Rileggiamo l’opera: Nave Moe con una nota dell’artista – sassi d’arte

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Paul Gauguin, Nave Nave Moe (Dolci fantasticherie), 1894

olio su tela, cm 73 x 98, San Pietroburgo – The State Hermitage Museum

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Nave nave Moe (Dolci fantasticherie tradotto anche come Acqua deliziosa) fu dipinto da Paul Gauguin in Francia durante il periodo di ritorno in Europa: il pittore ha portato con sé molti disegni e appunti, di cui si serve anche a Parigi per eseguire opere tahitiane e anche in questo caso, dove vengono accostati elementi sacri e della vita quotidiana, si ritrovano caratteri consueti, quali le donne del luogo, il mango e, sullo sfondo, la danza rituale per la dea Hina.

Del mondo polinesiano, oltre al naturale fascino estetico ed esotico, a catturare Gauguin sono stati soprattutto il legame e l’armonia tra essere umano e natura. Nelle sue opere le donne tahitiane spesso simbolizzano diversi stadi della vita. In questo specifico dipinto si osservano una ragazza con l’aureola sulla testa, dormiente, che rappresenta la purezza virginale, e un’altra giovane donna, con un frutto in mano, paragonabile a Eva della tradizione cristiana e fondendo, così, quest’ultima al mondo spirituale tahitiano.

Quando Gauguin torna nella capitale francese vuole assolutamente stupire con un atteggiamento eccentrico e disinvolto, con la speranza di attirare sulle sue opere l’attenzione di eventuali acquirenti; invece, ottiene l’effetto di allontanare anche quei pochi collezionisti che avevano mostrato interesse verso il suo modo di dipingere. Pur essendo tornato nella sua patria continua ad evocare le immagini di quei mari del Sud che lo avevano letteralmente sedotto: egli non si cimenta con motivi nuovi, ma utilizza il vecchio repertorio con la speranza di conquistare il mondo dell’arte; ma il suo distacco da ogni residuo di realtà concreta, a cui si erano orientati finora i suoi mondi figurativi, farà sì che egli si senta sperduto nella sua patria tanto da mantenere vivi anche a Parigi i ricordi dei Tropici e dipinti come Dolci fantasticherie continueranno a essere immersi nella magia del mondo perduto.

In una delle lettere alla moglie, avvalorando il suo carattere e soprattutto le sue scelte improduttive dal punto di vista economico e, forse per questo, anche inutili per tanti, Gauguin dirà qualcosa che – a mio parere – è validissimo ancora oggi e non solo in Pittura: “Sono un grande artista e lo so. Proprio perché lo sono ho sopportato tante sofferenze: per seguire la mia vita, se no mi considererei un bandito. Che è quello che sono, del resto, per molte persone. In fondo, che importa? […] da un pezzo so che cosa faccio e perché lo faccio. Il mio centro artistico è nel mio cervello e non altrove, e io sono grande perché non mi lascio frastornare dagli altri e perché faccio quello che è in me. Beethoven era sordo e cieco, isolato da tutti, e perciò le sue opere rivelano l’artista che vive su un suo pianeta. Guarda che cosa è successo a Pissarro a forza di voler essere sempre all’avanguardia, al corrente di tutto: ha perduto ogni originalità e la sua opera è priva di unità. Segue sempre la corrente, da Courbet a Millet fino a quei giovanottelli chimici che accumulano puntini.

No, io ho un fine e continuo a perseguirlo, accumulando documenti. Ogni anno vi sono trasformazioni, è vero, ma sempre nella medesima direzione. Sono il solo a essere logico e per questo trovo ben poche persone che mi seguano a lungo. Povero Schuffenecker, che mi rimprovera di essere rigido nelle mie determinazioni! Le mie azioni, la mia pittura eccetera, sul momento mi sono sempre contraddette e poi finalmente mi danno ragione. Io devo sempre ricominciare. Sono persuaso di fare il mio dovere e, frte di ciò, non accetto né consigli né rimproveri. Le condizioni in cui lavoro sono sfavorevoli e bisogna essere un colosso per fare quello che faccio in queste condizioni.”

Tratto e adattato (ma ampliato da fonti esterne) dalla monografia “Gauguin” edita da Skira.

Rileggiamo l’opera: Il ponte di Maincy

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Paul Cézanne (1839 – 1906), Il ponte di Maincy (1879 circa)

olio su tela, cm 58,5 x 72,5 – Parigi, Musée d’Orsay

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Questo dipinto, apparentemente, non sembra un’opera maggiore del grande pittore francese. Ma solo apparentemente: questo piccolo dipinto contiene già tutti i germi di ciò che un quarto di secolo dopo verrà chiamato cubismo. Se si guarda con attenzione (nell’immagine sottostante, le tre opere riportate nell’ordine) il dipinto domestico Il buffet, del 1873, tutta la pittura successiva di Cézanne vi è già dichiarata: il tratto delle pennellate forti posate in parallelo l’una all’altra, i fondi drammatici, il senso della realtà, al contempo percepita e trasfigurata con cinque frutti posati su una tovaglia che sembra già la montagna di Sainte-Victoire, quella che dipingerà in modo ossessivo, quando tornerà nel suo meridione. E il tutto che si staglia su uno sfondo che sembra il mondo boschivo dei suoi bagnanti. E pure già questo sfondo, che si fa intuitivo del cubismo, torna poco dopo nella stesura del paesaggio del Ponte di Maincy.

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Sarebbe del tutto errato confondere Cézanne con gli impressionisti, quelli che tali vengono definiti nella mostra del 1874 e con i quali effettivamente esporrà con totale insuccesso nella mostra successiva. Egli è autonomo sin dall’inizio del suo percorso, e lo è per un motivo quasi ideologico che lo lega ad Émile Zola, suo compagno di liceo ad Aix-en-Provence, provinciale quasi per definizione e del sud come lui. A Zola deve una fede, anch’essa quasi ideologica, nel verismo, quello di una generazione giovane che trova in Victor Hugo lo scrittore vate della realtà. Cézanne, come Zola, appartiene ad una generazione di ragazzi di provincia che a Parigi si fanno protagonisti dell’alternativa esistenziale prima ancora che  di quella artistica.

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Il tema del dipinto, Il ponte di Maincy, noto anche come Il ponticello, è strettamente legato al gusto dei pittori impressionisti nella scelta del soggetto: uno scorcio di paesaggio dipinto all’aria aperta. L’opera deve il suo titolo al ponticello raffigurato in secondo piano, costituito da una passerella di legno sorretta da arcate in pietra. Le acque del torrente che lambiscono il ponte riflettono la sua immagine. La tela è dominata dalle tonalità del verde; alberi esili si slanciano verso il cielo, lasciando filtrare una luce dorata. Il punto di osservazione adottato da Cézanne è posto sulla riva del torrente, come si intuisce dalla raffigurazione del ponte, inquadrato leggermente dal basso; il ponte è rappresentato di scorcio mediante una linea obliqua che attraversa la tela e questa prospettiva, evidenziata dalla differente profilatura delle arcate portanti, conferisce profondità al quadro.

