Le strade del destino di Bonifacio Vincenzi (Macabor Editore) letto da Angela Greco AnGre

Bonifacio Vincenzi Le strade del destinoLe strade del destino di Bonifacio Vincenzi, edito dalla calabrese Macabor qui ), è un breve romanzo (poco più di un centinaio di pagine) dalla scrittura agile e coinvolgente, che si legge con curiosità e partecipazione.

L’autore, originario di Cerchiara di Calabria (CS), ambienta una storia di restanze (per dirla con l’antropologo, calabrese anch’egli, Vito Teti) partenze, ritorni e riscoperte in un luogo a lui familiare, uno dei paesi del gruppo etno-linguistico albanese presenti sul territorio, Civita, dando il benvenuto al lettore con incipio in italiano e in Arbërshë e introducendo lo stesso a questa doppia realtà. Doppia realtà, che non si limita al richiamo storico delle origini della fiera discendenza di coloro “che approdarono in Italia tra il XV e il XVIII secolo” (pag.5), ma che pervade tutto il romanzo in un continuo entrare e uscire dai ricordi e dai desideri e con i tormentosi dubbi del protagonista maschile, che vive una ambivalenza di se stesso in riferimento ad un fatto preciso che lo ha profondamente segnato.

Il paesaggio è il co-protagonista dei due amici d’infanzia, che si innamoreranno, separeranno e ritroveranno tra dense pagine di realtà non edulcorata nemmeno nei dettagli erotici, mentre un segreto condurrà per mano il lettore fino a sperare per e con gli stessi protagonisti. Perché la partecipazione, si sottolinea, è innegabile e l’autore è di mestiere in questo, grazie ad uno stile dinamico e a una scrittura chiara e diretta.

Nello scorrere della lettura, oltre alla storia di fondo, catturano i dettagli della vita di Lorenzo, da lui scelta e innestata – e mai verbo fu più consono, visto che lo stesso coltiva viti da vino – su un territorio affascinante e pregno di storia e valori forti tramandati senza retorica. Emilia, la protagonista femminile, è l’emblema di tutti coloro che hanno dovuto lasciare la propria terra inseguendo una alternativa di miglior futuro altrove ed è lei, ancora, il simbolo del ritorno e del futuro, nella terra delle origini (e della autentica felicità) mai davvero lasciata. Commuove l’apparente leggerezza con cui Bonifacio Vincenzi tratteggia il dramma dei partiti e del dolore dei restati, che accettano la scelta di coloro che amano, ma senza mai rassegnarsi e sempre confidando in quel ritorno sperato attimo per attimo. E nei casi più felici, come in questo romanzo, realizzato. Cruciale risulta il fatto che questo ritorno a Civita, in Calabria, però, sia dettato da un fatto destinico estremo. Destino con cui sembrano costantemente confrontarsi tutti, dai protagonisti allo stesso territorio, in un richiamo che è contemporaneità per tanti.

La vigna e il vino erano diventati il suo mondo.
Era solo un modo per non pensare a lei.
Avrebbe dovuto pensarla, invece. Affrontare tutto il dolore, strisciare, se fosse stato necessario. Non ne avrebbe cavato nulla, ma almeno se ne sarebbe liberato prima o poi. Invece no. L’aveva tenuta dentro di lui intatta e lui stesso era rimasto con lei. (pag.33)

Il romanzo è una bella prova, riuscita, di analisi introspettiva del protagonista maschile; l’autore ne indaga mente e scelte in maniera impeccabile, offrendo uno spaccato degno di nota. Emergono peculiarità e pensieri che delineano soprattutto il dolore inespresso di Lorenzo – che vive insieme con i suoi perché mai dichiarati e con l’unica risposta che può derivare dai suoi soliloqui – per una scelta apparentemente incomprensibile della sua amata Emilia. Ma da queste pagine emerge anche una smisurata voglia di amare e di essere amati, in un trasporto che costantemente tiene a sé la famiglia, il tempo passato, presente e futuro, e la terra, la loro terra, un legame profondo che nessuna distanza chilometrica sarà mai in grado di spezzare.

Bonifacio Vincenzi ben conosce i suoi conterranei e i loro modi di affrontare gli inevitabili ostacoli della vita; la loro tenacia e il loro cuore, l’orgoglio e la tenerezza, le grandi passioni e la insita nostalgia che ammanta tutto di spietato realismo e magnifico romanticismo al contempo, persino i retro-pensieri, e che genera il fascino tutto particolare della Calabria stessa.

Angela Greco AnGre

Curare il mondo con Simone Weil di Tommaso Greco letto da Angela Greco AnGre

Tommaso Greco Curare il mondo con Simone Weil Ed.Laterza 2023

Curare il mondo con Simone Weil, Editori Laterza, settembre 2023, di Tommaso Greco (si precisa che non siamo parenti) è stato pubblicato in occasione degli ottanta anni dalla scomparsa della filosofa francese, ma non è un atto celebrativo della ricorrenza occorsa. Piuttosto, il testo, magmatico di spunti e riflessioni, è una luce accesa su una visione nuova della società attraverso un pensiero scomodo e inattuale che, per un fatto destinico o per quella nota ricorrenza della Storia, risulta di una necessità indicibile a fronte degli accadimenti quotidiani di cui siamo partecipi come esseri accomunati della stessa sorte.

È una presa di coscienza sulla responsabilità del singolo e della comunità, una presa di posizione nei confronti degli ultimi, l’indicazione di una via senza compromessi per una società civile he rifugga la forza come mezzo di affermazione. Un testo che fornisce molte suggestioni e tocca molte corde; un diorama che apre prospettive, necessarie in moltissimi ambiti, nel solco della pubblicazione precedente – La legge della fiducia (Ed.Laterza, 2021). Questa volta, la fiducia è riposta nell’essere – verbo e sostantivo – umano e non solo nel sistema leggi-giustizia. Tra queste pagine, scritte ancora una volta non solo per gli addetti ai lavori, l’Autore prende in considerazione quello che sembra essere un limite della Giustizia, ovvero l’aver dimenticato, in qualche modo, di essere anche umana. Una Giustizia fatta certamente dagli uomini e per gli uomini, che ha perso la capacità di guardare a questa condizione dallo stesso punto di vista, quello umano, appunto. Ma il libro di Greco, come espresso in quarta di copertina, si domanda che cosa sia la giustizia, come ci si debba comportare per essere giusti e quale possa essere la via per far crescere le nostre relazioni, “sottraendole alla logica del dominio che le uccide”, espandendone il senso e considerando la giustizia che riguarda e definisce ogni rapporto quotidiano.

Ecco, allora, che Simone Weil diventa un mezzo, una strada da percorrere per conformare la Giustizia ad un modello nuovo. Una Giustizia che non sia frutto di applicazione meccanicistica, ma che guardi coloro a cui si rivolge con occhi scoperti, privi di benda; che deponga la spada della forza – giudizio, che categorizza in maniera assoluta; che sostituisca quella bilancia a bracci uguali, su cui vengono posti un peso e un contrappeso miranti all’equilibrio e con la quale iconograficamente è passata alla storia, con un nuovo strumento di misurazione che consideri quanto v’è oltre le mere argomentazioni addotte dal diritto: una bilancia a bracci diseguali. Bilancia nuova, che contrapponga ad un dato peso uno infinitesimamente più piccolo per ripristinare l’equilibrio, allungando non solo per una legge fisica, ma proprio in senso materiale, uno dei due bracci. Braccio, che in Simone Weil acquisirà le sembianze di quello teso verso lo sventurato, nel gesto di chi si abbassa, sbilanciandosi, verso le necessità dell’altro, del buon samaritano del vangelo di Marco. Questa pubblicazione, concretamente, sottolinea che la giustizia non si compie solo per mezzo del rispetto e attuazione delle leggi, ma, quando queste ultime giungono ad un limite, anche grazie ad altro.

