quasi folata in una stanza chiusa –
a festeggiarti, bene tanto atteso,
le parole mi mancano e la voce
e tacerti vicino già mi basta.
Il pigolìo così che assorda il bosco
al nascere dell’alba, ammutolisce
quando sull’orizzonte balza il sole.

Ma te la mia inquietudine cercava
quando ragazzo
nella notte d’estate mi facevo
alla finestra come soffocato:
che non sapevo, m’affannava il cuore.
E tutte tue sono le parole
che, come l’acqua all’orlo che trabocca,
alla bocca venivano da sole,
l’ore deserte, quando s’avanzavan
puerilmente le mie labbra d’uomo
da sé, per desiderio di baciare…

Camillo Sbarbaro, Ora che sei venuta

*

In apertura, estratto dal brano di Lina Termini

Rileggendo tre poesie di Adonis

Adonis, tre poesie

(pseudonimo di Alī Ahmad Saʿīd Isbir, 1º gennaio 1930), poeta e saggista siriano.

IL SOGNO

Sogno dentro la mia mano un tizzone
sull’ala d’aria d’uccello giunto
d’avventuroso punto
la fiamma odoro – Cartagine dei tempi
la donna scorgo nella fiamma
nave divenne il suo canto si dice;
vi scorgo una donna – vittima del destino.
Sogno che il petto tutto è un tizzone
il suo incenso mi abbranca e mi accompagna verso Ba’albek
Ba’albek è scannata,
lì si dice un uccello la testa ha perso alla sua morte
si disse, in nome del suo mattino in nome di una nuova sorte, si incendia
della sua messe il sole e l’orizzonte.

.

LE STELLE

Cammino e dietro camminano le stelle
verso il domani delle stelle
l’enigma, la morte, quel che fiorisce e la fatica
sfinisce i passi fanno sangue di me esangue
sono cammino non iniziato
non vi è giacimento a vista –
cammino verso me stesso
quel che verrà a me stesso
cammino e dietro camminano le stelle.

.

IL NUOVO NOE’

1

Con l’arca e i remi partimmo,
nel fango e la pioggia, di Dio la promessa,
viviamo e l’uomo muore
Sull’onda e il vuoto partimmo
era una catena di morti cui le vite legammo,
e tra noi e il cielo aprimmo
una finestra per chiamare:
“Oh Dio, perché solo noi poi salvasti
fra tutti gli esseri gli uomini al mondo?
Ci butti dove, aldilà,
nella nostra terra di prima?
su foglie morte alito di vita?
Dentro di noi, Dio, nelle nostre arterie
c’è paura del sole non c’è speranza di luce
né fede di domani
di nuovo la vita cominceremo.
“Oh, senza essere semi
di generazioni, terra, e creato,
se fossimo rimasti mota
o brace di fuoco, a metà fra i due
per essere ciechi al mondo
per non vedere l’inferno, due volte, e Dio”.

2

Se ritornasse l’inizio del tempo
l’acqua arrivata al volto della vita
il tremito la terra e Dio chiedesse:
– Noè, salva i viventi – Non lo ascolterei,
all’arca andrei tolti i sassi
e la mota dalle orbite dei morti
al diluvio le viscere svuotando
bisbigliando dentro le loro vene
che dallo morire siamo tornati, fuori dalla caverna,
il cielo degli anni abbiamo rifatto
e dritto navighiamo, non torniamo,
per paura indietro, sordi alla parola di Dio
la morte è il nostro appuntamento, sponda
il tormento di cui intimi e paghi siamo,
un gelido mare dall’acqua di ferro
solchiamo verso la fine,
sordi a quel io ce ne andiamo
diverso da lui, un Dio nuovo cerchiamo.

*

da Adonis, Nella pietra e nel vento (Mesogea 1999; trad. e cura Francesca Corrao) – Per questi versi si ringrazia il sito casadellapoesia.org

Due poesie di Thomas Tranströmer

Due poesie di  Tomas Tranströmer (1931-2015, Nobel per la letteratura 2011)

*

Faccia a faccia 

In febbraio la vita era immobile.
Gli uccelli non volevano volare e l’anima
grattava il paesaggio come una barca
gratta il pontile cui è ormeggiata.

Gli alberi mi voltavano le spalle.
La profondità della neve si misurava dai morti fili d’erba.
Le tracce i superficie invecchiavano.
Sotto in telo la lingua moriva.

Un giorno giunse qualcosa alla finestra.
Il lavoro si arrestò ed io alzai lo sguardo.
I colori ardevano. Tutto si voltò.
La terra ed io balzammo l’una contro l’altro.