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Sullo sfondo la verticalità degli alberi si contrappone all’andamento orizzontale del ponte; in primo piano si ergono due tronchi che attirano l’occhio dell’osservatore e lo invitano ad esplorare il dipinto nella successione dei suoi piani alti. Il pittore stende il colore attraverso pennellate dense e compatte che danno vita alle forme, offrendo in tal modo un nuovo approccio alla rappresentazione della natura e per suggerire il senso di movimento, egli cambia la direzione delle pennellate a seconda della forma dell’oggetto rappresentato.

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Ultimo e più importante precursore delle avanguardie artistiche del Novecento, Pul Cézanne cominciò la sua esperienza nel solco dell’esperienza impressionista. Tra i pittori del gruppo si avvicinò a Pissarro, che frequentò assiduamente tra il 1872 e il 1873 e del quale condivise subito la pittura più solida e strutturata. Grazie all’interessamento di Pissarro, che vinse la riluttanza di Degas e degli altri che ritenevano le sue opere troppo scandalose, Cézanne partecipò alla prima mostra degli impressionisti, organizzata nel 1874 presso lo studio del fotografo Nadar, e frequentò gli studi degli artisti pur prendendo subito le distanze da loro.

Rifiutò infatti il loro concetto di visione, incentrato sulla percezione e la fluttuazione della luce, e si concentrò invece su quello che chiamava “la forma meditata”, cioè l’organizzazione mentale e la conseguente elaborazione, da parte dell’artista, del soggetto tradotto nella percezione personale, che approfondisce l’essenza di ciò che ha visto. Da questo punto di vista, l’opera di Cézanne ebbe grande importanza per i successivi sviluppi della pittura moderna. I cubisti lo considerano un precursore del loro movimento, ma la sua influenza andò ben oltre il cubismo. Cézanne è stato infatti il primo ad assegnare una nuova funzione alla pittura: quella di costruire una realtà propria, retta da leggi indipendenti dal dato naturale o emotivo, principio che è alla base di tutti gli sviluppi dell’arte a noi contemporanea. (Tratto da Cèzanne, Il ponte di Maincy, con introduzione di Philippe Daverio, serie I Capolavori dell’arte, Corriere della Sera)

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Buona Pasqua da Il sasso nello stagno di AnGre

Jorge Luis Borges, Giovanni 1,14 (da Elogio dell’ombra)

Non sarà questa pagina enigma minore
di quelle dei Miei libri sacri
o delle altre che ripetono
le bocche inconsapevoli,
credendole d’un uomo, non già specchi
oscuri dello spirito.
Io che sono l’È, il Fu e il Sarà
accondiscendo ancora al linguaggio
che è tempo successivo e simbolo.
Chi gioca con un bimbo gioca con ciò che è
prossimo e misterioso;
io volli giocare coi Miei figli.
Stetti fra loro con stupore e tenerezza.
Per opera di un incantesimo
nacqui stranamente da un ventre.
Vissi stregato, prigioniero di un corpo
e di un’umile anima.
Conobbi la memoria,
moneta che non è mai la medesima.
Il timore conobbi e la speranza,
questi due volti del dubbio futuro.
Ed appresi la veglia, il sonno, i sogni,
l’ignoranza, la carne,
i tardi labirinti della mente,
l’amicizia degli uomini,
la misteriosa devozione dei cani.
Fui amato, compreso, esaltato e sospeso a una croce.
Bevvi il calice fino alla feccia.
Gli occhi Miei videro quel che ignoravano:
la notte e le sue stelle.
Conobbi ciò ch’è terso, ciò ch’è arido,
quanto è dispari o scabro,
il sapore del miele e della mela
e l’acqua nella gola della sete,
il peso d’un metallo sul palmo,
la voce umana, il suono di passi sopra l’erba,
l’odore della pioggia in Galilea,
l’alto gridio degli uccelli.
Conobbi l’amarezza.
Ho affidato quanto è da scrivere a un uomo qualsiasi;
non sarà mai quello che voglio dire,
sarà almeno la sua eco.
Dalla Mia eternità cadono segni.
Altri, non questi ch’è il suo amanuense, scriva l’opera.
Domani sarò tigre fra le tigri
e dirò la Mia legge nella selva,
o un grande albero in Asia.
Ricordo a volte e rimpiango l’odore
di quella bottega di falegname.
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Piero della Francesca, Resurrezione (immagine d’apertura)

La luce rosa di un’alba primaverile illumina il bianco dell’Appennino e la natura silente. In primo piano l’umanissima figura di Cristo. Nel corpo i segni della Passione, in mano il vessillo della Resurrezione. Un piede poggia sul bordo del sarcofago nell’atto di uscire: ha vinto la morte, simboleggiata dai quattro personaggi abbandonati nel sonno nella parte bassa della composizione. Tra loro, frontale rispetto allo spettatore, Piero si autoritrae. Quest’opera, considerata del tutto autografa ed eseguita tra il 1463 e il 1468 ad affresco da Piero di Benedetto de’ Franceschi, detto Piero della Francesca (1420 ca. – 1492), è ubicata nel Palazzo dei Conservatori di Sansepolcro (Arezzo), attuale sede del Museo Civico.

Cristo risorto emerge dal Santo Sepolcro, simbolo della città, stringendo con presa sicura lo stendardo crociato e poggiando saldamente il piede sul sarcofago dal quale si erge vincitore della morte, esprimendo, attraverso sembianze concretamente umane, la sua sovranità divina accentuata dalla fissità quasi inquietante dello sguardo. Il perno della composizione è costituito dalla figura del figlio di Dio ormai risorto, che divide in due parti il paesaggio: quello a destra rigoglioso e quello a sinistra morente, dove gli alberi, che a sinistra appaiono secchi, come in pieno inverno, a destra sono ritratti verdi, come in primavera, sottolineano l’inizio di un nuovo tempo nella storia dell’umanità.

Il pittore sceglie, invece, di ritrarre se stesso addormentato ai piedi del sarcofago, mentre all’asta del vessillo con la croce guelfa attribuisce il compito di tenerlo in diretto contatto con la divinità, come ad ispirare e ricordare il Piero politico, quando, consigliere comunale, sedeva nella stanza attigua all’affresco. (Giorgio Chiantini)

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Stabat Mater

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Tiziano Vecellio, Mater Dolorosa (1550-1555), Museo del Prado, Madrid

Stabat Mater è una sequenza liturgica in onore della Madonna, trasmessa in molte redazioni e presto accolta in vari messali (dalla metà del 14° sec.), fino a essere inserita nel Messale romano da Benedetto XIII (1727). Quasi certamente ne è autore Iacopone da Todi. Composta da due coppie di ottonari rimati, ciascuna delle quali seguita da un senario sdrucciolo, può essere rappresentata anche sotto forma di azione scenica. Fra le realizzazioni polifoniche o concertanti del testo si ricordano quelle di J. Desprez, G. Pierluigi da Palestrina, O. di Lasso, E.R. Astorga, A. Vivaldi, A. e D. Scarlatti, G.B. Pergolesi, L. Boccherini, F.J. Haydn, F. Schubert, G. Rossini, G. Verdi, A. Dvorak, K. Szymanowski, F. Poulenc, K. Penderecki. [Enciclopedia Treccani]

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Warsztat Krakowski, Pietà di Tubadzin (1450), Museo Nazionale di Varsavia

Stabat Mater (dal latino per Stava la madre) è una preghiera – più precisamente una sequenza – cattolica del XIII secolo quasi certamente attribuita a Jacopone da Todi. La prima parte, che inizia con le parole Stabat Mater dolorosa (“La Madre addolorata stava”) è una meditazione sulle sofferenze di Maria, madre di Gesù, durante la crocifissione e la Passione di Cristo. La seconda parte della preghiera, che inizia con le parole Eia, mater, fons amóris (“Oh, Madre, fonte d’amore”) è, invece, una invocazione in cui l’orante chiede a Maria di renderlo partecipe del dolore provato da Maria stessa e dal Cristo.