Il libro, riproponendo al lettore ampi stralci del pensiero e delle opere della filosofa francese, fa prendere atto e riflettere su quanto serve non solo alla giustizia, ma a ciascuno di noi, perché non si realizzino svantaggi a scapito del più debole. Debole, che con Weil si impara a definire sventurato, ovvero toccato da una sorte non benevola, non voluta, ma accaduta; imparzialità, forza ed equilibrio, i tre principali attributi con cui viene riconosciuta la Giustizia, vengono così sostituiti da attenzione, debolezza e decreazione, i punti fondamentali del pensiero etico – religioso (pag.76) di una figura tenace e coerente, figlia di un tempo di forti tensioni e imminenti transizioni, capace, grazie ad una visione attenta e a un forte spirito critico, di intercettare quanto stava accadendole intorno. Non viene meno il ruolo della legge nel far rispettare i suoi principi, ma viene messo in evidenza che la Giustizia ha – o dovrebbe avere – una componente che travalica il suo aspetto meramente giuridico per rispondere ad un obbligo (che da definizione indica un vincolo ineludibile se non pagando un pegno) anche della coscienza.

Con Weil Tommaso Greco ci conduce a riscoprire quella giustizia cosiddetta dei semplici; la stessa che in “Fontamara” di Ignazio Silone fa dire ai cafoni che siamo tutti cristiani e quindi soggetti e meritevoli delle medesime attenzioni, anche dinnanzi a qualcosa che la legge non eguaglia in virtù di argomentazioni comunque ritenute valide. “Non si fa qualcosa in risposta a ciò che l’altro ha omesso o compiuto; si fa qualcosa per l’altro, per soddisfare la sua domanda di giustizia, investendo fiduciariamente sulla sua capacità di proiettarsi nel futuro” (pag. XII). In questo passaggio si può scorgere il legame tra questo saggio di Tommaso Greco e il precedente, nel quale si confidava nell’azione di ognuno, che non avrebbe dovuto agire per timore, ma in virtù del credere in quanto stava facendo. Così, non già per obbligo-timore delle conseguenze si deve agire verso gli altri, quanto piuttosto guardando invece la reale condizione in cui essi si trovano; infatti, richiamando il vangelo di Marco, in tanti passarono, ma solo uno, il samaritano, si fermò perché aveva guardato lo sventurato e si chinò verso colui che era a terra, tendendo la propria mano per aiutarlo. Nessuno sa nulla dell’altro, né conosce i reali motivi dell’azione, quindi uno si fida e l’altro si affida senza ruoli netti, in un rapporto che non pone nessuno su un piano sfalsato rispetto all’altro. Weil, quindi, con la figura del buon samaritano azzera le differenze tra chi sta in alto e, quindi in posizione privilegiata, e chi sta in basso, lo sventurato, supportando questa tesi finanche con l’esempio di un dio che ha ridotto la sua infinita potenza assumendo la condizione umana e persino quella più infima, la condizione del servo che percorrerà la via fino al Golgota, la maggior infamia a cui i Romani sottoponevano i fuorilegge. Cristo, però, non sovverte la legge di Cesare, ma la affronta in maniera differente.

Dio infinitamente grande si riduce a infinitamente piccolo, si de-crea, toglie cioè potenza ai suoi atti per stare al passo e accanto dell’uomo, realizzando in questo modo l’unica Giustizia concepita dalla filosofa francese. Cristo, la forma umana di Dio, spogliato di tutto e persino della dignità, nudo, non oppone resistenza ai carnefici e sulla croce, che rappresenta per Weil l’estremo del braccio lunghissimo del cielo, diviene il contrappeso minimo opposto all’enorme e vicinissimo mondo di forza e violenza in cui l’essere umano vive, realizzando quella Giustizia perfetta in cui credeva. Cristo concretizza la mitezza nell’escludere dalle sue azioni e persino dal suo pensiero prevaricazione e forza. E alla mitezza viene dedicato il capitolo finale del saggio, un percorso che ripropone una figura cara agli studi dello stesso autore e contemporanea di Simone Weil, quella di Norberto Bobbio. Su quella che Tommaso Greco chiama virtù dei semplici viene consequenziale richiamare anche il Discorso della Montagna (le beatitudini), nel quale viene detto che “i miti erediteranno la terra” ovvero ai miti spetterà quello che è previsto dalla legge (eredità). E se qualcosa, quindi, spetta per legge non è necessario fare guerre o violenze, ovvero non essere miti. In questo punto si può leggere il legame tra mitezza e giustizia perseguito nel libro e nel pensiero di Simone Weil e che presuppone una “educazione all’umanità” persino di coloro chiamati a far parte del complesso mondo della giustizia. Perché giustizia “è fare in modo che a ciascuno venga riconosciuto ciò che gli spetta nelle situazioni più normali e più diverse. Essa ha a che fare prima di tutto con noi stessi e mette in gioco il nostro atteggiamento nei confronti del mondo e di chi lo abita” (pag. IX). La Giustizia, quindi, si legge nel testo, chiama a scegliere se imporre il proprio io e ottenere con la forza i risultati o mettere questo io a servizio del mondo e rinunciare alla forza che si possiede; se prendere tutto lo spazio a disposizione o lasciarne anche per gli altri, tenendo presente che per Weil alle rive della giustizia non si approda attraverso il diritto, che per lei è connesso con la forza.

In Curare il mondo con Simone Weil si apprende che nella giustizia “giuridica” ci si sente obbligati solo in presenza dei diritti degli altri, quindi dove non ci sono diritti non ci sono obblighi, come scrive l’Autore. Vi è un’altra giustizia, invece, che non è determinata dal diritto, ma dal bisogno dell’altro – che si identifica per la Weil con la carità (ossia la capacità del cuore, che in san Paolo è sinonimo di Amore di andare oltre se stessi) – che riabilita, merito indiscusso del saggio di Greco, termini quali “cura” e “attenzione” dell’altro. Altro da sé visto come soggetto necessario alla costituzione di una società nuova, capace di contemplare dignità ed esistenza soprattutto degli sventurati; di coloro, cioè, che non avrebbero altrimenti voce in un mondo ormai dominato da egoismo e prevaricazione. La Giustizia diviene così qualcosa che non si può rimandare, essendo parte integrante e viva di ogni momento vissuto; occorre vedere l’altro qui ed ora, anche quando le regole e le leggi distolgono da ciò di cui esse stesse non possono occuparsi o da quanto non possono vedere per loro stesso limite.

