Rileggiamo l’opera: Maestà di Santa Trinita di Firenze – sassi d’arte

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Cimabue, Maestà di Santa Trinita (1270)

tempera su tavola, cm 385 x 223 – Galleria degli Uffizi, Firenze

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 “In questa tavola, che secondo la tradizione Cimabue realizzò per la chiesa di Santa Trinita di Firenze e oggi conservata agli Uffizi, troviamo alcuni dei maggiori traguardi raggiunti dal maestro fiorentino. Essa è stata realizzata tra il 1280 e il 1290, in una fase quindi molto matura del percorso artistico di Cimabue. Il tema della Maestà in trono è molto diffuso in tutta la pittura del Duecento italiano, ed è una delle composizioni che, nella sua immanente ieraticità, più risente della influenza dello stile bizantino, dal quale i pittori italiani cercano di distaccarsi. Ed anche questa tavola del Cimabue risente dei grandi precedenti bizantini, conservandone alcuni tratti stilistici, in particolare la visione frontale, l’uso molto esteso del colore oro, nonché le lumeggiature dorate che utilizza per la veste della Madonna.

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 Ma la grande novità di questa pala d’altare sta soprattutto nella straordinaria costruzione spaziale, che viene impostata secondo una composizione del tutto inedita per il tempo. La Madonna siede su un trono che è quasi un’architettura, con il suo ritrarsi in una forma convessa, lasciando aprire al di sotto tre campate dal quale si affacciano quattro profeti. Nel suo complesso, questo trono così articolato sembra quasi la sezione di una cattedrale a tre navate, e non è quindi da escludere il significato simbolico del trono sul quale la Madonna siede e che quindi rappresenta la Chiesa. Nelle tre nicchie sottostanti al trono si affacciano quattro profeti: ai due lati abbiamo Geremia e Isaia (il primo è quello a destra guardando), mentre nella nicchia centrale vi sono Abramo e David che rappresentano la dinastia dalla quale è disceso Gesù.

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 Ai lati della Madonna e del Bambino ci sono quattro angeli per parte, la cui collocazione spaziale appare decisamente inedita. Gli angeli non sono semplicemente uno sopra l’altro, ad occupare in verticale lo spazio ai lati del trono: ma appaiono come sfalsati in profondità. È questa la prima volta che ciò accade, con l’evidente intento di dare profondità spaziale all’intera costruzione spaziale dell’immagine. Del resto anche i due profeti Geremia e Isaia, nelle due nicchie in basso, con il loro alzare lo sguardo verso l’alto, già suggeriscono delle direzioni spaziali che sono di precisa tridimensionalità: essi non stanno “sotto” ma “davanti”. Quindi lo spazio non è pensato e realizzato sulla bidimensionalità della tavola, ma sulla scatola spaziale che visivamente avvertiamo oltre il piano della rappresentazione.491px-Cimabue_035 Il percorso della successiva arte italiana è così tracciato: in Giotto, e in tutti i suoi seguaci, il piano di rappresentazione diviene sempre più trasparente per aprirsi ad uno spazio virtuale, e tridimensionale, oltre il piano sul quale giace materialmente l’immagine.”

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Nota – Il pittore fiorentino Cenni di Pepo soprannominato Cimabue fu uno dei principali protagonisti della pittura italiana della fine del Duecento, così come ci testimonia anche Dante in un famoso passaggio della Divina Commedia (Credette Cimabue ne la pittura / tener lo campo, e ora ha Giotto il grido, / sì che la fama di colui è scura – Purg. XI, 94-96). Poche le notizie della sua vita: la sua attività è documentata tra il 1272 e il 1302. Secondo il Vasari fu egli il primo pittore italiano a distaccarsi dallo stile bizantino per dar vita al nuovo linguaggio pittorico italiano. In realtà Giorgio Vasari tendeva a sopravvalutare la portata storica del contributo fiorentino al rinnovamento pittorico italiano, mentre la presenza a Roma di Cimabue nel decennio ’70 lo colloca in stretto rapporto con l’ambiente pittorico romano dominato in quegli anni dalle figure di Pietro Cavallini e Jacopo Torriti. Fondamentali alla formazione di Cimabue furono anche due pittori fiorentini quali Coppo di Marcovaldo e Giunta Pisano, i cui modi tardo bizantini furono proprio il punto di partenza dell’evoluzione stilistica di Cimabue.

Ma la pittura del maestro fiorentino se ne distaccò per due parametri fondamentali: la maggiore resa volumetrica delle figure attraverso un chiaroscuro di grande forza plastica e la ricerca di una umanizzazione delle figure che rompe definitivamente con la ieraticità delle immagini bizantine.

Non molte le sue opere pervenutici, alcune delle quali rovinate anche da recenti eventi, quale l’alluvione a Firenze del 1966 che produsse gravi danni al suo Crocefisso della Chiesa di Santa Croce. Diverse le sue opere su tavola, mentre la sua produzione ad affresco si concentra nei lavori eseguiti per le due basiliche di San Francesco ad Assisi. 

[tratto da Storia dell’Arte, dal Gotico al Barocco; per questo articolo si ringrazia francescomorante.it – immagini dal web]

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Stabat Mater

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Tiziano Vecellio, Mater Dolorosa (1550-1555), Museo del Prado, Madrid

Stabat Mater è una sequenza liturgica in onore della Madonna, trasmessa in molte redazioni e presto accolta in vari messali (dalla metà del 14° sec.), fino a essere inserita nel Messale romano da Benedetto XIII (1727). Quasi certamente ne è autore Iacopone da Todi. Composta da due coppie di ottonari rimati, ciascuna delle quali seguita da un senario sdrucciolo, può essere rappresentata anche sotto forma di azione scenica. Fra le realizzazioni polifoniche o concertanti del testo si ricordano quelle di J. Desprez, G. Pierluigi da Palestrina, O. di Lasso, E.R. Astorga, A. Vivaldi, A. e D. Scarlatti, G.B. Pergolesi, L. Boccherini, F.J. Haydn, F. Schubert, G. Rossini, G. Verdi, A. Dvorak, K. Szymanowski, F. Poulenc, K. Penderecki. [Enciclopedia Treccani]

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Warsztat Krakowski, Pietà di Tubadzin (1450), Museo Nazionale di Varsavia

Stabat Mater (dal latino per Stava la madre) è una preghiera – più precisamente una sequenza – cattolica del XIII secolo quasi certamente attribuita a Jacopone da Todi. La prima parte, che inizia con le parole Stabat Mater dolorosa (“La Madre addolorata stava”) è una meditazione sulle sofferenze di Maria, madre di Gesù, durante la crocifissione e la Passione di Cristo. La seconda parte della preghiera, che inizia con le parole Eia, mater, fons amóris (“Oh, Madre, fonte d’amore”) è, invece, una invocazione in cui l’orante chiede a Maria di renderlo partecipe del dolore provato da Maria stessa e dal Cristo.