È recitata in maniera facoltativa durante la messa dell’addolorata (15 settembre) e le sue parti formano gli inni latini della stessa festa. Prima della Riforma liturgica era utilizzata nell’ufficio del venerdì della settimana di passione (Madonna dei sette dolori – venerdì precedente la Domenica delle Palme). Ma popolarissima era soprattutto perché accompagnava il rito della Via Crucis e la processione del Venerdì santo. Un canto amatissimo dai fedeli, non meno che da intere generazioni di musicisti colti. (dal web)

(c) Dulwich Picture Gallery; Supplied by The Public Catalogue Foundation
Guido Reni, Mater dolorosa, XVII sec., Dulwich Picture Gallery, Londum pendébat Fílius.iuxta crucem lacrimósa,

Mario Luzi – Padre mio, mi sono affezionato alla terra

Padre mio, mi sono affezionato alla terra
quanto non avrei creduto.
È bella e terribile la terra.
Io ci sono nato quasi di nascosto,
ci sono cresciuto e fatto adulto
in un suo angolo quieto
tra gente povera, amabile e esecrabile.

Mi sono affezionato alle sue strade,
mi sono divenuti cari i poggi e gli uliveti,
le vigne, perfino i deserti.

È solo una stazione per il figlio Tuo la terra
ma ora mi addolora lasciarla
e perfino questi uomini e le loro occupazioni,
le loro case e i loro ricoveri
mi dà pena doverli abbandonare.

Il cuore umano è pieno di contraddizioni
ma neppure un istante mi sono allontanato da te.
Ti ho portato perfino dove sembrava che non fossi
o avessi dimenticato di essere stato.

La vita sulla terra è dolorosa,
ma è anche gioiosa: mi sovvengono
i piccoli dell’uomo, gli alberi e gli animali.
Mancano oggi qui su questo poggio che chiamano Calvario.

Congedarmi mi dà angoscia più del giusto.
Sono stato troppo uomo tra gli uomini o troppo poco?
Il terrestre l’ho fatto troppo mio o l’ho rifuggito?
La nostalgia di te è stata continua e forte,
tra non molto saremo ricongiunti nella sede eterna.

Padre, non giudicarlo
questo mio parlarti umano quasi delirante,
accoglilo come un desiderio d’amore,
non guardare alla sua insensatezza.

Sono venuto sulla terra per fare la tua volontà
eppure talvolta l’ho discussa.
Sii indulgente con la mia debolezza, te ne prego.
Quando saremo in cielo ricongiunti
sarà stata una prova grande
ed essa non si perde nella memoria dell’eternità.
Ma da questo stato umano d’abiezione
vengo ora a te, comprendimi, nella mia debolezza.

Mi afferrano, mi alzano alla croce piantata sulla collina,
ahi, Padre, mi inchiodano le mani e i piedi.
Qui termina veramente il cammino.
Il debito dell’iniquità è pagato all’iniquità.
Ma tu sai questo mistero. Tu solo.

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🖋 Mario Luzi per la liturgia del Venerdì Santo al Colosseo, 2 aprile 1999 — in foto: Taranto, dettaglio della processione (dal web)

La Domenica delle Palme negli affreschi di Giotto – sassi d’arte

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È un appuntamento annuale quello de Il sasso nello stagno di AnGre con l’arte e la poesia della Settimana Santa. Eccoci, allora, a rileggere le opere e i significati presenti tra queste pagine, con l’augurio che possano segnare la strada di una vera Risurrezione nella Pace di cui abbiamo fortemente bisogno tutti. Buona lettura e sempre grazie per la partecipazione alle proposte del blog.

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Nel calendario liturgico cattolico la Domenica delle palme è celebrata la domenica precedente quella di Pasqua e con essa ha inizio la settimana santa. Nella forma ordinaria del rito romano essa è detta anche domenica De Passione Domini (della passione del Signore) ed è una festività osservata non solo dai cattolici, ma anche dagli ortodossi e dai protestanti (ovvero le religioni che riconoscono Cristo).

In questo giorno la Chiesa ricorda il trionfale ingresso di Gesù in Gerusalemme in sella ad un asino, osannato dalla folla che lo salutava agitando rami di palma. La folla, radunatasi a voce per l’arrivo di Gesù, stese a terra i mantelli, mentre altri tagliavano rami dagli alberi intorno e, agitandoli festosamente, gli rendevano onore.

In ricordo di questo, la liturgia della Domenica delle palme, si svolge iniziando da un luogo al di fuori della chiesa, dove si radunano i fedeli e il sacerdote benedice i rami di ulivo o di palma portati dai fedeli stessi; quindi si procede in processione fino all’interno della chiesa, continuando la celebrazione della messa con la lettura della Passione di Gesù. Il racconto della Passione viene letto da tre persone che rivestono la parte di Cristo (letta dal sacerdote), dello storico e del popolo.

In questa Domenica il sacerdote, a differenza delle altre di quaresima (in cui veste di colore viola, che indica penitenza, richiamo alla conversione e alla stessa penitenza e che si usa in Avvento e in Quaresima, ma anche durante la celebrazione delle Messe dei defunti) indossa paramenti di colore rosso (colore che indica il sacrificio sulla croce di Gesù e la divinità dello Spirito Santo, ma anche il sangue sparso dai Santi Martiri; si usa la Domenica delle Palme, appunto, il Venerdì Santo, a Pentecoste, nelle feste degli Apostoli e dei Martiri e per la Messa della Cresima).

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nell’immagine: Giotto, Scene dalla vita di Cristo, Entrata in Gerusalemme, affresco databile 1303-1305, Cappella degli Scrovegni, Padova: da sinistra Gesù avanza a cavallo di un asino verso le porte di Gerusalemme, seguito dagli Apostoli e facendosi incontro a una folla incuriosita: chi si prostra, chi accorre a vedere, chi è sorpreso, ecc. Sebbene la stesura denoti un’autografia non piena dell’episodio, la scena spicca come una delle più vivacemente naturali del ciclo, con una serie di episodi interni tratti dalla vita quotidiana, come quello dell’uomo che si copre la testa col mantello (un’azione goffa o un simbolo di chi non vuole accettare l’arrivo del Salvatore?) oppure i due fanciulli che salgono sugli alberi per staccare i rami d’ulivo da gettare al Salvatore e per vedere meglio, dettaglio derivato dalla tradizione bizantina, ma qui più realistico che mai. [fonti varie]

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I Pinakes di Locri Epizefiri – sassi d’arte

a sinistra, pinax in terracotta, Locri V sec. a.C., Demetra e Ade in trono; a destra, Hermes e Aphrodite – Reggio Calabria,Museo Archeologico Nazionale

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I Pinakes, al singolare Pinax (in greco Πίνακες), sono dei quadretti votivi in terracotta, legno dipinto, marmo o bronzo tipici dell’antica Grecia. In Magna Grecia furono prodotti tra il 490 e il 450 a.C. principalmente nelle poleis di Rhegion e Locri Epizefirii ed è presso il Museo Archeologico Nazionale di Reggio Calabria che si trova oggi la vastissima collezione di questi reperti, rinvenuti sui luoghi del centro coloniale magno-greco di Locri Epizefirii.