Viene così evocata, con mandato sottinteso di difenderla, quella giustizia che era propria delle società precedenti quella attuale; quelle che abitavano un mondo meno contaminato da interessi e sopraffazioni a fini di prestigio o economici, dove il valore su cui si costruivano legami era quello legato alla persona di per sé. Quella Giustizia che sta fuori dall’eccesso di dire dei tribunali e delle leggi e dei mass-media; quella che all’inizio si è associata ai cafoni, alla gente rurale, ai semplici, che sanno che se annaffi una pianta quella vive, altrimenti – se non te ne sarai preso cura – la pianta morirà. Una giustizia schietta, che mette difronte alla nudità dei fatti, come nudo era quel Cristo sulla croce, che mira all’origine, ossia a quel qualcosa che rimarrà anche quando leggi e diritti saranno mutati col passare del tempo e delle sensibilità.

Tommaso Greco e Simone Weil pagina dopo pagina conducono alla riflessione, a creare una coscienza, a riesumare una responsabilità collettiva, una riflessione sullo stato di fatto che viviamo, dove pare ci si sia dimenticati che Lorenzo era un uomo […]. Grazie a Lorenzo mi è accaduto di non dimenticare di essere io stesso un uomo, come scrive Primo Levi in “Se questo è un uomo” e citato a pag.124 a proposito del muratore, un uomo semplice, che lavorava nei pressi del campo di concentramento dove era detenuto e che ogni giorno gli portava qualcosa da mangiare e grazie al quale si salvò. Perché per scoprirsi esseri umani si ha senza dubbi necessità dell’altro, nel cui volto si ritrova il proprio. [Angela Greco AnGre]

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Tommaso Greco (Caloveto – CS, 1968) è professore ordinario di Filosofia del diritto nel Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Pisa, dove è anche direttore del Centro Interdipartimentale di Bioetica. Dirige la collana “Bobbiana” dell’editore Giappichelli e la rivista di storia della filosofia del diritto “Diacronìa”. Ha pubblicato Norberto Bobbio. Un itinerario intellettuale tra filosofia e politica(Donzelli 2000), La bilancia e la croce. Diritto e giustizia in Simone Weil (Giappichelli 2006) e Diritto e legame sociale (Giappichelli 2012). Per Laterza è autore di La legge della fiducia. Alle radici del diritto (2021, Premio Nazionale Letterario Pisa 2022 per la saggistica) e Curare il mondo con Simone Weil (QUI il libro).

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Angela Greco AnGre (Massafra- TA, 1976) si occupa di poesia e divulgazione letteraria; ha pubblicato un titolo in prosa e diversi titoli in versi ( info, qui ).

Trasparenze 2019 2020 di Felice Serino letto da Angela Greco

Felice Serino Trasparenze 2019 2020La poesia di Felice Serino, in questo tempo difficile e non ordinario, appare al lettore come una epifania; una luminosa presenza utile a prendere consapevolezza di taluni dettagli, che non sfuggono al poeta, attraverso i quali sperare in qualcosa di più, oltre quello che si vede. Serino attraversa le occasioni che gli vengono offerte quotidianamente dal vivere con i sensi disposti a percepire e a codificare quello che accade, anche tra le righe, attento a circoscrivere con perizia l’evento, per fornire una eventuale chiave di accesso, senza imporsi o alzare la voce, quanto piuttosto con la pacata ragionevolezza di chi affronta le situazioni forte del proprio bagaglio spirituale ed esperienziale.

“Trasparenze 2019 2020” (pubblicato in formato elettronico dal sito “Poesieinversi”, con prefazione di Donatella Pezzino) è un altro tassello degno di nota nel lavoro poetico dell’autore; lavoro, che va sempre più affinandosi col procedere delle condivisioni dei versi con i suoi lettori, ponendo in tal modo l’accento sull’importanza, anche in Poesia, del confronto e dello scambio, elementi assolutamente necessari alla crescita.

La raccolta si apre con una emblematica poesia, che funge, a parer mio, anche da incipit: Giobbe, antonomasia della pazienza, nella quale, elaborando la tradizione classica di affidarsi, in incipio, alla divinità, il poeta per mezzo del protagonista invoca l’atto essenziale per il quale, con buona ragione, sembra addirittura scrivere, in due versi dalla forza non indifferente, che tolgono ogni dubbio al fatto che per Serino il vivere è affidarsi a qualcosa di più grande di lui (sacro e poesia, d’altro canto, si possono senza dubbio mettere sullo stesso piano):

Signore liberami
da questa gravezza della carne
-ora mi pesano gli anni
come macigni-

ascoltami - quando
il sangue grida le ferite della luce

ed io come giunco mi piego
in arida aria

Si ritrovano, sempre con piacere, gli elementi caratterizzanti dell’autore; ed ecco che l’occhio non manca di osservare tutto quello che c’è intorno, con riferimenti ad altre materie, oltre quelle letterarie ed artistiche, evidenziando il tutto tondo della poesia di Felice Serino, la sua innata curiosità e la sua volontà di rendere partecipe la poesia di ogni momento della sua esperienza di vita. La trascendenza, tuttavia, sembra avere il posto d’onore in questi versi brevi, incisivi e pregni di terminologie specifiche, trai quali, con una sola parola, spesso si può leggere la tendenza del poeta al ragionamento filosofico, all’interrogazione di se stesso in rapporto al mondo, sempre con la pacata tensione dell’attesa di una risposta di chi sa, però, che non arriverà, perché i quesiti posti sono di un ordine ben oltre questo umano che attraversiamo, come ad esempio si legge in Rinascere negli occhi o in A prescindere, a seguire:

all'inizio nel tempo
primigenio
il primo stupore in un volo

ai piedi dell'angelo
sarà poi precipizio della luce

ma si resta
nella memoria della rosa
che vuole rinascere negli occhi


*

questo uscire rientrare nell’alveo celeste
è racchiuso in un tempo
rallentato
un lampo nel cuore dell’ universo

t’ è stato messo nel cuore il senso
dell’eterno - a prescindere

ogni giorno ti riscopri vivo
come il seme

Una poesia, quella contenuta in “Trasparenze 2019 2020”, che non manca di riferimenti anche ad episodi più concreti, vissuti dall’autore o dedicati a persone reali, che hanno il grande pregio di avvicinare il poeta al lettore, in un rapporto di reciproca stima, indubbiamente lodevole; Serino non spiazza con trovate lessicali ad effetto o termini ineleganti, tutt’altro; la sua è una poesia che continua a carezzare il fruitore anche quando tratta temi scottanti o difficili, con una delicatezza che non può non essere propria della persona che scrive, perché sarebbe difficile creare ad arte quel sentimento che si stabilisce durante la lettura di un’opera. [Angela Greco AnGre]

Cieli capovolti

nel cavo del grido
deflagra rombo di tuono e
scalpitano nella testa
destrieri impazziti

egli non vede
più il corpo della madre
solo cieli capovolti e

accovacciato in un angolo
della parete che separa
vita da vita

trascorre le ore vuote suonando
l’ocarina

Qualcuno si ricorderà di noi di Alessia Pizzi letto da Angela Greco

Qualcuno si ricorderà di noi di Alessia Pizzi (FusibiliaLibri, collana “palco” (teatro di poesia), ottobre 2020; corto teatrale sulle figure storiche di Saffo, Erinna, Anite e Nosside, poetesse dell’antica Grecia in colloquio con Google, motore di ricerca dell’era digitale, come si legge nel sito dell’editore insieme ad un estratto della Introduzione di Antonella Rizzo) prende le mosse da un verso di Saffo, come la stessa autrice rammenta nella sua premessa, nella quale si presenta – romana, classe 1988 – e presenta il lavoro, che ha portato alla stesura di questo piacevole, originale e godibilissimo testo. Alessia Pizzi è laureata in Filologia classica, ma è ben lontana dall’aggiungere polvere all’idea che in tanti hanno di un mestiere come il suo; tutt’altro. L’autrice, con una verve non indifferente ed un entusiasmo notevole, presta la sua penna e la sua creatività alla realizzazione di un’opera meritevole non solo di essere ricordata, come auspica il titolo, ma anche diffusa.