È recitata in maniera facoltativa durante la messa dell’addolorata (15 settembre) e le sue parti formano gli inni latini della stessa festa. Prima della Riforma liturgica era utilizzata nell’ufficio del venerdì della settimana di passione (Madonna dei sette dolori – venerdì precedente la Domenica delle Palme). Ma popolarissima era soprattutto perché accompagnava il rito della Via Crucis e la processione del Venerdì santo. Un canto amatissimo dai fedeli, non meno che da intere generazioni di musicisti colti. (dal web)

(c) Dulwich Picture Gallery; Supplied by The Public Catalogue Foundation
Guido Reni, Mater dolorosa, XVII sec., Dulwich Picture Gallery, Londum pendébat Fílius.iuxta crucem lacrimósa,

C’era una volta la macchina delle Quarantore di Santa Maria dell’orto in Trastevere

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Antiche testimonianze di fede nella Roma moderna: la macchina delle Quarantore di Santa Maria dell’orto in Trastevere a cura di Giorgio Chiantini.

Il giovedì santo, nel cuore della Roma più popolare, si rivive ancora oggi un antico rito di devozione: nel quartiere di Trastevere, più precisamente presso la chiesa di Santa Maria dell’orto, dopo la messa in Coena Domini, che ricorda le ultime vicende umane di Cristo, si dà vita alla così  detta “macchina delle Quarantore” in ricordo del tempo trascorso, secondo la tradizione cristiana, dall’uomo della croce nel sepolcro in attesa della risurrezione.

Questo antico rito si colloca nella tradizione dei “Sepolcri”, come vengono denominati in molti paesi d’Italia, gli altari (detti “della reposizione” in questo specifico caso) delle chiese che, dopo la celebrazione della messa del giovedì santo, rimangono allestiti con fiori e luci nel ricordo del sepolcro che ospitò il corpo di Gesù, custodendo nel tabernacolo le specie eucaristiche fino alla celebrazione della Pasqua.

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Nella Quaresima dell’anno 1177 il Pontefice, recatosi a Venezia ad un convegno con l’imperatore Barbarossa, ricevette la visita dell’Arcivescovo di quella città, accompagnato da alcuni fedeli i quali gli chiesero di voler arricchire di indulgenze il devoto esercizio che essi intendevano compiere pregando per quaranta ore davanti al SS. Sacramento chiuso in un tabernacolo dal mattino del Giovedì al mezzogiorno del Sabato Santo. Il Pontefice acconsentì alla richiesta, permettendo che in tale circostanza il SS.mo Sacramento venisse esposto alla vista del popolo contro la consuetudine universale mantenuta fino ad allora, per la quale la sacra Ostia, anche nelle adorazioni solenni, non veniva mai esposta alla vista dei fedeli; consuetudine di cui rimane la testimonianza nella esposizione solenne del Giovedì Santo, comunemente chiamata “Il Sepolcro”.

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Nel XIII secolo a questa pratica religiosa si dava il nome di Oratio quadraginta horarum e rientrava nell’uso di esporre il SS. Sacramento all’adorazione dei fedeli per quaranta ore; dall’indagine storica si rilevano due forme di esposizione delle Quarantore (ostia consacrata): un turno annuale ininterrotto d’adorazione di chiesa in chiesa ed una forma sporadica, legata solo ad alcuni momenti particolari dell’anno, tra i quali vi era proprio l’inizio della Settimana Santa, legato tradizionalmente al precetto pasquale annuale a cui si riferisce anche quella in uso nella chiesa trasteverina.

Diverse erano le forme di rappresentare l’esposizione, da quelle scarne ed essenziali dei Cappuccini, a quelle più impegnative ed evidenti dei Gesuiti, i quali usavano esibire sfarzose “macchine”, ovvero supporti costruiti appositamente con forme e significati precisi. Da Luigi Huetter apprendiamo che “…nell’Ottocento primeggia la “Macchina” di S. Maria dell’Orto in Trastevere; gentile trionfo di girali frondosi e fioriti i quali salgono gradatamente spingendo le loro volute severe sopra il solenne altar maggiore”. La “Macchina” veniva affettuosamente ed orgogliosamente montata dai “fratelli” facenti parte dell’omonima Arciconfraternita istituita da papa Alessandro VI nel 1492 . Ancora oggi la cerimonia si svolge la sera del “Giovedì Santo”, con l’accensione di 213 candele che danno al luogo sacro una suggestione indimenticabile nel chiaroscuro degli innumerevoli stucchi settecenteschi e nello scintillio di tutti gli ori tremolanti alla luce dei ceri.

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La “macchina delle Quarantore” ha struttura ottocentesca (su disegno però seicentesco, a motivi  floreali) di legno intagliato e dorato, e rende ancora oggi viva, forse l’ultima manifestazione del genere allestita in Italia, grazie ai “fratelli” che tengono accesa la tradizione seicentesca l’ultima, si dice, che sia rimasta in vita conservando la propria originaria integrità. L’archivista Nino Becchetti scrive “… Superbo ed artistico lavoro di intaglio in legno dovuto allo scalpello di maestro Luigi Clementi che lo costruì nell’anno 1848 ‘tanto nell’intaglio quanto nel disegno ‘ e che comportò, all’Arciconfraternita di Maria SS. Dell’Orto, la spesa di ‘500 scudi più altri 50 per l’indoratura in oro zecchino’ “.

[fonti varie, immagini dal web]

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[5\4\2023] Dalla chiesa di S. Maria dell’orto in Roma, un membro dell’arciconfraternita, che si occupa tra l’altro anche della funzione del giovedì santo con la “Macchina delle Quarantore”, ha riferito proprio all’autore dell’articolo, che aveva telefonato per chiedere in merito, che, purtroppo, quella funzione, non verrà più proposta, poiché la macchina di legno tenero, dopo più di duecento anni, è talmente usurata, colma di chiodi nel tentativo di mantenerla in forma, colla e fil di ferro che è diventato pericoloso adoperarla ancora. L’ultima volta hanno rischiato un incidente. Perciò, ha aggiunto, con molto rammarico sono costretti a porre fine a questa tradizione.