I pinakes sono i più caratteristici ex-voto rinvenuti a Locri e costituiscono un complesso unico nel mondo greco per quantità, varietà e qualità e la gran quantità di pezzi ritrovata ha permesso di individuare più di 170 scene. Si tratta di tavolette in terracotta realizzate in serie grazie all’uso di matrici e arricchite di una vivace policromia, le quali recano scene a bassorilievo connesse al mito di Persefone e ai rituali del culto tributato alla dea nel santuario della Mannella. Donati alla dea dalle fanciulle di Locri in procinto di sposarsi, con l’intento di ingraziarsi la protezione divina in questo momento di transizione e di assicurarsi un’unione feconda, venivano probabilmente appesi, grazie ai fori di sospensione, alle pareti dei piccoli edifici di culto e forse anche agli alberi del recinto sacro. Quando il santuario subì una ristrutturazione, furono spezzati ritualmente, in modo da evitarne un sacrilego reimpiego, e scaricati in una stipe votiva.

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pinax: rapimento di Persefone

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Nei pinakes è innanzitutto rievocata la vicenda di Kore-Persefone, dal rapimento da parte di Hades al matrimonio con costui. Un nucleo consistente di scene ha come oggetto momenti del culto, in particolar modo l’atto rituale consistente nell’offerta: di animali, di fiori e di frutta, di un abito (il cosiddetto “peplo nuziale”) portato in processione, dei giochi infantili. Altre scene alludono ai preparativi delle nozze, come l’acconciatura e la vestizione della sposa, nonché la preparazione del letto nuziale. Un gruppo di pinakes, che prevede la riproduzione di un bambino entro una cesta, allude alla maternità, fine primario del matrimonio, mentre alla sfera della sessualità necessaria a tale scopo rimanda quel gruppo di scene che vede protagonista Afrodite.

Le raffigurazioni dei pinakes tuttavia non sono univoche, in quanto prevedono la comprsenza di tre livelli di lettura difficilmente distinguibili tra loro: si richiamano, infatti, le nozze sacre di Persefone e Hades; si allude alle cerimonie con cui nel santuario della Mannella queste erano rievocate; si fa riferimento ai complessi riti di iniziazione che accompagnavano le nozze dei locresi, vissute non come un fatto privato, ma come un momento fondamentale per l’intera comunità.

[testo tratto e adattato da R.Schenal Pileggi, I pinakes di Locri Epizefiri – Laruffa Editore]

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uno dei pinakes di Locri-Epizefiri

Rileggiamo l’opera: Paul Gauguin e la serie di Noa Noa -sassi d’arte

Noa Noa è il titolo del racconto romanzato, autobiografico e sensazionalista, iniziato da Gauguin alla fine del settembre del 1893 e incentrato sulla sessualità e il mito a Tahiti, ma è anche il nome di una serie di dieci xilografie cominciata alcuni mesi dopo e terminata nel maggio del 1894, nonché il titolo della prima incisione su legno della serie. La doppia parola noa noa (nella lingua tahitiana la ripetizione ha valore di rafforzativo) significa terreno, mondano, quotidiano, non sacro, delizioso e profumato. Gli ultimi due aggettivi sono particolarmente appropriati, perché l’universo di queste xilografie, caratterizzato da numerosi riferimenti all’acqua, ai fiori, agli spiriti, agli dei e all’erotismo, è effettivamente fragrante, affascinante e misterioso, e crea un’atmosfera sovrannaturale fatta di mito, sogno, desiderio e sottile suggestione.

La coincidenza di date tra la stesura del libro e l’esecuzione delle xilografie rivela che romanzo e stampe furono concepiti insieme, perché le une dovevano servire ad illustrare l’altro. Se completata, l’opera sarebbe stata probabilmente tra i primi e senz’altro più raffinati esempi di livre d’artiste mai realizzati. Benché le origini di questo genere letterario risalgano almeno all’epoca di Eugène Delacroix e Gustave Doré, solo negli anni novanta dell’Ottocento si giunse a reinventare completamente il libro come una Gesamtkunstwerk, un’opera d’arte totale che implicava una veste tipografica innovativa, materiali pregiati, una bella rilegatura e illustrazioni sfarzose.

Il grande libro di Gauguin non venne tuttavia realizzato, principalmente a causa dei contrasti tra ex amici, mecenati e ammiratori. Le dieci xilografie furono esposte nel dicembre 1894 presso l’atelier parigino dell’artista, al 6 di Rue Vercingétorix, dove furono viste e recensite da diversi critici, tra cui Charles Morice, che le definì “une révolution dans l’art de la gravure”. Senza la serie Noa Noa, in effetti, le incisioni di Edvard Munch e degli espressionisti tedeschi non sarebbero state possibili. Il romanzo, invece, fu pubblicato solo nel 1901, quando Morice preparò un’edizione -che non ebbe l’approvazione di Gauguin – per le Editions La Plume di Parigi. Da allora il libro è stato ristampato dozzine di volte e la vicenda narrata, oggi ben nota, è riassumibile nell’arrivo a Tahiti dell’artista francese, il quale, deluso da alcuni aspetti del paesaggio e della vita sociale della capitale, Papeete, va in cerca di avventure erotiche, prova una fugace attrazione per un uomo del posto, si trova una moglie giovanissima, partecipa ad una battuta di pesca e trova finalmente la vita allo stato selvaggio a cui agognava.

Le dieci stampe della serie Noa Noa, come quelle che compongono la Suite Volpini (una serie di 11 incisioni che Gauguin esibì al “Café des Arts Volpini” durante l’esposizione di Parigi del 1889), non raccontano una storia e qualsiasi sequenza di lettura proposta dev’essere considerata nel migliore dei casi ipotetica. Come per l’album Volpini, le xilografie derivano per lo più da composizioni precedenti, in questo caso dipinti eseguiti a Tahiti l’anno prima. Quella intitolata Noa Noa raffigura due donne ed un cane nei pressi di un fiume; in Nave Nave Fenua si riconosce una donna nuda che si produce in una danza solitaria, mentre in Te Faruru, i protagonisti sono una coppia di amanti (sono le tre immagini riportate in questa sede); le altre xilografie rappresentano: Auti te Pape, due donne su una spiaggia; Te Atua, una congerie di divinità; La creazione del mondo, una genesi polinesiana; Mahna no varua ino, una scena notturna che evoca un sabba di streghe; Manao Tupapao, una figura femminile solitaria in posizione fetale; Te Po, un’altra scena notturna con una donna addormentata e tre osservatori; Maruru accoglie alcune figure femminili raccolte in un marae (un tempio o luogo d’incontro) accanto a un gigantesco tiki intagliato.