Il pretesto è un incontro paradossale tra quattro poetesse classiche greche e il nostro beneamato Google, voce fuoricampo, che subito si vanta di essere il motore di ricerca più usato al mondo, gettando subito le protagoniste in un momento di confusione. L’impianto scenico è gradevolissimo: un crescendo a ritroso, che parte dalla presenza di lapidi in campo, per giungere alla personificazione carnale delle poetesse, mentre il caro interlocutore cibernetico man mano scompare dall’attenzione del lettore, che viene preso, a metà dell’opera, dal messaggio forte e chiaro che l’autrice dà: le donne, da sempre messe da parte, hanno oggi la possibilità di riscattarsi da ogni forma di violenza subita – dalla censura dell’intelligenza e della scrittura, alla violenza fisica – mettendo fuori la voce.

Tecnicamente il libro è una piece teatrale, un atto unico scritto tra serio e faceto, senza mai venir meno all’attendibilità storica dei fatti narrati, frutto serissimo degli studi dell’autrice, scritta in dialoghi teatrali inframezzati da componimenti poetici atti a sottolineare ora il pensiero ora la poetica delle protagoniste, sulle quali, spicca la figura di Saffo non tanto per grandezza tra pari – mi si passi l’espressione; Saffo non è più brava, né Erinna, Anite e Nosside sono meno brave – quanto piuttosto, per la sua posizione di saggezza nei confronti delle altre e per il suo ruolo di motrice, che invita e sprona le sue “colleghe” a mettere fuori la voce, in virtù di quella sorta di “fortuna”, che le è toccata, quella di non essere dimenticata del tutto, che meno benevola è stata con tante altre.

Un’opera, questa di Alessia Pizzi, che sicuramente ha il grande merito di aver riportato alla luce figure femminili – con tutte le difficoltà del caso, oggigiorno non ancora risolte – dell’età classica obliate per diverse ragioni e meritevoli, invece, di un posto d’onore per l’audacia, la passione e la creatività in un’epoca – non ancora terminata – di assoluto dominio maschile, ma che ha anche il merito, non da poco, di aver innestato antico e nuovo senza togliere meriti, né esaltandole fuori luogo, a nessuna delle due parti, ma creando un ponte utile per la costruzione di un domani più accettabile. L’autrice si pone, quindi, come trade d’union, come collegamento, che non manca di esprimere il suo fermo punto di vista, iniziando il lettore alla visione non stereotipata di alcune realtà letterarie. La poesia è una componente non in primissimo piano; il protagonista del libro è il pensiero dell’autrice sulle scritture e sulle protagoniste femminili dimenticate, come recita la dedica in apertura libro. Ma, d’altronde, come la stessa Saffo afferma, nel suo verso che dà il titolo al libro, la Poesia sa a priori che sarà materia futura, oltre il trascorrere del tempo e la dimenticanza, mentre è giustissimo che si ricordi che per troppo tempo le donne sono state volutamente dimenticate e azzerate (e volutamente non apro la discussione a riguardo, ma ci sarebbe davvero tanto da dire e da scrivere).

Il linguaggio di Alessia Pizzi, laddove non riporta i versi delle poetesse, è assolutamente aderente alla sua generazione, con espressioni appositamente usate per meglio evidenziare il divario temporale tra le parti; un’operazione che non poteva sfuggire ad una filologa, che ha ben rappresentato l’evoluzione della lingua in poche e centratissime pagine, regalando al lettore un libro e al contempo un manifesto sulla difesa della femminilità e dei suoi sacrosanti diritti, supportata da una validissima introduzione e da una editrice conosciuta per il suo impegno in questo campo.

Angela Greco

[immagini  per gentile concessione dell’autrice e dell’editore]

Parole raccolte di Giampaolo Giampaoli letto da Angela Greco

Edito da Sillabe di Sale nel novembre 2020, Parole raccolte è l’ultima silloge del lucchese Giampaolo Giampaoli. Opera, che – come si legge nell’estratto della prefazione di Caterina Trombetti in quarta di copertina – cerca di ricostruire “il processo di formazione della poesia” e “quali sono le condizioni da cui emerge la scrittura come messaggio che ha origine dall’animo umano”; opera, nella quale – si legge ancora nella prefazione –  “I versi devono, quindi, nascere dal cuore del poeta, indomabili afflati, condurlo per mano alla conoscenza di se stesso e, per valore comunicativo, essere rivolti all’altro”. Un lavoro che colloca immediatamente la silloge in una certa recente classicità, fortemente radicata nella contemporaneità italiana inerente questo genere letterario, dove poesia è pari a lirica e il poeta è impegnato in una gratuita opera didascalica, in una creazione, che, bisogna dirlo, appaga i più.

Leggo suoni di poesia
e profondi penetrano,
nascosti nelle membra
consunte dal volgere
dei giorni;
la voce grida
il male della mente,
distoglie voluttuosa
i miei sensi nascosti.
La rabbia vaga
in un cuore fuso
al dolore senza origine,
perso nell’esistere.
Vibrerei le nostre emozioni
all’unisono liberamente,
ti trasmetterei spontanee
immagini delle parole,
ti guiderei lontano nel tempo
per restituirti alla materia
pacata.
.
(“Condurti”)
.

Giampaolo Giampaoli vuole essere poeta. Non si riescono ad avere dubbi su questo nemmeno leggendo alcuni componimenti dove ad hoc, l’autore si dimena tra difficoltà del vivere, del sentire e non meglio identificati dolori della mente, in una danza derviscica per la massima parte solo intorno a se stesso. Giampaoli è poeta di quelli fieri del proprio operato (la prima sezione della silloge è proprio dedicata alla riflessione sulla poesia dove, nonostante anche una certa vaghissima ironia, prevale il mestiere di insegnante che l’autore svolge), orgogliosi di trovare un posto nella libreria principale e nei favori dei lettori; condizione che, per tanti scrittori attuali di versi, non è qualcosa di negativo, anzi. Fin dal linguaggio, volutamente in un registro tutt’altro che basso, vicino, contemporaneo, questo autore s’impegna acché il lettore riconosca il poeta ben distinto da sé e anche abbastanza lontano dal quel suo povero quotidiano messo a dura prova nell’ultimo anno e finito in una incertezza totale. E si può solo essere contenti per lui, se riesce in questo intento di essere riconosciuto.

Cedo un foglio bianco,
pagina dello schermo afona,
scrivete una vostra sentenza
sulla materia dolce o aspra
della poesia, emersa
dall’oscuro antro dell’essere.
.
(“A voi”)
.