Confidiamo in un restauro degno dell’opera, nella speranza di poter ancora e presto assistere ad una delle meravigliose tradizioni di questa nostra Italia Bella. 

La Domenica delle Palme

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Nel calendario liturgico cattolico la Domenica delle palme è celebrata la domenica precedente quella di Pasqua e con essa ha inizio la settimana santa. Nella forma ordinaria del rito romano essa è detta anche domenica De Passione Domini (della passione del Signore) ed è una festività osservata non solo dai cattolici, ma anche dagli ortodossi e dai protestanti (ovvero le religioni che riconoscono Cristo).

In questo giorno la Chiesa ricorda il trionfale ingresso di Gesù in Gerusalemme in sella ad un asino, osannato dalla folla che lo salutava agitando rami di palma. La folla, radunatasi a voce per l’arrivo di Gesù, stese a terra i mantelli, mentre altri tagliavano rami dagli alberi intorno e, agitandoli festosamente, gli rendevano onore.

In ricordo di questo, la liturgia della Domenica delle palme, si svolge iniziando da un luogo al di fuori della chiesa, dove si radunano i fedeli e il sacerdote benedice i rami di ulivo o di palma portati dai fedeli stessi; quindi si procede in processione fino all’interno della chiesa, continuando la celebrazione della messa con la lettura della Passione di Gesù. Il racconto della Passione viene letto da tre persone che rivestono la parte di Cristo (letta dal sacerdote), dello storico e del popolo.

In questa Domenica il sacerdote, a differenza delle altre di quaresima (in cui veste di colore viola, che indica penitenza, richiamo alla conversione e alla stessa penitenza e che si usa in Avvento e in Quaresima, ma anche durante la celebrazione delle Messe dei defunti) indossa paramenti di colore rosso (colore che indica il sacrificio sulla croce di Gesù e la divinità dello Spirito Santo, ma anche il sangue sparso dai Santi Martiri; si usa la Domenica delle Palme, appunto, il Venerdì Santo, a Pentecoste, nelle feste degli Apostoli e dei Martiri e per la Messa della Cresima).

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nell’immagine: Giotto, Scene dalla vita di Cristo, Entrata in Gerusalemme, affresco databile 1303-1305, Cappella degli Scrovegni, Padova: da sinistra Gesù avanza a cavallo di un asino verso le porte di Gerusalemme, seguito dagli Apostoli e facendosi incontro a una folla incuriosita: chi si prostra, chi accorre a vedere, chi è sorpreso, ecc. Sebbene la stesura denoti un’autografia non piena dell’episodio, la scena spicca come una delle più vivacemente naturali del ciclo, con una serie di episodi interni tratti dalla vita quotidiana, come quello dell’uomo che si copre la testa col mantello (un’azione goffa o un simbolo di chi non vuole accettare l’arrivo del Salvatore?) oppure i due fanciulli che salgono sugli alberi per staccare i rami d’ulivo da gettare al Salvatore e per vedere meglio, dettaglio derivato dalla tradizione bizantina, ma qui più realistico che mai. [fonti varie]

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Rileggiamo l’opera: Evoluzione – sassi d’arte

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Piet Mondrian, Evoluzione (1910 – 1911)

Tra il 1910 e il 1911 il pittore olandese Piet Mondrian (Pieter Cornelis Mondriaan Jr. 1872-1944) dipinse il trittico “Evoluzione” legato a stilemi simbolisti; dal 1908 (e fino al 1911, quando si trasferirà a Parigi) ebbe residenza a Domburg, assieme a Jan Toorop, e proprio l’incontro con l’artista e la lettura di testi teosofici lo convinceranno che è illuminato da Dio e intimamente unito a questi.

In questo dipinto, che rappresenta l’adesione di Mondrian alla dottrina mistico-filosofica della teosofia, è rappresentato il processo di evoluzione spirituale necessario all’uomo per accedere a quella “vera comprensione” teorizzato dalla teosofia stessa. La dottrina proclamata dalla Società teosofica fondata nel 1875 a New York affermava l’origine unica di tutte le religioni, l’eguaglianza di tutti gli uomini, la possibilità di arrivare alla conoscenza della verità, riservata a pochi adepti, non con la sola ragione ma per mezzo di rivelazioni, di esperienze mistiche e di un determinato modo di vivere, fu fortemente influenzata da elementi di derivazione indiana.

piet mondrian evoluzioneNel dipinto “Evoluzione” si possono rintracciare i rapporti di Mondrian con l’intero complesso delle dottrine teosofiche, secondo cui il mondo è concepito come un tutto unitario, retto da leggi e principi matematici in cui i poli opposti – principio maschile e femminile, oppure spirito e materia – tendono alla ricomposizione e all’armonia cosmica. 

Il trittico “Evoluzione” va letto partendo dalla figura di sinistra, per poi passare a quella di destra e, infine, a quella centrale; la stessa forma del trittico, diffusa nell’area simbolista, potrebbe essere stata suggerita da un passo del testo “Iside svelata” (1877) di Helena Blavatskij (fondatrice della teosofia), in cui si parla di tre spiriti che vivono nell’uomo: lo spirito terrestre, lo spirito delle stelle e lo spirito divino. piet mondrian evoluzione - Copia (2)Simbolici sono i passaggi di colore della figura della donna (dal verde al blu, il colore spirituale) in cui si attua la fusione di elemento maschile (spirituale) e femminile (materiale), cui allude Mondrian nei “Taccuini”. Simbolico è anche il passaggio dai due fiori posti ai lati del volto, alle figure geometriche ed anche dal colore rosso (corrispondente, per Steiner – filosofo, pedagogista, esoterista, artista e riformista sociale austriaco – all’amore divino, ma ancora espresso secondo una concezione terrena) al giallo e al bianco, quindi alla massima luminosità, espressione del divino.

piet mondrian evoluzione - CopiaLa donna a sinistra nel trittico, fiancheggiata da due amarillis rossi – simbolo di sensualità – è l’incarnazione dello spirito terrestre; ha il volto indietro e gli occhi chiusi, perché lo spirito terrestre da solo non permette la comprensione del mondo. A destra, è posta la donna con le stelle a sei punte (il doppio triangolo, simbolo della teosofia, emblema della perfezione), che rappresenta lo spirito stellare, il quale possiede un grado più alto di comprensione rispetto allo spirito terrestre; infine, al centro, la figura circondata dalla luce bianca, rappresenta lo spirito divino dagli occhi aperti e dalla maggiore intensità luminosa, che indicano la conquistata visione di una verità superiore. Quest’ultimo elemento, la figura centrale a occhi aperti di “Evoluzione”, è stato messo in rapporto con la concezione di Steiner secondo cui la visione spirituale avverrebbe in condizione di piena coscienza e non in stato di trance o di ipnosi. (by AnGre – fonti varie e immagini dal web)

Rileggiamo l’opera: Da dove veniamo? Cosa siamo? Dove andiamo? – sassi d’arte

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Paul Gauguin, Da dove veniamo? Cosa siamo? Dove andiamo?