Vale la pena osservare che, con una sola eccezione, tutti i titoli delle incisioni in legno di Gauguin erano in tahitiano, in un deliberato affronto ai funzionari colonizzatori che all’epoca lottavano per annientare la lingua locale nell’ambito della loro “missione civilizzatrice”. Così come nell’Ottocento l’amministrazione francese aveva cercato di scoraggiare l’uso di lingue e dialetti locali  in Bretagna, Provenza e nella regione basca, allo stesso modo le autorità coloniali intendevano sradicare nella popolazione di Tahiti e di altri territori francesi d’oltremare l’uso di idiomi considerati barbari, instaurando al tempo stesso una dipendenza dallo stato francese centralizzato. L’ostinazione di Gauguin nello scegliere titoli in tahitiano – spesso senza traduzione – per molti dipinti e stampe (causando notevole costernazione a Parigi), costituisce un piccolo ma significativo esempio di resistenza all’ideologia colonialista da parte di un bianco. (tratto da Paul Gauguin, Artista di mito e sogno, Skira)

Rileggiamo l’opera: la miniatura e il manoscritto miniato

Natività (1429) Miniatura del corale D della Cattedrale di S.Stefano - Museo dell'Opera delDuomo, Palazzo Vescovile Prato
Natività (1429) Miniatura del corale D della Cattedrale di S.Stefano – Museo dell’Opera del Duomo, Palazzo Vescovile Prato

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Con il termine “miniatura“, si designa la pittura che illustrava, soprattutto nel Medioevo, il libro manoscritto generalmente su fogli di pergamena. Il termine origina dal latino “miniare”, dipingere di rosso, che inizialmente indicava l’operazione di sottolineare o dipingere col “minium” il titolo di un libro o dei suoi capitoli; successivamente il termine fu esteso alle immagini dipinte che decoravano o illustravano il testo stesso.

Natività pergamena nella cripta del Duomo di Siena
Natività pergamena nella cripta del Duomo di Siena

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La miniatura col fiorire del “gotico” diventa un esempio eloquente di contrasto tra le due forme di rappresentazioni pittorica sul piano, ovvero quella classica e quella barbarica, ponendo in evidenza il legame intimo tra l’evoluzione del libro e quello delle idee: il libro, così, diventa per eccellenza il mezzo di diffusione delle idee e delle forme, stringendo contatti con le altre arti e in particolare con la scultura, elemento predominate nell’arte gotica.

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pagina miniata medievale

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Quando successivamente si moltiplicarono le Università, il libro illustrato cominciò a giungere ad una nuova sfera di lettori e si creò la necessità di moltiplicare le copie degli esemplari. Si reclutarono inizialmente gli esecutori di cartoni per vetrate e si chiamarono maestri di pittura che scelsero i pittori da istruire per realizzare i primi manoscritti, creando dei veri e propri centri di produzione.

miniatura fine  sec. XII - I corali benedettini di San Sisto a Piacenza
miniatura fine sec. XII
da I corali benedettini di San Sisto a Piacenza

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Quest’arte si diffuse in tutto il mondo ed in Italia ogni regione aveva i suoi miniaturisti, che si distinguevano per i loro diversi stili; i primi a dare grande impulso alla miniatura e all’arte amanuense in generale, a Montecassino, furono i Benedettini, mentre nel resto del mondo i centri più importanti erano a Costantinopoli, Antiochia e Alessandria in Egitto. Col tempo i disegni e i colori dovettero, ovviamente, essere semplificati fino ad arrivare, con l’avvento della stampa, ad essere prodotti industrialmente. Nel Rinascimento l’illustrazione tende ad assumere maggiore autonomia rispetto al testo e molti artisti raggiunsero grande fama sia come pittori che come miniaturisti: nacquero vere e proprie officine librarie in cui lavoravano pittori di grande valore che avevano come clienti signori e regnanti del tempo. Molti pittori, da Lorenzo Monaco al Beato Angelico, hanno legato il loro nome all’Arte della miniatura; come pure Benedetto Strozzi, allievo dell’Angelico, che lavorò nel Monastero di S. Marco miniando 19 codici e collaborando anche alle illustrazioni delle “corali” per il Duomo di Firenze.

Giovanni Vendramin, Antifonario II, c. 4v, Natività (1477-78  -  1482).
Giovanni Vendramin, Antifonario II, c. 4v, Natività (1477/78 – 1482).

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Le corali rappresentarono miniature particolari, a carattere sacro, scritte esclusivamente in lettere gotiche, erano ornate spesso con metalli preziosi e smalti; le corali continuarono ad essere realizzate anche dopo l’avvento della stampa ed esistono manoscritti datati anche nel XVIII° secolo. Molti esemplari, pregiatissimi, esistono ancora in musei annessi a Chiese, Cattedrali e Monasteri quali ad esempio quelli del Duomo di Siena, Ferrara e S. Ambrogio a Milano.

Venezia-Fondazione Giorgio Cini- Antifonario di S Benedetto a Gabiano-Martirio di San Sebastiano
Martirio di San Sebastiano – Venezia, Fondazione Giorgio Cini, Antifonario di S Benedetto a Gabiano

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Il libro miniato è caratterizzato dalla convivenza di parole e immagini. Il verbo “miniare”, riferito alla decorazione dei manoscritti, deriva dal termine minium, con cui si indicava il cinabro che veniva usato fin dall’antichità per tracciare le lettere iniziali di un testo in modo da facilitarne la memorizzazione. Bisogna però distinguere tra le forme ornamentali condotte a penna e inchiostro (rubriche e iniziali filigranate) e quelle realizzate con colori a corpo (miniature a piena pagina, iniziali decorate, figurate e istoriate, decorazioni marginali). Tale distinzione rispecchia la divisione del lavoro, che vede da una parte lo scriba e il rubricator, cui si deve la decorazione a penna, dall’altra il miniatore, autore del lavoro a pennello. La nascita di questo ultimo tipo di decorazione è legata ad un’altra trasformazione. Già dall’antichità si era affermato l’uso di accompagnare il testo con illustrazioni, soprattutto nei trattati tecnico-scientifici e nelle opere letterarie, quali i poemi epici e i testi teatrali.

pic11 S. Marco ritratto in un Libro delle Ore francese di epoca rinascimentale come uno scrivano che ha appena affilato la punta della sua penna
S. Marco ritratto in un Libro delle Ore francese di epoca rinascimentale
come uno scrivano che ha appena affilato la punta della sua penna

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Il libro antico aveva la forma di rotolo e si leggeva svolgendolo: il testo era perciò su colonne e le immagini si interponevano ad esso. Il materiale comunemente usato come supporto per la scrittura era il papiro, poco duraturo, ma morbido e leggero da avvolgere, su cui erano realizzate illustrazioni a penna e leggero acquerello.