Parole raccolte, il cui titolo può indicare al contempo la raccolta (di un frutto del lavoro) e la condizione intima, è articolata in tre sezioni più un Epilogo, quest’ultimo interessante soprattutto per la chiarezza, che in altri momenti sfugge, nel quale l’autore sembra compendiare il suo concetto di poesia, presentando schematicamente la sua ricerca, come si legge nella seconda parte di “Perenne moto”:

Perenne moto nel procedere
alla ricerca dell’ingenuità,
anelo a un desiderio
incalzante, inconcludente, distruttivo.
Non trovo la linfa mai concepita,
la vado ancora cercando
ma in silenzio, senza delinearla,
eppure esistente.
.

e il suo forte pensiero su che cosa sia per lui la Poesia (“Il vento / da dentro consuma, / un dolore indistinto / che non si attenua”) messo in evidenza nel componimento in chiusura dedicato presumibilmente ad un bambino, che chiude la silloge, i cui due ultimissimi versi dichiarano apertamente la sua visione del mondo:

È un vento che penetra,
che non si disperde,
dormi sereno stasera,
calma è la musica che
pervade l’atmosfera,
ci pervade in un abbraccio
caldo, colma l’animo,
il tuo animo non vorrei
averlo leso. Il vento
da dentro consuma,
un dolore indistinto
che non si attenua;
dormi sereno stasera
almeno tu che sei
l’amore inviolato.
.
(“Dormi sereno”)
.

Un lavoro, questo di Giampaolo Giampaoli, che va a consolidare la strada intrapresa negli ultimi anni dalla poesia italiana, dove l’eco di un glorioso passato apporta quella sicurezza, che conduce autore e lettore al porto sicuro, nonostante una certa difficoltà di coerenza tra le liriche, dove non è semplice trovare il legante, se non nella più ampia lettura di cosa sia Poesia per una certa fascia di lettori e di mercato.

Ringrazio l’autore, che ha voluto sottoporre alla mia lettura la sua opera, alla quale, comunque, auguro buon cammino.

Angela Greco

Ricordando Alfredo de Palchi

Il giardino dell'Eden di Marc Chagall

“Genesi della mia morte”, da Estetica dell’equilibrio di Alfredo de Palchi, letto da Angela Greco 

Riproponiamo, con immutata stima, questa pagina di qualche anno fa (quando i versi erano ancora  inediti) in memoria del poeta Alfredo de Palchi scomparso in questi primi giorni di agosto 2020.

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Genesi della mia morte, tratta da Estetica dell’equilibrio, di Alfredo de Palchi, è un susseguirsi in prosa poetica di avvenimenti che in sedici giorni (in apertura è riportata la data 1-16 novembre 2015, presumibilmente riferibile ai giorni in cui il poeta ha segnato su carta quanto oggi si legge) ripercorre, ma sarebbe meglio dire ripropone in una veste differente da quella conosciuta ed accettata, la genesi del genere umano e la stessa esperienza di vita di Alfredo de Palchi, classe 1926, veneto emigrato a Parigi e da qui, negli Stati Uniti nella metà del secolo scorso, dopo essere stato prosciolto dalle accuse che lo avevano portato in carcere ai tempi del secondo conflitto mondiale; “e ancora EUROPEO abito qui (negli States) come italiano residente in America e non come italo-americano” sono parole dello stesso de Palchi. Dell’intera vicenda poetica depalchiana, sempre in simbiosi con la biografia del poeta stesso, si sono occupati Luigi Fontanlla, Roberto Bertoldo, che ha curato il volume delle opere complete del poeta, e Giorgio Linguaglossa (rintracciabile tramite motore di ricerca).

un Uomo in Vetri Rotti

La prosa poetica dei sedici “quadri” di Genesi della mia morte, si apre con una definizione priva di diplomazia e buonismo nei confronti dell’Uomo – chiamato dal poeta “antropoide” con un non celato rimando all’automatismo, alla meccanica, alla robotica, tutti elementi che mirano alla sottrazione di umanità – e snocciola paragrafo per paragrafo la vicenda umana dell’autore e del tempo che ha attraversato e lo ha attraversato, creando un meta-ambiente che non è più né l’uno (la vicenda umana) né l’altro (il tempo in cui accadono gli avvenimenti anche storici), ma è un nuovo mondo-luogo dove via via l’antropoide prende consapevolezza della sua natura, altamente dissimile e decisamente lontana dal destino religioso-utopistico-positivo in cui si finisce per credere, forse per retaggio o forse per apatia, e a cui è avviato l’uomo fin dalla nascita.

Genesi della mia morte è la partita a scacchi de “Il settimo sigillo” di Ingmar Bergman, un bianco e nero dato non già dall’assenza di mezzi cinematografici che contemplino il colore, ma come scelta estrema di assenza totale di orpelli, di blandizie, in favore di un momento privilegiato – il dialogo con la Morte – in cui non conta più tutto il superfluo di cui si è stati capaci fino a quel momento ultimo.

il_settimo_sigillo

In queste sedici brevi prose la narrazione procede dal luogo più vicino verso il più lontano, includendo in questa genesi se stesso e il genere umano tutto, la natura e lo stesso pianeta che l’uomo abita, e in esse l’autore si mantiene sempre all’esterno, sopra le parti, pur partecipando con passione del destino suo e non solo suo, e al contempo dicendo esattamente quello che pensa e prova dinnanzi alla realtà e al suo deterioramento. In un capovolgimento degno di chi ha fatto i conti anche col momento più duro e difficile della propria vita, il poeta dice che in fin dei conti il suo permanere ancora tra i viventi è stato solo una scelta della Morte stessa e, giunto ad un punto di non ritorno, addirittura suggerisce a questa signora mai nominata, ma riconoscibilissima, alcuni accorgimenti “per migliorare” la situazione ormai disperata in cui verte ancora anche egli stesso (forse pensando al futuro, partendo dalle condizioni attuali), come si legge nel “quadro”n.11: “Gentile Signora liberali tutti dal male della poesia liberandoli dal male di essere antropoidi. . .gestiscili (gli esseri umani) nella vanitas vanitatum omnia vanitas. . .”alfredo-de-palchi-legge

Inevitabilmente giunge il momento finale: il poeta ammette che la “razza sleale elettasi superiore al pianeta per imporsi ed esplodere terrore” non terminerà nonostante gli eventi traumatici naturali e non che di quando in quando decimano la specie, e, dopo una vita intensamente vissuta e dopo essere sopravvissuto a tutti i tranelli che la stessa gli ha teso, serenamente chiude questi inediti immaginando una “fine suggestiva”, come da lui stesso definita, consistente nell’ “assistere allo svuotarsi del pianeta” e nel fatto che la Morte stessa smetta di proteggerlo, liberandolo una volta per tutte da quello che lui definisce “male globale”. Ed una volta liberata la terra dall’uomo, ormai identificato nel male di grado più elevato, il pianeta potrà tornare, chiudendo quasi il mitico serpente che si morde la coda, ad essere quel Giardino dell’Eden da cui ebbe inizio la stessa vicenda umana.

(Angela Greco)

 *

Alfredo de Palchi, da ESTETICA DELL’EQUILIBRIO, estratti da Genesi della mia morte 

1-16 novembre 2015

1

È animale quantitativo autoqualitativo autorevole prepotente razzista astuto violento e da unico vile appartenente alla fauna spadroneggia su ogni specie. . . nell‘antico Latium l’antropoide legionario conquista e costruisce civiltà a ovest sud est nord. . .

pregiudizialmente assume che tu, fine di tutto, sia femmina perenne temibile di nome Mors Moarte Mort Muerte Morte. . .