(1897 – 1898) olio su tela, cm 139 x 374 – Boston, Boston Museum of Art

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Testamento artistico e spirituale dell’artista, la tela è una sintesi dei temi della sua pittura e della sua visione del mondo. Prima di affrontare il dipinto vero e proprio, esegue vari disegni. Lavora quindi giorno e notte, febbrilmente per oltre un mese e a luglio spedisce il quadro a Parigi. Il dipinto impressiona i critici per le soluzioni stilistiche e il profondo simbolismo.

L’opera può essere interpretata come una metafora della vita, dall’infanzia alla vecchiaia, ma anche una meditazione sul suo senso, un confronto tra la natura e la ragione, rappresentata dalle due donne in atteggiamento pensoso. Le figure sono disposte nel paesaggio con un andamento che ricorda i fregi antichi e i grandi cicli di affreschi dei palazzi rinascimentali. Gauguin le riprende da dipinti precedenti, ma conferisce loro un significato differente. La presenza dell’idolo blu e degli animali è stata variamente interpretata, in particolare “lo strano uccello bianco con una lucertola tra le zampe, che sta a significare la vanità tra le parole”.

Benché egli tenda a precisare che “è buttata giù di getto, in punta di pennello”, la tela compendia di fatto una serie di elementi già trattati separatamente in diversi dipinti, che vengono così a costituire altrettanti abbozzi di un’unica creazione protrattasi per parecchi anni e infine concretizzata in questa complessa e  imponente composizione. [Elena Ragusa]

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Paul Gauguin - Autoritratto con cappello (1893-1894)
Paul Gauguin – Autoritratto con cappello (1893-1894)

tratto dal saggio “Il primitivo moderno” di Vittorio Sgarbi: “Gauguin ha cercato nell’arte non solo una ragione estetica, ma anche una ragione esistenziale. Partito a fianco degli impressionisti, Gauguin al culmine della maturità, decide di rifugiarsi o di ritrovarsi in una zona lontana dal mondo “evoluto”, a Tahiti, interrompendo i rapporti con la propria civiltà. Nessuno prima di lui aveva cercato nella vita quotidiana, non più soltanto nell’arte, l'”evasione” con una scelta tanto radicale nelle sue conseguenze pratiche.

E’ l’esito estremo di una visione romantica nel rapporto tra arte e società che interpreta la prima come coscienza necessariamente critica, eversiva dalla seconda. Con Gauguin l’artista diventa perfetto intellettuale, libero pensatore, profeta di un mondo migliore nel nome dello spirito e del bello. Ma Gauguin non è stato un iniziatore solo in questo senso, essendo le sue scelte di vita profondamente legate a quelle estetiche. Per primo intuisce che le ricerche di Van Gogh, di Cézanne e di tutti gli artisti più avanzati sono tanto progredite in quanto vanno verso una riduzione della forma alla sua essenza espressiva, il cosiddetto “primitivo”.

[…] Ricominciare vuol dire allora tornare alle origini della civiltà, quando mito, simbolo e filosofia si concretizzavano nei significati dell’opera artistica e Gauguin è stato il primo, come ha scritto René Huyghe, “a prendere coscienza della necessità di una rottura, perché potesse nascere un mondo moderno; il primo a sfuggire alla tradizione latina, disseccata, ossificata, moribonda, per ritrovare tra leggende barbare, le divinità primitive, l’impeto originario. Mentre l’arte occidentale aveva come proprio perno il noto, egli vi ha sostiutito l’ignoto…ha intuito le terre sommerse dell’anima, le loro intatte potenze in cui la civiltà decrepita e raffinata potrebbe ritemprarsi” (da Gauguin, I grandi maestri dell’arte – Skira)

Rileggiamo l’opera: Pinakes di Locri Epizefiri – sassi d’arte

a sinistra, pinax in terracotta, Locri V sec. a.C., Demetra e Ade in trono; a destra, Hermes e Aphrodite – Reggio Calabria,Museo Archeologico Nazionale

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I Pinakes, al singolare Pinax (in greco Πίνακες), sono dei quadretti votivi in terracotta, legno dipinto, marmo o bronzo tipici dell’antica Grecia. In Magna Grecia furono prodotti tra il 490 e il 450 a.C. principalmente nelle poleis di Rhegion e Locri Epizefirii ed è presso il Museo Archeologico Nazionale di Reggio Calabria che si trova oggi la vastissima collezione di questi reperti, rinvenuti sui luoghi del centro coloniale magno-greco di Locri Epizefirii.

I pinakes sono i più caratteristici ex-voto rinvenuti a Locri e costituiscono un complesso unico nel mondo greco per quantità, varietà e qualità e la gran quantità di pezzi ritrovata ha permesso di individuare più di 170 scene. Si tratta di tavolette in terracotta realizzate in serie grazie all’uso di matrici e arricchite di una vivace policromia, le quali recano scene a bassorilievo connesse al mito di Persefone e ai rituali del culto tributato alla dea nel santuario della Mannella. Donati alla dea dalle fanciulle di Locri in procinto di sposarsi, con l’intento di ingraziarsi la protezione divina in questo momento di transizione e di assicurarsi un’unione feconda, venivano probabilmente appesi, grazie ai fori di sospensione, alle pareti dei piccoli edifici di culto e forse anche agli alberi del recinto sacro. Quando il santuario subì una ristrutturazione, furono spezzati ritualmente, in modo da evitarne un sacrilego reimpiego, e scaricati in una stipe votiva.