Il papiro ebbe un primo serio concorrente nella pergamena che, nonostante l’elevato costo, era più resistente. Perché si affermasse la pergamena ci volle un’altra innovazione, ovvero il passaggio dal rotolo al codex, il libro da sfogliare. Il cambiamento si ebbe tra il I e il III secolo d.C. nelle comunità cristiane, che già utilizzavano piccoli codici con fogli di carta perché più economici, più facili da trovare e più pratici. L’uso del codice divenne la norma con l’editto di Costantino (313). La prima conseguenza di tale cambiamento fu la conservazione di molta letteratura che fu copiata su pergamena, sia negli scriptoria dei monasteri, che presso le cancellerie imperiali. Le decorazioni erano condotte con composizioni a corpo sulla superficie della pergamena ed erano destinate a durare di più, perché non erano soggette a continuo svolgimento e riavvolgimento del papiro ed erano protette nei fascicoli chiusi del codice.

miniatura-sacra
Natività in una miniatura sacra realizzata da Alfredo Spadoni, creata ai giorni nostri

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 Lo spessore e la consistenza della pergamena consentivano inoltre la scrittura su entrambi i lati e la possibilità di raschiare i singoli fogli già scritti per reimpiegare la superficie lavata e levigata con altri testi (palinsesto). Questa pratica era utilizzata soprattutto nei periodi di scarsità di materiale scrittorio.

La prima operazione per la realizzazione di un codice consisteva nel tagliare la superficie della pergamena nei formati scelti e nel tracciare la rigatura dei fogli. Si scriveva poi il testo dividendo le varie parti del libro in fascicoli, i quinterni. In seguito un maestro di penna completava le decorazioni calligrafiche, come le iniziali minori, le rubriche, etc. Interveniva poi il miniatore il quale, dopo aver disegnato la figura con uno stilo a piombo, stendeva la foglia d’oro con una spugna umida sulla pergamena già levigata e intinta con albume d’uovo. Dopo aver fatto evaporare l’acqua, si procedeva con la brunitura con denti di vari animali o con pietre molto dure per rendere lucente l’oro. In ultimo si procedeva con la stesura del colore.

libro medievale
libro medievale (da una mostra tenutasi a Perugia)

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Essendo la miniatura una pittura all’acqua, occorreva utilizzare leganti e agglutinanti. I più usati nel Medioevo erano la gomma arabica, l’albume d’uovo e la colla di pesce, sulla cui preparazione parecchi autori medievali hanno lasciato ampie informazioni. I miniaturisti medievali utilizzavano anche miscele di leganti per fluidificare o ammorbidire i composti aggiungendo allume, zucchero, miele, latte di fico, fiele di bue o tartaruga, succo d’aglio, cerume d’orecchi, urina, aceto. Soluzioni simili venivano impiegate anche per assicurare l’aderenza della foglia d’oro alla pergamena con l’aggiunta però di biacca di piombo e bolo armeno. A quel punto il manoscritto poteva essere legato, in genere con assi di legno, coperte di cuoio o con preziose legature con avori, metalli preziosi e smalti. [da http://www.pentagono.it/corali/manoscritti.html che si ringrazia]

Rileggiamo l’opera: Ia Orana Maria (Ave Maria) – sassi d’arte

Paul_Gauguin_Orana_Maria

Paul Gauguin, La Orana Maria (Ave Maria), 1891-1892,

olio su tela, 88 x 114 cm. New York, Metropolitan Museum of Art (The MET)

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Per soddisfare la sua implacabile sete di stimoli pittorici e nuove esperienze Gauguin nel 1891 si recò a Tahiti, nella Polinesia francese: Ia Orana Maria è una delle prime opere appartenenti a questo importante capitolo dell’arte gauguiniana. È lo stesso Gauguin a descriverci i contenuti del dipinto:

«Ho fatto una tela con un angelo dalle ali gialle che indica due donne tahitiane, vestite con un pareo, tessuto a fiori che si allaccia come si vuole alla cintura. Sullo sfondo montagne in ombra ed alberi fioriti. Un sentiero violetto ed in primo piano del verde smeraldo; a sinistra delle banane. Ne sono abbastanza soddisfatto» 

(Paul Gauguin, A Daniel de Monfreid, 11 mars 1892, in Lettres choisies : Paul Gauguin, Parigi, Fondation d’entreprise La Poste, 31 luglio 2003).

Nel distretto di Mataiea, a differenza degli altri villaggi dell’isola, non veniva ancora largamente professata la religione cristiana e perciò Gauguin fu perfettamente in grado di spogliare il tema della Madonna con il bambino della mitizzazione ufficiale promossa dalla Chiesa e di trasfigurarlo nella natura lussureggiante della Polinesia. Questa tela, dove troviamo raffigurati esattamente Gesù e Maria «tahitiani», intende dunque recuperare quella spiritualità della vita di tutti i giorni e trasfigurarla sotto il sole dei Tropici: sarà tuttavia l’ultima a sfondo cristiano realizzata dall’artista, che da quel momento in poi iniziò ad interessarsi maggiormente alle mitologie maori residue sull’isola.

In Ia Orana Maria, in ogni caso, Gauguin fonde armoniosamente la religione cristiana con gli stimoli visivi provenienti dalle terre del Sud. Ci troviamo in un contesto naturalistico lussureggiante e rigoglioso, degno di un «paradiso terrestre»: vi troviamo, infatti, un albero del pane, degli ibischi, dei candidi fiori di tiarè, noti per il loro profumo sublime, e infine una natura morta esotica con due caschi di banane, disinvoltamente poggiati su un piccolo altare legno su cui è laconicamente incisa la salutazione angelica: «Ia Orana» [Ave Maria]. È in questo modo che l’osservatore comprende di stare davanti a una trasposizione tahitiana del tema della Madonna con il bambino: partendo da sinistra, in effetti, scorgiamo un bellissimo angelo dall’incarnato scuro e dalle ali gialle e viola. Ha appena annunciato alle due tahitiane davanti a lui il mistero dell’Incarnazione: le due donne, infatti, si stanno avviando sul sentiero in atteggiamenti deferenti, con le mani giunte sul petto, in segno di saluto. In primo piano, infine, troviamo una donna (o, meglio, la Madonna) avvolta in uno sgargiante pareo rosso con il Gesù bambino sulle spalle: entrambe le figure sono aureolate, a testimonianza della loro sacralità.