~

Sfere di fuoco

Nei mesi oscuri la mia vita scintillava
solo quando ti amavo.
Come la lucciola si accende e si spegne, si accende e si spegne,
– dai bagliori si può seguire il suo cammino
nel buio della notte tra gli ulivi.

Nei mesi oscuri l’anima stava rannicchiata
e senza vita
ma il corpo veniva dritto verso di te.
Il cielo notturno mugghiava.
Furtivi mungevamo il cosmo e siamo sopravvissuti.

(traduzione di Maria Cristina Lombardi)

Philip Morre, una poesia con traduzione

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Piliph Morre, una poesia con traduzione 

*

Grey Blues

The colour of your absence is rather
an absence of colour, the no-colour
of soldiering on, getting through
– this day and the next – of making do.

Call it grey if you must, the schwa
of colours, say a washed-out grisaille,
say cinereal – and no such thing as a
silver lining: cloud-cover’s here to stay.

I used to see you as the intensest
seam of luck in my life’s bleu-de-travail,
less reason-for-living than recompense:
the gods’s apology for the hoax they play!

They’re still up there, riffling the packs
on their holiday mountain, bickering
over who gets to cruise this evening
in the swan costume, sleeving the jacks …

And you? I can’t even say for certain
what country you’re in: but just yesterday
saw your blue coat through the rain-curtain
hiking the headland, not heading this way.

*

Grey Blues

Il colore della tua assenza è piuttosto
un’assenza di colore, il non-colore
del tirare avanti, del far passare
– domani e dopodomani – del far bastare.

Chiamalo grigio se vuoi, lo schwa
dei colori, chiamalo grisaglia sbiadita –
o cinereo – e non pretendiamo nemmeno
che dopo la pioggia venga sempre il sereno.

Ti vedevo come la più sgargiante rifinitura
nel bleu-de-travail della mia vita,
non tanto ragione-di-vita quanto ricompensa;
le scuse degli dei per lo scherzo che tirano!

Sono ancora lassù, loro, in quel villaggio olimpico,
a mescolare le carte, a bisticciare – a chi toccherà
rimorchiare in costume da cigno stasera?
– mentre infilano i fanti nelle maniche …

E tu? Non so neanche dire per certo
in che paese ti trovi: ma giusto ieri ho visto
la tua giacca blu attraverso una cortina di pioggia
scarpinare sul promontorio, non in questa direzione.

*

Traduzione di Giorgia Sensi e Philip Morre — per questi versi si ringrazia il sito Interno Poesia, che ha pubblicato uno dei due libri tradotti in italiano di questo autore britannico contemporaneo. 

Czesław Miłosz, due poesie

AnGre luglio 2019 - Massafra vecchia

Czesław Miłosz, due poesie

Prefazione

Tu, che non ho potuto salvare,
ascoltami,
cerca di capire questo linguaggio semplice, mi vergognerei di un altro,

non possiedo, lo giuro, la magia della parola,
ti parlo tacendo, come una nuvola a un albero,

ciò che fortificava me, per te era mortale,
hai scambiato il congedo di un’epoca per l’inizio di una nuova,

l’afflato dell’odio per bellezza lirica,
la forza cieca per forma compiuta.

Ecco la valle dei bassi fiumi polacchi. E il ponte enorme
che avanza nella bianca nebbia. Ecco la città infranta
e il vento scaglia contro la tua tomba gli stridi dei gabbiani,
mentre parlo con te.

Cos’è la poesia che non salva
i popoli né le persone?
Una complicità di menzogne ufficiali,
una cantilena di ubriachi, a cui fra un attimo verrà tagliata la gola,
una lettura per signorinette.

Che volevo una buona poesia, senza esserne capace,
che ho capito, tardi, il suo fine salvifico,
questo, e solo questo, è la salvezza.

Spargevano sulle tombe miglio e semi di papavero
per nutrire i morti accorrenti in volo – gli uccelli,
depongo qui questo libro per te, o trascorso,
perché d’ora innanzi tu smetta di apparirci.

~

La speranza c’è, quando uno crede
che non un sogno, ma corpo vivo è la terra,
e che vista, tatto e udito non mentono.
E tutte le cose che qui ho conosciuto
son come un giardino, quando stai sulla soglia.

Entrarvi non si può. Ma c’è di sicuro.
Se guardassimo meglio e più saggiamente
un nuovo fiore ancora e più d’una stella
nel giardino del mondo scorgeremmo.

Taluni dicono che l’occhio ci inganna
e che non c’è nulla, sola apparenza.
Ma proprio questi non hanno speranza.
Pensano che appena l’uomo volta le spalle
il mondo intero dietro a lui più non sia,
come da mani di ladro portato via.

*

Poesie (Adelphi), traduzione di Pietro Marchesani — ph.AnGre, arcobaleno a Massafra.