 

9

con felicità intatta non temo l‘assidua protezione che mi sfiora a sbuffi lievissimi d’aria. . . che tu segua la mia positiva certezza indica che non dubiti del mio rispetto. . . mi accorgo che ti avvicini e io non fuggo poi che la mia esistenza si prolunga e la tua maniera protettiva si gratifica della mia gratitudine. . . chi ti teme e scongiura vive da defunto. . . non intuisce che sai che terrorizzato aspetta la convenienza polare. . .

 

11

Il pianeta sta affondandosi nell’abisso infinito per abbondanza di destinati a smorzare poesia della loro insufficienza. . .  superfluamente megalomani antropoidi masse di indistinti li onorano effigiati di eccelsa vanità. . . i rari eletti anch’essi brutali in sciame di vespe svolazza punzecchiando senza sgocciare miele. . . ognuno adatto alla fatica nei campi si convince a inventarsi barattiere bancario commesso al monte di pietà e di essere di troppo e mercenario partecipante all’inevitabile. . . Gentile Signora liberali tutti dal male della poesia liberandoli dal male di essere antropoidi. . . gestiscili nella vanitas vanitatum omnia vanitas. . .

 

16

periodi lunghi di pestilenze puliscono il globo di antropoidi inceneriti dalla fiamma che ti illumina sul pianeta. . . ma la fiamma non fa abortire la femmina del mostriciattolo che le gonfia a calci la pancia. . . moltitudini affamate e prepotenti non smettono di devastare inquinare e inaridire la terra. . . razza sleale elettasi superiore al pianeta per imporsi ed esplodere terrore. . . io non mi esimo benché manchi d’innati componenti terroristici. . . la mia fine suggestiva sarebbe di assistere allo svuotarsi del pianeta e sapere che tu smetti di proteggermi liberandomi per ultimo dal male globale. . .  e che il pianeta libero dal superno male della mia razza sia finalmente Giardino dell’Eden.

.

immagini, dall’alto verso il basso: Il giardino dell’Eden di Marc Chagall ; Uomo e finestra rotta dal web; Il settimo sigillo di Ingmar Bergman;  Alfredo de Palchi; Adamo ed Eva, Lucas Cranach, dettaglio.

Rileggendo il 2019: Lievito Madre di Agata De Nuccio – nota di Angela Greco

Lievito Madre (aprile 2018) è il più recente lavoro poetico di Agata De Nuccio – poetessa salentina nata a Castrignano del Capo e residente a Erbé, nella provincia veneta – per i tipi della veronese Officina Grafica Edizioni, casa editrice con la quale l’autrice collabora proficuamente da tempo, anche con produzioni in prosa (letteratura per l’infanzia).

La silloge – il cui titolo, in una metafora cara a tutti, rimanda senza difficoltà al lavoro artigiano delle mani che creano cibo – con introduzione di Paolo Masini e Grazia Francescato, letteralmente si apre al lettore sin dalla copertina, sulla quale, nell’intero formato delle due metà che la compongono, è riportato un incipit, che senza dubbi può essere considerato anche una estrema sintesi della poetica di questa cortese e solare autrice di lungo corso: “Fuori nemmeno una bava di vento / dentro lo splendore della tempesta, / e un timone di poesia.” Un incipit che segna il percorso di Agata, dagli ossimori della sua finibus terrae d’origine, all’approdo, tutto interiore e guidato dalla Poesia, ad una agognata serenità per sé e per i suoi affetti. Affetti che, nel caso della De Nuccio, travalicano con generosità il limitato a se stessa, per abbracciare per cerchi concentrici l’intera opera del creato, a cui è dedicato il suo impegno civile in favore della Natura realizzato attraverso specifici organi competenti, operanti sul territorio dove vive, e attraverso l’educazione alla lettura e all’ascolto nelle scuole, dove Agata, poetessa impegnata nel sociale, porta praticamente la sua esperienza letteraria.

Lievito Madre è un testardo atto di denuncia in favore dell’amore e di amore per la poesia (Con il passare del tempo / il mio cuore eremita, impasta inverni e vento / e tutte le parole che conosco / le scrivo, anche quando mi trema la voce. / E ti chiamo si legge in “Pane quotidiano”), ispirato, senza mai svelarlo del tutto, se non nella maiuscola dell’aggettivo del titolo, alla dipartita figura materna e composto da liriche di varia lunghezza e da una sezione denominata “140caratteri e oltre!” che rimanda all’espressione contemporanea dei tweet, area telematica dove la poesia, in forma immediata e brevissima, sta incontrando un vasto favore di pubblico; ma l’immediatezza è una peculiarità della poesia di Agata De Nuccio, capace di esprimere senza mediazioni o artifici retorici, la grandezza di un sentimento unitamente allo stupore, alla meraviglia, il cui senso permea tutta la silloge.

Una chiarissima fusione-interazione tra l’elemento umano e quello naturale, quell’elemento materno che scorre tra i versi e che tende a coincidere con la Terra, un sentimento panico, coinvolge fina dalla prima lirica (“Sopra di noi”), dove tutti gli elementi atmosferici concorrono alla poesia e al poeta non rimane altro che prenderne coscienza e trascriverli per futura memoria. E Agata è autrice attenta ai segni e ai segnali, esterni ed interiori, per farne memoria; non è un caso che tanto del suo lavoro sia rivolto alle generazioni in erba, fucine di futuro a cui affidare la salvezza finanche del pianeta: Nonostante l’uomo / il fiume / attraversa le foreste / e varca le porte del mare, / nonostante il petrolio / e la miseria dell’animo / il richiamo della terra / echeggia profondo e sonoro, come si legge in “Nonostante l’uomo”.

Una presenza importante, in Lievito Madre, è quella del sacro anche in senso religioso: Agata De Nuccio non è mai da sola ad affrontare le cose del mondo, ma si avvale sempre della presenza di Dio, come si legge, ad esempio, in “Inchiostro di radici”, dove un sentire francescano conduce l’autrice ad un’analisi della realtà ordinata del creato, ma deturpata dall’uomo e, chiedendo al Signore Avvolgi la mia penna nel sudario / rendi le mie mani forti e misurate / per arare le dure zolle; / la terra geme Signore / devo fermare l’orrendo scempio, / degli uomini servi degli dei, dà mandato alla poesia per mano dello scriba, come la De Nuccio nomina spesso se stessa e il poeta, di restituire al creato quanto è stato sottratto dalla parte negativa del genere umano.

E, sicuramente, nell’impaginazione del libro è stato fortemente voluto, dopo questa lirica, l’inserimento del messaggio di speranza contenuto in “Verrà la pace”, in cui si legge: Quando finiranno le guerre / […] File di pani spargerò sull’aia / colma di sole / nel grembo della terra / seminerò chicchi di grano. / Non importa se voi spargerete / armi, odio e fuoco; / si accenderà la scintilla del perdono, / si riconosceranno gli uomini / nel sogno immutato; / dalle foglie di ulivo attingerò / l’olio sacro della pace.