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pinax: rapimento di Persefone

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Nei pinakes è innanzitutto rievocata la vicenda di Kore-Persefone, dal rapimento da parte di Hades al matrimonio con costui. Un nucleo consistente di scene ha come oggetto momenti del culto, in particolar modo l’atto rituale consistente nell’offerta: di animali, di fiori e di frutta, di un abito (il cosiddetto “peplo nuziale”) portato in processione, dei giochi infantili. Altre scene alludono ai preparativi delle nozze, come l’acconciatura e la vestizione della sposa, nonché la preparazione del letto nuziale. Un gruppo di pinakes, che prevede la riproduzione di un bambino entro una cesta, allude alla maternità, fine primario del matrimonio, mentre alla sfera della sessualità necessaria a tale scopo rimanda quel gruppo di scene che vede protagonista Afrodite.

Le raffigurazioni dei pinakes tuttavia non sono univoche, in quanto prevedono la comprsenza di tre livelli di lettura difficilmente distinguibili tra loro: si richiamano, infatti, le nozze sacre di Persefone e Hades; si allude alle cerimonie con cui nel santuario della Mannella queste erano rievocate; si fa riferimento ai complessi riti di iniziazione che accompagnavano le nozze dei locresi, vissute non come un fatto privato, ma come un momento fondamentale per l’intera comunità.

[testo tratto e adattato da R.Schenal Pileggi, I pinakes di Locri Epizefiri – Laruffa Editore]

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uno dei pinakes di Locri-Epizefiri

Poesie per non dimenticare

Pietre d'inciampo a Roma -ph.Giorgio Chiantini

Shemà di Primo Levi

Voi che vivete sicuri
nelle vostre tiepide case,
voi che trovate tornando a sera
il cibo caldo e visi amici:
considerate se questo è un uomo
che lavora nel fango
che non conosce pace
che lotta per mezzo pane
che muore per un sì o per un no.
Considerate se questa è una donna,
senza capelli e senza nome
senza più forza di ricordare
vuoti gli occhi e freddo il grembo
come una rana d’inverno.
Meditate che questo è stato:
vi comando queste parole.
Scolpitele nel vostro cuore
stando in casa andando per via,
coricandovi alzandovi;
ripetetele ai vostri figli.
O vi si sfaccia la casa,
la malattia vi impedisca,
i vostri nati torcano il viso da voi.

~

Aprile di Anna Frank

Prova anche tu,
una volta che ti senti solo
o infelice o triste,
a guardare fuori dalla soffitta
quando il tempo è così bello.
Non le case o i tetti, ma il cielo.
Finché potrai guardare
il cielo senza timori,
sarai sicuro
di essere puro dentro
e tornerai
ad essere Felice

~

Poesia di un ragazzo trovata in un Ghetto nel 1941

Da domani sarà triste, da domani.
Ma oggi sarò contento,
a che serve essere tristi, a che serve.
Perché soffia un vento cattivo.
Perché dovrei dolermi, oggi, del domani.
Forse il domani è buono, forse il domani è chiaro.
Forse domani splenderà ancora il sole.
E non vi sarà ragione di tristezza.
Da domani sarà triste, da domani.
Ma oggi, oggi sarò contento,
e ad ogni amaro giorno dirò,
da domani, sarà triste,
Oggi no.

~

La paura di Eva Picková

Di nuovo l’orrore ha colpito il ghetto,
un male crudele che ne scaccia ogni altro.
La morte, demone folle, brandisce una gelida falce
che decapita intorno le sue vittime.
I cuori dei padri battono oggi di paura
e le madri nascondono il viso nel grembo.
La vipera del tifo strangola i bambini
e preleva le sue decime dal branco.
Oggi il mio sangue pulsa ancora,
ma i miei compagni mi muoiono accanto.
Piuttosto di vederli morire
vorrei io stesso trovare la morte.
Ma no, mio Dio, noi vogliamo vivere!
Non vogliamo vuoti nelle nostre file.
Il mondo è nostro e noi lo vogliamo migliore.
Vogliamo fare qualcosa. E’ vietato morire!

~

Auschwitz di Salvatore Quasimodo 

Laggiù, ad Auschwitz, lontano dalla Vistola,
amore, lungo la pianura nordica,
in un campo di morte: fredda, funebre,
la pioggia sulla ruggine dei pali
e i grovigli di ferro dei recinti:
e non albero o uccelli nell’aria grigia
o su dal nostro pensiero, ma inerzia
e dolore che la memoria lascia
al suo silenzio senza ironia o ira.

Tu non vuoi elegie, idilli: solo
ragioni della nostra sorte, qui,
tu, tenera ai contrasti della mente,
incerta a una presenza
chiara della vita. E la vita è qui,
in ogni no che pare una certezza:
qui udremo piangere l’angelo il mostro
le nostre ore future
battere l’al di là, che è qui, in eterno
e in movimento, non in un’immagine
di sogni, di possibile pietà.
E qui le metamorfosi, qui i miti.
Senza nome di simboli o d’un dio,
sono cronaca, luoghi della terra,
sono Auschwitz, amore…

Da quell’inferno aperto da una scritta
bianca: “Il lavoro vi renderà liberi”
uscì continuo il fumo
di migliaia di donne spinte fuori
all’alba dai canili contro il muro
del tiro a segno o soffocate urlando
misericordia all’acqua con la bocca
di scheletro sotto le docce a gas.
Le troverai tu, soldato, nella tua
storia in forme di fiumi, d’animali,
o sei tu pure cenere d’Auschwitz,
medaglia di silenzio?

Restano lunghe trecce chiuse in urne
di vetro ancora strette da amuleti
e ombre infinite di piccole scarpe
e di sciarpe d’ebrei: sono reliquie
d’un tempo di saggezza, di sapienza
dell’uomo che si fa misura d’armi,
sono i miti, le nostre metamorfosi.
Sulle distese dove amore e pianto
marcirono e pietà, sotto la pioggia,
laggiù, batteva un no dentro di noi,
un no alla morte, morta ad Auschwitz,
per non ripetere, da quella buca
di cenere, la morte.

~

📸 in apertura: Pietre d’inciampo, foto di Giorgio Chiantini.