Con Ia Orana Maria Gauguin traspone un tema iconografico tradizionalmente cristiano in un contesto tahitiano, orchestrando un suggestivo sincretismo culturale e figurativo: era sua opinione, infatti, che la civiltà occidentale con la sua ideologia convulsamente contorta (si consulti, in tal senso, il paragrafo Paul Gauguin § Via dalla pazza folla: Gauguin e il primitivismo) avesse rovinato e contaminato un mondo puro come quello tahitiano. Questo bipolarismo, tuttavia, si traduce anche sul piano più strettamente volumetrico: Gauguin, infatti, non esita ad abolire il chiaroscuro, risolvendo il pareo della donna in soli termini coloristici, senza per questo rinunciare a conferire un vigoroso risalto plastico alla natura morta in primo piano. Nonostante la composizione sia poi gremita di elementi e figure, inoltre, Gauguin riesce a trasmettere all’osservatore un senso di calma e di quiete, enfatizzato dalla sapiente concatenazione di linee orizzontali (sentiero, orizzonte, braccia e spalle delle donne) e verticali (le figure e le alberature). Questa potente raffigurazione, che amalgama il forte senso decorativo dell’arte orientale con l’ancestrale solidità dell’arte occidentale, vibra anche di un potente cromatismo, frammentato in tinte sgargianti che si valorizzano scambievolmente. È in questo modo che Gauguin ottiene «un miscuglio inquietante e saporoso di splendore barbaro, di liturgia cattolica, di sogno indù, d’immaginazione gotica, di simbolismo oscuro e sottile», come ha mirabilmente osservato l’intellettuale francese Octave Mirbeau. (Wikipedia)

Verso Natale: Guido Gozzano

Piero_della_Francesca_Pala di Brera

Guido Gozzano, La notte santa

– Consolati, Maria, del tuo pellegrinare!
Siam giunti. Ecco Betlemme ornata di trofei.
Presso quell’osteria potremo riposare,
ché troppo stanco sono e troppo stanca sei.

Il campanile scocca
lentamente le sei.

– Avete un po’ di posto, o voi del Caval Grigio?
Un po’ di posto per me e per Giuseppe?
– Signori, ce ne duole: è notte di prodigio;
son troppi i forestieri; le stanze ho piene zeppe

Il campanile scocca
lentamente le sette.

– Oste del Moro, avete un rifugio per noi?
Mia moglie più non regge ed io son così rotto!
– Tutto l’albergo ho pieno, soppalchi e ballatoi:
Tentate al Cervo Bianco, quell’osteria più sotto.

Il campanile scocca
lentamente le otto.

– O voi del Cervo Bianco, un sottoscala almeno
avete per dormire? Non ci mandate altrove!
– S’attende la cometa. Tutto l’albergo ho pieno
d’astronomi e di dotti, qui giunti d’ogni dove.

Il campanile scocca
lentamente le nove.

– Ostessa dei Tre Merli, pietà d’una sorella!
Pensate in quale stato e quanta strada feci!
– Ma fin sui tetti ho gente: attendono la stella.
Son negromanti, magi persiani, egizi, greci…

Il campanile scocca
lentamente le dieci.

– Oste di Cesarea… – Un vecchio falegname?
Albergarlo? Sua moglie? Albergarli per niente?
L’albergo è tutto pieno di cavalieri e dame
non amo la miscela dell’alta e bassa gente.

Il campanile scocca
le undici lentamente.

La neve! – ecco una stalla! – Avrà posto per due?
– Che freddo! – Siamo a sosta – Ma quanta neve, quanta!
Un po’ ci scalderanno quell’asino e quel bue…
Maria già trascolora, divinamente affranta…

Il campanile scocca
La Mezzanotte Santa.

È nato!
Alleluja! Alleluja!

È nato il Sovrano Bambino.
La notte, che già fu sì buia,
risplende d’un astro divino.
Orsù, cornamuse, più gaje
suonate; squillate, campane!
Venite, pastori e massaie,
o genti vicine e lontane!

Non sete, non molli tappeti,
ma, come nei libri hanno detto
da quattro mill’anni i Profeti,
un poco di paglia ha per letto.
Per quattro mill’anni s’attese
quest’ora su tutte le ore.
È nato! È nato il Signore!
È nato nel nostro paese!
Risplende d’un astro divino
La notte che già fu sì buia.
È nato il Sovrano Bambino.

È nato!
Alleluja! Alleluja!

*

In apertura: Piero della Francesca, Sacra Conversazione 

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🎁

 Per regalo, se v’è concesso di averne, non chiedete la felicità, perché è cosa effimera che passa in un momento. Abbiate, invece, il coraggio di chiedere presenza, vicinanza, costanza, piccoli gesti, parole quotidiane poche e vere, perché le piccole cose rendono fertile il giorno e lo fanno fiorire. Perché di questa dimenticata umanità ne siamo tutti bisognosi. Ma prima ancora siate disposti a donare altrettanto senza riserve e soprattutto senza che vi venga chiesto. Un minimo cambiamento, come un minimo sforzo positivo, restituisce mille volte in meglio quanto richiede a chi lo compie. Abbiate a cuore chi è capitato sulla vostra strada. Perché la meta finale è una per tutti. Vi auguro di avere sempre occhi e cuore capaci di vedere i bisogni che l’altro esprime non solo e non sempre a parole e di trovare a vostra volta chi faccia altrettanto con voi. 

Con affetto,

AnGre.

🎄

Verso Natale: Alda Merini

Ph di Giorgio Chiantini San Saba Roma

Alda Merini, Buon Natale

A Natale non si fanno cattivi
pensieri ma chi è solo
lo vorrebbe saltare
questo giorno.

A tutti loro auguro di
vivere un Natale
in compagnia.

Un pensiero lo rivolgo a
tutti quelli che soffrono
per una malattia.

A coloro auguro un
Natale di speranza e di letizia.
Ma quelli che in questo giorno
hanno un posto privilegiato
nel mio cuore
sono i piccoli mocciosi
che vedono il Natale
attraverso le confezioni dei regali.

Agli adulti auguro di esaudire
tutte le loro aspettative.
Per i bambini poveri
che non vivono nel paese dei balocchi
auguro che il Natale
porti una famiglia che li adotti
per farli uscire dalla loro condizione
fatta di miseria e disperazione.

A tutti voi
auguro un Natale con pochi regali
ma con tutti gli ideali realizzati.

*

In apertura, San Saba, affreschi – Roma 

Clicca Qui per l’opera

Rileggiamo l’opera: Madonna dell’umiltà

Masolino Madonna dell'umiltà Uffizi

Masolino, Madonna dell’umilità

tempera su tavola, cm 110,5×62 – Firenze, Galleria degli Uffizi (immagine tratta dal sito ufficiale che si ringrazia).

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Destinata verosimilmente a un piccolo altare di cappella o alla parete di un’ignota residenza patrizia, questa tavola, dalla comparsa sul mercato antiquario a Londra nel 1930, venne pubblicata per la prima volta da Longhi nel 1940 confermando il lavoro a Masolino e togliendolo definitivamente dalla scuola dell’Angelico alla quale era stato riferito nella vendita londinese.

Il dipinto raffigura la Madonna dell’umiltà secondo un’iconografia fiorentina diffusasi alla fine del Trecento e sempre lo studioso Longhi propose una datazione tra il 1430 e il 1435, successivo al sodalizio con Masaccio, interrottosi per la prematura scomparsa di quest’ultimo nel 1428, e precedente il ciclo pittorico masoliniano di Castiglione Olona. Il Longhi faceva osservare infatti, accanto all’eleganza sinuosa delle pieghe che poteva far pensare a un’opera giovanile influenzata da Lorenzo Monaco, una tonalità scura del colore e una tornitura delle forme impensabili senza il precedente masaccesco. Sebbene il riferimento della pittura a Masolino abbia incontrato il favore di quasi tutta la critica, non sono mancate alcune voci discordanti, che vorrebbero l’opera attribuita ad altre personalità di spicco del primo Quattrocento fiorentino vicine al già menzionato Lorenzo Monaco.