L’ultimo forte elemento caratterizzante della poesia contenuta in questa meritevole silloge è l’appartenenza, le radici: Agata De Nuccio instilla con parsimoniosa dolcezza e mai celata passione, anzi sarebbe meglio dire dissemina, momenti e caratteristiche della sua terra d’origine, inframezzandoli con affetto a quelli inerenti la terra dove attualmente vive, serbando una gioia che non è ricordo nostalgico, ma presenza pulsante accanto: Agata non ha lasciato il Salento, ma lo ha portato con sé, impastandolo con la sua nuova realtà, in un connubio che non passa inosservato e che diviene valore aggiunto per questa Autrice dall’occhio lucido di realismo – si leggano “Stelle estinte” e “Tu resti comunque”, dove il dolore per una perdita non viene celato o camuffato, ma si fa momento propizio per riflessioni-azioni profonde, ricordando che Agata è persona pratica e di azione, non di sterili parole e vagheggiamenti – , appassionata della Vita, e che non ha mai smesso di credere nel Bene e nella Bellezza. [Angela Greco]

*

Alcuni estratti da Lievito Madre di Agata De Nuccio (Officina Grafica Edizioni, 2018).

Dall’impasto
di una vita semplice,
lavorata con mani sapienti,
da lì nascerà
e crescerà
il Lievito Madre per il nostro spirito.
.
[esergo]
.
.
.
L’arte di resistere
.
Sulla poltrona della mia coscienza
siedono bambini,
donne e uomini senza diritti,
siedono i deboli, i malati e i derelitti,
siedono i potenti e i malvagi;
sulla poltrona della mia coscienza
siede la mia penna,
e tutti sono citati nella mia poesia;
ai primi spetta di diritto di entrare
in questa alba che germoglia dalle rovine,
ai secondi l’obbligo di ascoltare
il tuono delle loro bombe;
mentre il cuore tumeggia contro le costole
sventolerò sulle loro bocche
la poesia
e il silenzio eloquente della luna.
L’arte di resistere spetta allo scriba.
.
.
.
Poesis
.
Abito dentro un albero che porta il mio nome
come un ramo cero l’infinito,
le stagioni perse e ritrovate,
cerco i coni d’ombra e di luce e respiro la vita;
vivo abbracciata alla terra, a ossa vive
con le radici impresse a ferro rovente nella roccia;
le foglie sono fogli scritti dal cielo
aperti come libri sui banche di scuola;
il vento ti porterà il profumo della mia parola.
Abito dentro un albero che porta il mio nome
e il mio nome è Poesis.
.
.
.
Stelle estinte
.
Mi spezza le ossa la sera
quando ripongo in soffitta
i miei sogni e le stelle estinte.
Loro, di notte,
scendono come piume
dove tu vivi
e io racconto bugie alle ombre.
.
.
.
dalla sezione “140caratteri e oltre!”
.
.
Δ  Il congedo della calda stagione
somiglia alla pienezza dell’ultimo bacio dato al vento,
il mio autunno sta seduto in una stanza
e scrive fragili parole su carta di cielo.
.
.
.
Δ  Due cose mi restano negli occhi.
il mare e il tuo sorriso.
La legge della meraviglia non ha bisogno
di essere scritta
basta fermarsi un attimo e contemplare l’infinito.
.
.

Lievito Madre di Agata De Nuccio letto da Angela Greco

Lievito Madre (aprile 2018) è il più recente lavoro poetico di Agata De Nuccio – poetessa salentina nata a Castrignano del Capo e residente a Erbé, nella provincia veneta – per i tipi della veronese Officina Grafica Edizioni, casa editrice con la quale l’autrice collabora proficuamente da tempo, anche con produzioni in prosa (letteratura per l’infanzia).

La silloge – il cui titolo, in una metafora cara a tutti, rimanda senza difficoltà al lavoro artigiano delle mani che creano cibo – con introduzione di Paolo Masini e Grazia Francescato, letteralmente si apre al lettore sin dalla copertina, sulla quale, nell’intero formato delle due metà che la compongono, è riportato un incipit, che senza dubbi può essere considerato anche una estrema sintesi della poetica di questa cortese e solare autrice di lungo corso: “Fuori nemmeno una bava di vento / dentro lo splendore della tempesta, / e un timone di poesia.” Un incipit che segna il percorso di Agata, dagli ossimori della sua finibus terrae d’origine, all’approdo, tutto interiore e guidato dalla Poesia, ad una agognata serenità per sé e per i suoi affetti. Affetti che, nel caso della De Nuccio, travalicano con generosità il limitato a se stessa, per abbracciare per cerchi concentrici l’intera opera del creato, a cui è dedicato il suo impegno civile in favore della Natura realizzato attraverso specifici organi competenti, operanti sul territorio dove vive, e attraverso l’educazione alla lettura e all’ascolto nelle scuole, dove Agata, poetessa impegnata nel sociale, porta praticamente la sua esperienza letteraria.

Lievito Madre è un testardo atto di denuncia in favore dell’amore e di amore per la poesia (Con il passare del tempo / il mio cuore eremita, impasta inverni e vento / e tutte le parole che conosco / le scrivo, anche quando mi trema la voce. / E ti chiamo si legge in “Pane quotidiano”), ispirato, senza mai svelarlo del tutto, se non nella maiuscola dell’aggettivo del titolo, alla dipartita figura materna e composto da liriche di varia lunghezza e da una sezione denominata “140caratteri e oltre!” che rimanda all’espressione contemporanea dei tweet, area telematica dove la poesia, in forma immediata e brevissima, sta incontrando un vasto favore di pubblico; ma l’immediatezza è una peculiarità della poesia di Agata De Nuccio, capace di esprimere senza mediazioni o artifici retorici, la grandezza di un sentimento unitamente allo stupore, alla meraviglia, il cui senso permea tutta la silloge.

Una chiarissima fusione-interazione tra l’elemento umano e quello naturale, quell’elemento materno che scorre tra i versi e che tende a coincidere con la Terra, un sentimento panico, coinvolge fina dalla prima lirica (“Sopra di noi”), dove tutti gli elementi atmosferici concorrono alla poesia e al poeta non rimane altro che prenderne coscienza e trascriverli per futura memoria. E Agata è autrice attenta ai segni e ai segnali, esterni ed interiori, per farne memoria; non è un caso che tanto del suo lavoro sia rivolto alle generazioni in erba, fucine di futuro a cui affidare la salvezza finanche del pianeta: Nonostante l’uomo / il fiume / attraversa le foreste / e varca le porte del mare, / nonostante il petrolio / e la miseria dell’animo / il richiamo della terra / echeggia profondo e sonoro, come si legge in “Nonostante l’uomo”.

Una presenza importante, in Lievito Madre, è quella del sacro anche in senso religioso: Agata De Nuccio non è mai da sola ad affrontare le cose del mondo, ma si avvale sempre della presenza di Dio, come si legge, ad esempio, in “Inchiostro di radici”, dove un sentire francescano conduce l’autrice ad un’analisi della realtà ordinata del creato, ma deturpata dall’uomo e, chiedendo al Signore Avvolgi la mia penna nel sudario / rendi le mie mani forti e misurate / per arare le dure zolle; / la terra geme Signore / devo fermare l’orrendo scempio, / degli uomini servi degli dei, dà mandato alla poesia per mano dello scriba, come la De Nuccio nomina spesso se stessa e il poeta, di restituire al creato quanto è stato sottratto dalla parte negativa del genere umano.