Rileggiamo l’opera: l’albero della vita – sassi d’arte

L’albero della vita, mosaico, 1118 c.a 

Roma, San Clemente, abside della basilica superiore

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A Roma, nei pressi del Colosseo, lungo la strada che sale gradualmente verso San Giovanni in Laterano, si trova una basilica intitolata a San Clemente I Papa, terzo successore di Pietro al soglio pontificio. L’opera architettonica risalente al IV secolo fu ampiamente devastata dai Normanni nel 1084; nel 1110, durante una fase particolarmente acuta della lotta alle investiture, allorché le nomine vennero nuovamente proibite, Papa Pasquale II ordinò che la chiesa fosse ricostruita sulle rovine della chiesa interrate della basilica precedente. Come se si trattasse di esorcizzare l’antico potere della Chiesa contro l’Impero, per la ricca decorazione interna della basilica ci si orientò verso reperti formali tratti dalle chiese paleocristiane; anzi, nel nuovo impianto furono integrati programmaticamente parecchi arredi della costruzione più antica (soprattutto suppellettili che vi erano state aggiunte nel V e nel VI secolo).

Anche un’opera nuova, che oggi eclissa tutto il resto, evoca sotto un certo aspetto l’arte paleocristiana. Parliamo del mosaico dell’abside, la cui composizione è dominata dalla croce. Il suo carattere fenomenico, che si manifesta mediante un meraviglioso tono di azzurro, richiama alla mente l’arte dello smalto. Maria e San Giovanni stanno ai lati della croce, ai cui piedi sgorgano i quattro fiumi del paradiso, ai quali si abbeverano i cervi. Scorgiamo, poi, la fenice, l’uccello fantastico che simboleggia l’immortalità. Dodici colombe bianche, che incarnano gli apostoli, occupano le assi verticale e trasversale della croce. In una nicchia ricavata dietro l’emblema della passione, è inserito un vero frammento della croce insieme ad altre reliquie (il mosaico assume perciò la funzione di stauroteca, reliquiario destinato ai frammenti della croce di Cristo). Sopra la croce si apre la volta celeste stellata, da cui scende la mano benedicente di Dio.

La decorazione vegetale fatta di incantevoli tralci di acanto ritorti, che riempie il catino absidale, rimanda al paradiso e identifica la croce come “l’albero della vita”; al contempo, l’intreccio dei tralci intorno al legno della croce regala vita e nutrimento a uomini e donne di ogni professione, anzi a ogni creatura. Tra le figure spiccano quattro personaggi vestiti semplicemente di bianco e nero, che rappresentano i padri della Chiesa latina, i santi Agostino, Gerolamo, Gregorio e Ambrogio. Il fregio sottostante, con l’Agnello dell’Apocalisse, ricorda nuovamente la Gerusalemme celeste e, poiché sopra l’arco di trionfo sono raffigurati i santi Pietro, Clemente, Paolo e Lorenzo e i profeti Geremia e Isaia, la resa visiva della redenzione include in sé anche la storia della Chiesa. In sintesi, il programma iconografico esaltava idealmente il Papa (sostenendo le pretese universalistiche della chiesa cattolica), il quale, in carne e ossa, sedeva in trono giù nell’abside.

Non a caso un simile messaggio era espresso a livello stilistico mediante il richiamo a modelli antichi. Gli artefici dell’opera ricordavano bene l'”impressionismo” che caratterizzava i mosaici romani del V secolo, quelli in Santa Pudenziana o in Santa Maria Maggiore e, come allora, accentuarono l’incarnato o il panneggio con strisce di tessere da mosaico di marmo bianco, circondate da frammenti di vetro neri e grigi (secondo l’antica tecnica romana).

Nei mosaici dei luoghi antichi paleocristiani comparivano anche scene di genere; le ritroviamo in San Clemente, arricchite con uccelli acquatici come quelli raffigurati un tempo lungo il bordo della cupola di Santa Costanza, con foglie di vite e grappoli d’uva disseminati qua e là e putti sgambettanti.

(tratto e adattato dal volume Romanico, Taschen Ed. – immagini dal web)

 

Vittorio Bodini, due poesie

9~Leuca - Faro di Punta Palascia

Vittorio Bodini, versi da La Luna dei Borboni e altre poesie (1945-1961)

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FOGLIE DI TABACCO (1945-1947)

Sulle pianure del Sud non passa un sogno.
Sostantivi e le capre senza musica,
con un segno di croce sulla schiena,
o un cerchio,
quivi accampati aspettano un’altra vita.
Tutto è evidenza e quiete, e si vedrebbe
anche un pensiero, un verbo,
con il bigio sgomento d’una talpa
correre tra due pietre.

La pianura mirare a perdita d’occhi,
senza case, senz’alberi, senza una lettera:
livello di un’assenza a cui sole si sporgono
capre o spettri di capre morte da secoli,
che brucano le amare giade dell’insonnia,
l’acciaio senza luce d’antiche spade,
quando popoli amari si scontravano
e di sangue tingevano i cieli della preistoria.

Così, se qualche giorno dal sottosuolo
un riso magro scatenato nel vento
di scirocco si stira,
ciò che all’imperturbato cielo e ai corvi
scopre la vanga
sono le dentature di cavalli
uccisi che si rammentano
che dolce festa faceva
quand’era vivo il sangue sulla pianura.

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LA LUNA DEI BORBONI (1950-1951)

Piano si staccano
i tocchi
da un orologio e nuotano
fra pioggia, vento e vetri di finestre.
Le terrazze tamburellano
come teli da tenda
e il grido dei fanciulli:«Aea!» si perde
nelle vie
come pei corridoi
d’un castello assediato.
Inverno assediatore
vecchiaia dell’anno,
mette angoscia nei sensi,
chiude il domani.

Ma lasciamo un momento questa città.
Andiamo nel sonno,
andiamo a vedere che succede.

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in apertura: Faro di Punta Palascìa, Otranto (LE)

Rileggiamo l’opera: Da dove veniamo? Cosa siamo? Dove andiamo? – sassi d’arte

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Paul Gauguin, Da dove veniamo? Cosa siamo? Dove andiamo?

(1897 – 1898) olio su tela, cm 139 x 374 – Boston, Boston Museum of Art

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Testamento artistico e spirituale dell’artista, la tela è una sintesi dei temi della sua pittura e della sua visione del mondo. Prima di affrontare il dipinto vero e proprio, esegue vari disegni. Lavora quindi giorno e notte, febbrilmente per oltre un mese e a luglio spedisce il quadro a Parigi. Il dipinto impressiona i critici per le soluzioni stilistiche e il profondo simbolismo.