Tommaso di Cristoforo Fini, detto Masolino, era probabilmente nato a Panicale di Renacci (1383 e morto a Firenze nel 1440 circa), nel Valdarno superiore, non molto lontano da San Giovanni, luogo natio di Masaccio. Quando si iscrisse all’Arte dei Medici e Speziali, nel 1423, era un uomo di quarant’anni e, per questa ragione, più che di un discepolato fra Masaccio – peraltro sui ventidue anni e già pittore autonomo – e lui, si deve parlare di una collaborazione tra personalità di diversa indole artistica: quella di Masolino programmaticamente ancorata alle seduzioni naturalistiche del gotico, e quella di Masaccio già predisposta al rigore formale determinato dal rinnovato studio dell’antico.

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Testo tratto e adattato da Masaccio e i pittori del suo tempo agli Uffizi – Skira.

Rileggiamo i luoghi e l’opera: Santa Cecilia in Trastevere – sassi di arte

ph.Angela Greco AnGreStefano Maderno: la statua di Cecilia martire in Trastevere   a cura di Giorgio Chiantini & Angela Greco per Sassi d’arte
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Riproponiamo una visita alla basilica di Santa Cecilia in Trastevere – nella sempre splendida Roma – che nel suo complesso custodisce opere di Arnolfo di Cambio, Pietro Cavallini, Stefano Maderno solo per citarne alcuni.

Entrando nella basilica e percorrendo i grandi marmi della navata centrale si giunge innanzi all’imponente catino absidale dove fa bella mostra di sé uno splendido mosaico del IX secolo, epoca d’oro dei mosaici a Roma, commissionato da Papa Pasquale I, davanti al quale è eretto il bellissimo ciborio di Arnolfo di Cambio della fine del Duecento. Sotto quest’ultimo, dentro una teca di marmo scuro, si offre alla vista del pellegrino la statua bianchissima della martire Cecilia, opera di Stefano Maderno datata 1599, distesa in una particolare posa, nella irreale luminosità del corpo di marmo candido. Trovarsi di fronte a questa statua minuta nelle dimensioni di S. Cecilia è emozione purissima.

ph-Giorgio Chiantini

Siamo nel 220 d.C.; primissimi anni del cristianesimo, nuovo culto proibito e perseguitato. La leggenda narra che la giovane nobile romana Cecilia, convertita alla nuova fede, sceglie di non rinnegare il suo credo, ma, anzi, si prodiga nella sua diffusione e per questo motivo è imprigionata e uccisa. Si decide di ucciderla tentando di soffocarla con il vapore ma, l’esito negativo fa optare per la decapitazione. Papa Urbano I fa seppellire il corpo della martire nelle catacombe di S.Callisto, mentre sul luogo della casa e del martirio di Cecilia, fa edificare una chiesa a lei dedicata.

Passano circa 600 anni, siamo nel 820 d.C., il cristianesimo si è ormai affermato. Papa Pasquale I ha in sogno la visione di Santa Cecilia – narra la leggenda – che gli indica il luogo esatto in cui è stata seppellita. Eseguiti degli scavi, viene trovata effettivamente la bara contenente il corpo, che tra l’altro è miracolosamente intatto. Fra lo stupore generale la salma della santa viene così deposta nella “sua” chiesa, che nel frattempo è stata fatta riedificare. Nei secoli successivi la storia della basilica vede opere di abbellimento realizzate prima delle trasformazioni che hanno dato all’edificio l’aspetto attuale.

Il 20 ottobre 1599 durante una ricognizione delle condizioni fisiche dei resti della santa voluta dal card. Paolo Emilio Sfrondati (nipote di Gregorio XIV) questi fece aprire la tomba di S. Cecilia, traslata in loco da Pasquale I, consistente in una cassa di cipresso chiusa in una di marmo, trovando all’interno effettivamente, come narrava la leggenda, il corpo della Santa intatto, sdraiato e avvolto in una veste bianca trapunta d’oro.ph.Giorgio Chaintini

L’avvenimento ebbe una risonanza enorme e papa Clemente VIII venne a visitare la salma. Il card. Sfrondati, volendo conservare memoria per i posteri dell’immagine che si era offerta ai suoi occhi all’apertura della bara, incaricò il giovanissimo Maderno, che della salma aveva eseguito un primo disegno, di scolpire una statua della Santa. Cecilia venne tratta dal marmo così come era loro apparsa: in una posa naturale, come in un profondo sonno, le braccia tese in avanti, le mani semiaperte con le dita ad indicare simbolicamente con un numero tre il mistero della Trinità, la faccia rivolta a terra e i capelli coperti dal sudario riverso a mostrare il segno del martirio sul collo, una profonda incisione alla base della nuca.ph_giorgio_chiantini

Stefano Maderno (o Maderni, Capolago, 1570 – Roma, 17 settembre 1636; scultore svizzero-italiano, nato per alcuni nell’odierno Canton Ticino – Svizzera, mentre per altri a Palestrina, come indicato nell’atto di morte), sebbene giovane e di poca esperienza, seppe ricompensare il committente con un’opera di straordinaria bellezza; l’originalità della soluzione e il naturalistico abbandono della posa ebbero un seguito nella scultura barocca, anche se rappresentò un caso isolato nella produzione classicheggiante dell’artista.

[Giorgio Chiantini & Angela Greco testo e fotografie]

ph.Giorgio Chaintini e Angela Greco

Titos Patrikios, due poesie

Caduta_degli_angeliP

Titos Patrikios, due poesie

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DEBITO

Tra tutta questa morte che è venuta e viene,
guerre, esecuzioni, processi, morte e ancora morte
malattie, fame, fatalità fatali,
amici e nemici assassinati da sicari,
stroncature sistematiche e necrologi pronti,
la vita che vivo è quasi un dono.
Un dono della sorte, se non un furto della vita altrui,
perché la pallottola a cui scampai non andò a vuoto
ma colpí l’altro corpo che si trovò al mio posto.
Cosí, come un dono immeritato, mi fu data la vita,
e tutto il tempo che mi resta
è come se mi fosse stato regalato dai morti
per narrare la loro storia.

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LI HANNO GIUSTIZIATI

Li hanno giustiziati nella piazza centrale
li hanno giustiziati nelle cave di marmo dall’eco profonda,
davanti a caffè e a monumenti deserti,
e donne impazzite correvano a cercare gli abiti insanguinati,
li hanno giustiziati davanti al muro dei rifiuti
tra cocci di bottiglie e scatole di conserve,
li hanno giustiziati per strada, sulla soglia di casa,
nei poligoni di tiro di innumerevoli caserme,
nell’afona desolazione di campi affollati,
li giustiziavano ogni giorno nelle vostre mani,
nella vostra voce, nella fodera del vostro abito nuovo…

E voi li avete dimenticati?

(Trad.di Nicola Crocetti — per i versi si ringrazia il sito poesiainrete — in apertura, opera di Pieter Bruegel il Vecchio, La caduta degli angeli ribelli.)