L’opera può essere interpretata come una metafora della vita, dall’infanzia alla vecchiaia, ma anche una meditazione sul suo senso, un confronto tra la natura e la ragione, rappresentata dalle due donne in atteggiamento pensoso. Le figure sono disposte nel paesaggio con un andamento che ricorda i fregi antichi e i grandi cicli di affreschi dei palazzi rinascimentali. Gauguin le riprende da dipinti precedenti, ma conferisce loro un significato differente. La presenza dell’idolo blu e degli animali è stata variamente interpretata, in particolare “lo strano uccello bianco con una lucertola tra le zampe, che sta a significare la vanità tra le parole”.

Benché egli tenda a precisare che “è buttata giù di getto, in punta di pennello”, la tela compendia di fatto una serie di elementi già trattati separatamente in diversi dipinti, che vengono così a costituire altrettanti abbozzi di un’unica creazione protrattasi per parecchi anni e infine concretizzata in questa complessa e  imponente composizione. [Elena Ragusa]

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Paul Gauguin - Autoritratto con cappello (1893-1894)
Paul Gauguin – Autoritratto con cappello (1893-1894)

tratto dal saggio “Il primitivo moderno” di Vittorio Sgarbi: “Gauguin ha cercato nell’arte non solo una ragione estetica, ma anche una ragione esistenziale. Partito a fianco degli impressionisti, Gauguin al culmine della maturità, decide di rifugiarsi o di ritrovarsi in una zona lontana dal mondo “evoluto”, a Tahiti, interrompendo i rapporti con la propria civiltà. Nessuno prima di lui aveva cercato nella vita quotidiana, non più soltanto nell’arte, l'”evasione” con una scelta tanto radicale nelle sue conseguenze pratiche.

E’ l’esito estremo di una visione romantica nel rapporto tra arte e società che interpreta la prima come coscienza necessariamente critica, eversiva dalla seconda. Con Gauguin l’artista diventa perfetto intellettuale, libero pensatore, profeta di un mondo migliore nel nome dello spirito e del bello. Ma Gauguin non è stato un iniziatore solo in questo senso, essendo le sue scelte di vita profondamente legate a quelle estetiche. Per primo intuisce che le ricerche di Van Gogh, di Cézanne e di tutti gli artisti più avanzati sono tanto progredite in quanto vanno verso una riduzione della forma alla sua essenza espressiva, il cosiddetto “primitivo”.

[…] Ricominciare vuol dire allora tornare alle origini della civiltà, quando mito, simbolo e filosofia si concretizzavano nei significati dell’opera artistica e Gauguin è stato il primo, come ha scritto René Huyghe, “a prendere coscienza della necessità di una rottura, perché potesse nascere un mondo moderno; il primo a sfuggire alla tradizione latina, disseccata, ossificata, moribonda, per ritrovare tra leggende barbare, le divinità primitive, l’impeto originario. Mentre l’arte occidentale aveva come proprio perno il noto, egli vi ha sostiutito l’ignoto…ha intuito le terre sommerse dell’anima, le loro intatte potenze in cui la civiltà decrepita e raffinata potrebbe ritemprarsi” (da Gauguin, I grandi maestri dell’arte – Skira)

Riproponiamo: Rubens, Le conseguenze della guerra – sassi d’arte scelti da AnGre

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Rubens, Le conseguenze della guerra (1638)

olio su tela, cm 394 x 295 – Firenze, Galleria Palatina

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In una lettera inviata all’amico e pittore Justus Sustermans, Rubens descrive con grande precisione l’iconografia di quest’opera, che vuole essere un’invettiva contro la guerra e le sue atrocità, con particolare riferimento alla guerra dei Trent’anni, all’epoca in pieno svolgimento.

Los_horrores_de_la_guerraVenere, dea dell’Amore, alle cui morbide gambe si aggrappa Cupido, cerca inutilmente di trattenere Marte, trascinato invece dalla furia Aletto, che tiene una torcia in mano. Nella sua avanzata impetuosa, il gruppo schiaccia una madre che abbraccia il figlioletto, allusione alla prosperità delle nazioni, travolge una fanciulla con un liuto, personificazione della musica, e un uomo con un compasso e un capitello di marmo, personificazione dell’architettura.

I fogli strappati e sparsi sotto ai piedi di Marte alludono alla distruzione delle lettere e delle scienze umane. Alle spalle di Venere, Europa, vestita di nero, si dispera invano difronte al tempio di Giano, le cui porte aperte sono segno della guerra in corso. Accanto all’edificio siede un puttino, che tiene in mano il globo con la croce, simbolo dell’Europa unita sotto il segno del cristianesimo, lasciato momentaneamente in disparte dalla donna disperata.

[Rubens, I capolavori dell’arte – Corriere della sera]

Los_horrores_de_la_guerra

L’Annunciazione segreta di Giorgio Chiantini – sassi d’arte

Ph.GiorChi

Un luogo non è mai solo ‘quel’ luogo: quel luogo siamo un po’ anche noi.
In qualche modo, senza saperlo, ce lo portavamo dentro
e un giorno, per caso, ci siamo arrivati.
(Antonio Tabucchi)
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Sono venuto tante volte qui nella Basilica di S. Cecilia a Roma (Clicca QUI per leggere a riguardo e vedere i dettagli delle foto), in questo luogo magico tra gli affreschi che amo di Pietro Cavallini. Tuttavia non mi ero mai accorto che proprio quando sei davanti alla parete che li contiene, nel lato destro alle tue spalle e guardando nell’interno di un muro di contenimento, si può vedere ciò che rimane di una Annunciazione. Il periodo dovrebbe essere sempre lo stesso, quello del XIII secolo, ma la mano che l’ha eseguita certamente non è quella del Cavallini.
Ph.GiorChi 2022.
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L’anonimo autore, probabilmente da ricercare nella cerchia dei suoi aiuti, ha stile completamente diverso: non giottesco, come gli altri affreschi della parete, ma tardo gotico con i due soggetti che sembrano addirittura dipinti da mani diverse.
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L’arcangelo Gabriele, a prima vista, sembra realizzato rifacendosi agli angeli del Cavallini della parete principale e probabilmente l’aiuto potrebbe aver usato proprio un cartone già adoperato dal Maestro per copiarlo, non ottenendo certo gli stessi risultati. La Madonna, bella, composta e dall’aspetto elegante, appare legata ancora, nella sua composizione, alla tradizione gotica bizantina; le colorazioni cromatiche riprendono, invece, con la loro intensa vivacità, l’affresco principale (nella foto a lato, si può notare proprio il confronto con gli affreschi di Pietro Cavallini riportati sulla sinistra).
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Rimango affascinato da tutto questo e da come queste opere, dopo tanto tempo,  continuino ancora a parlare e a suggerire domande su chi e come abbia realizzato quei dipinti. Certo è che la bellezza e i segreti che ancora avvolgono questi affreschi e la capacità del Cavallini di aver realizzato tutto questo, probabilmente prima di Giotto (nel cantiere della Basilica francescana di Assisi la presenza di Pietro Cavallini è accertata e confermata), continua ad appassionare la Storia dell’arte, che su tanto prosegue a scrivere pagine inattese.
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Su questa Annunciazione (completa nella foto in basso, scattata nella obiettiva difficoltà della collocazione e corretta verticalmente, in quanto il punto di ripresa è distante in altezza dall’affresco) non ho potuto trovare, sia on line che sui testi d’arte in mio possesso, nulla di più di ciò che ho scritto. È benvenuto chiunque possa arricchire questo post  con  ulteriori spiegazioni e/o interpretazioni. [Giorgio Chiantini]
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Ph.GiorChi

Riproponiamo: Paul Gauguin e la serie di Noa Noa – sassi d’arte

Noa Noa è il titolo del racconto romanzato, autobiografico e sensazionalista, iniziato da Gauguin alla fine del settembre del 1893 e incentrato sulla sessualità e il mito a Tahiti, ma è anche il nome di una serie di dieci xilografie cominciata alcuni mesi dopo e terminata nel maggio del 1894, nonché il titolo della prima incisione su legno della serie. La doppia parola noa noa (nella lingua tahitiana la ripetizione ha valore di rafforzativo) significa terreno, mondano, quotidiano, non sacro, delizioso e profumato. Gli ultimi due aggettivi sono particolarmente appropriati, perché l’universo di queste xilografie, caratterizzato da numerosi riferimenti all’acqua, ai fiori, agli spiriti, agli dei e all’erotismo, è effettivamente fragrante, affascinante e misterioso, e crea un’atmosfera sovrannaturale fatta di mito, sogno, desiderio e sottile suggestione.

La coincidenza di date tra la stesura del libro e l’esecuzione delle xilografie rivela che romanzo e stampe furono concepiti insieme, perché le une dovevano servire ad illustrare l’altro. Se completata, l’opera sarebbe stata probabilmente tra i primi e senz’altro più raffinati esempi di livre d’artiste mai realizzati. Benché le origini di questo genere letterario risalgano almeno all’epoca di Eugène Delacroix e Gustave Doré, solo negli anni novanta dell’Ottocento si giunse a reinventare completamente il libro come una Gesamtkunstwerk, un’opera d’arte totale che implicava una veste tipografica innovativa, materiali pregiati, una bella rilegatura e illustrazioni sfarzose.

Il grande libro di Gauguin non venne tuttavia realizzato, principalmente a causa dei contrasti tra ex amici, mecenati e ammiratori. Le dieci xilografie furono esposte nel dicembre 1894 presso l’atelier parigino dell’artista, al 6 di Rue Vercingétorix, dove furono viste e recensite da diversi critici, tra cui Charles Morice, che le definì “une révolution dans l’art de la gravure”. Senza la serie Noa Noa, in effetti, le incisioni di Edvard Munch e degli espressionisti tedeschi non sarebbero state possibili. Il romanzo, invece, fu pubblicato solo nel 1901, quando Morice preparò un’edizione -che non ebbe l’approvazione di Gauguin – per le Editions La Plume di Parigi. Da allora il libro è stato ristampato dozzine di volte e la vicenda narrata, oggi ben nota, è riassumibile nell’arrivo a Tahiti dell’artista francese, il quale, deluso da alcuni aspetti del paesaggio e della vita sociale della capitale, Papeete, va in cerca di avventure erotiche, prova una fugace attrazione per un uomo del posto, si trova una moglie giovanissima, partecipa ad una battuta di pesca e trova finalmente la vita allo stato selvaggio a cui agognava.

Le dieci stampe della serie Noa Noa, come quelle che compongono la Suite Volpini (una serie di 11 incisioni che Gauguin esibì al “Café des Arts Volpini” durante l’esposizione di Parigi del 1889), non raccontano una storia e qualsiasi sequenza di lettura proposta dev’essere considerata nel migliore dei casi ipotetica. Come per l’album Volpini, le xilografie derivano per lo più da composizioni precedenti, in questo caso dipinti eseguiti a Tahiti l’anno prima. Quella intitolata Noa Noa raffigura due donne ed un cane nei pressi di un fiume; in Nave Nave Fenua si riconosce una donna nuda che si produce in una danza solitaria, mentre in Te Faruru, i protagonisti sono una coppia di amanti (sono le tre immagini riportate in questa sede); le altre xilografie rappresentano: Auti te Pape, due donne su una spiaggia; Te Atua, una congerie di divinità; La creazione del mondo, una genesi polinesiana; Mahna no varua ino, una scena notturna che evoca un sabba di streghe; Manao Tupapao, una figura femminile solitaria in posizione fetale; Te Po, un’altra scena notturna con una donna addormentata e tre osservatori; Maruru accoglie alcune figure femminili raccolte in un marae (un tempio o luogo d’incontro) accanto a un gigantesco tiki intagliato.

Vale la pena osservare che, con una sola eccezione, tutti i titoli delle incisioni in legno di Gauguin erano in tahitiano, in un deliberato affronto ai funzionari colonizzatori che all’epoca lottavano per annientare la lingua locale nell’ambito della loro “missione civilizzatrice”. Così come nell’Ottocento l’amministrazione francese aveva cercato di scoraggiare l’uso di lingue e dialetti locali  in Bretagna, Provenza e nella regione basca, allo stesso modo le autorità coloniali intendevano sradicare nella popolazione di Tahiti e di altri territori francesi d’oltremare l’uso di idiomi considerati barbari, instaurando al tempo stesso una dipendenza dallo stato francese centralizzato. L’ostinazione di Gauguin nello scegliere titoli in tahitiano – spesso senza traduzione – per molti dipinti e stampe (causando notevole costernazione a Parigi), costituisce un piccolo ma significativo esempio di resistenza all’ideologia colonialista da parte di un bianco. (tratto da Paul Gauguin, Artista di mito e sogno, Skira)