E, sicuramente, nell’impaginazione del libro è stato fortemente voluto, dopo questa lirica, l’inserimento del messaggio di speranza contenuto in “Verrà la pace”, in cui si legge: Quando finiranno le guerre / […] File di pani spargerò sull’aia / colma di sole / nel grembo della terra / seminerò chicchi di grano. / Non importa se voi spargerete / armi, odio e fuoco; / si accenderà la scintilla del perdono, / si riconosceranno gli uomini / nel sogno immutato; / dalle foglie di ulivo attingerò / l’olio sacro della pace.

L’ultimo forte elemento caratterizzante della poesia contenuta in questa meritevole silloge è l’appartenenza, le radici: Agata De Nuccio instilla con parsimoniosa dolcezza e mai celata passione, anzi sarebbe meglio dire dissemina, momenti e caratteristiche della sua terra d’origine, inframezzandoli con affetto a quelli inerenti la terra dove attualmente vive, serbando una gioia che non è ricordo nostalgico, ma presenza pulsante accanto: Agata non ha lasciato il Salento, ma lo ha portato con sé, impastandolo con la sua nuova realtà, in un connubio che non passa inosservato e che diviene valore aggiunto per questa Autrice dall’occhio lucido di realismo – si leggano “Stelle estinte” e “Tu resti comunque”, dove il dolore per una perdita non viene celato o camuffato, ma si fa momento propizio per riflessioni-azioni profonde, ricordando che Agata è persona pratica e di azione, non di sterili parole e vagheggiamenti – , appassionata della Vita, e che non ha mai smesso di credere nel Bene e nella Bellezza. [Angela Greco]

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Alcuni estratti da Lievito Madre di Agata De Nuccio (Officina Grafica Edizioni, 2018).

Dall’impasto
di una vita semplice,
lavorata con mani sapienti,
da lì nascerà
e crescerà
il Lievito Madre per il nostro spirito.
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[esergo]
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L’arte di resistere
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Sulla poltrona della mia coscienza
siedono bambini,
donne e uomini senza diritti,
siedono i deboli, i malati e i derelitti,
siedono i potenti e i malvagi;
sulla poltrona della mia coscienza
siede la mia penna,
e tutti sono citati nella mia poesia;
ai primi spetta di diritto di entrare
in questa alba che germoglia dalle rovine,
ai secondi l’obbligo di ascoltare
il tuono delle loro bombe;
mentre il cuore tumeggia contro le costole
sventolerò sulle loro bocche
la poesia
e il silenzio eloquente della luna.
L’arte di resistere spetta allo scriba.
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Poesis
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Abito dentro un albero che porta il mio nome
come un ramo cero l’infinito,
le stagioni perse e ritrovate,
cerco i coni d’ombra e di luce e respiro la vita;
vivo abbracciata alla terra, a ossa vive
con le radici impresse a ferro rovente nella roccia;
le foglie sono fogli scritti dal cielo
aperti come libri sui banche di scuola;
il vento ti porterà il profumo della mia parola.
Abito dentro un albero che porta il mio nome
e il mio nome è Poesis.
.
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Stelle estinte
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Mi spezza le ossa la sera
quando ripongo in soffitta
i miei sogni e le stelle estinte.
Loro, di notte,
scendono come piume
dove tu vivi
e io racconto bugie alle ombre.
.
.
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dalla sezione “140caratteri e oltre!”
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Δ  Il congedo della calda stagione
somiglia alla pienezza dell’ultimo bacio dato al vento,
il mio autunno sta seduto in una stanza
e scrive fragili parole su carta di cielo.
.
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Δ  Due cose mi restano negli occhi.
il mare e il tuo sorriso.
La legge della meraviglia non ha bisogno
di essere scritta
basta fermarsi un attimo e contemplare l’infinito.
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Felice Serino, Lo sguardo velato – 2016-2017 letto da Angela Greco

Felice Serino, Lo sguardo velato – 2016-2017 letto da Angela Greco

La poesia di Felice Serino è un incontro atteso, un momento di conforto, una superficie solida a cui poggiarsi nella inevitabile stanchezza del giorno dopo giorno. Serino tratta la poesia con la quotidianità di chi è a lui familiare e i suoi versi mettono in luce l’affetto per la poesia stessa, la costanza che lo ha condotto fino ad oggi e l’estraneità a quei fenomeni sempre più diffusi di personaggi in cerca di facile notorietà, che manipolano poesia in favore del proprio ego o dell’ego del proprio editore. Felice Serino, scrive come dono di sé all’altro, i suoi versi non chiedono nulla in cambio, ma, semmai, sono gratificati dal fatto che le sue esperienze possano essere in qualche modo utili ad altri.

Realizzato nel giugno 2018 per il sito poesieinversi.it, Lo sguardo velato raccoglie questo ultimo anno di versi e si apre con un esergo – in seno a cieli di cui non è memoria / dove nessun grido resta / inascoltato / lì è la vita nascosta – che è fin da subito un’immersione nei temi cardini della silloge e della poetica stessa di Serino: il cielo, quindi l’aspetto oltre il visibile degli accadimenti; la ricerca-conoscenza di Sé attraverso la frequentazione-studio del sacro e l’analisi del rapporto tra umano e divino.

C’è in questi versi la calma di chi osserva tutto quanto ha intorno e di chi ha attraversato tanto delle cose del mondo; una quiete, che giunge al lettore con dolcezza e fermezza nelle convinzioni, come nella costante e decisiva presenza di Dio, una presenza che nello scorrere di queste pagine e delle varie opere dello stesso autore, si fa man mano più viva e vicina e alla quale non è rivolta nessun rimprovero, nessuna parola negativa, quanto piuttosto un sommesso ringraziamento per com’è andata (perché non è andata peggio).  La poesia e l’anima-spirito divino fanno parte per Felice Serino dello stesso comparto, a tratti della stessa dimensione, e la prima sembra l’abito che veste i secondi, la forma grazie alla quale si manifestano e Serino ci presenta così la poesia: dici poesia intendi finestra / affaccio dell’anima bagnata da alfabeti di lune / è finestra su un mare aperto / poesia  /per l’orecchio del cuore-conchiglia (“Poesia-finestra”), come un tramite tra l’esterno e l’interno che in questo caso è anima e anima è, per questo poeta, il divino che ci abita, come nei toccanti versi di “Il tuo volare alto” dove la traccia del tempo che trascorre è di una bellezza particolare.

La pluralità di temi e livelli (fisico e metafisico, onirico e reale) emerge in testi come “Stanze” e “Epifanie”, che al meglio rendono il percorso di Felice Serino, sempre in equilibrio tra umanità e visone alta, attento ai dettagli di quanto lo circonda e consapevole del fattore tempo, utilizzato al meglio nel donare al lettore un vademecum per meglio procedere nei suoi giorni; quasi un consiglio da parte di chi non si è perso in sciocchezze, ma ha perseguito con fiducia e tenacia il dono della Poesia. [Angela Greco]

Poesie tratte da Lo sguardo velato – 2016-2017

Nel paese interiore
.
nel paese interiore
eiaculo i miei sogni –
vivo una stagione
rubata al tempo -mimesi
icariana sul vetro del cielo-
.
nel paese interiore
brucia il mio daimon
di febbre e di luce
.
.
§
.
.
Dell’ indicibile essenza
.
dell’ indicibile essenza
noi sostanza e pienezza
.
solleva l’angelo un lembo
di cielo:
.
in questa vastità soli
non siamo: miriadi
di mondi-entità ognuno
in una goccia
di luce
.
.
§
.
.
Stanze
.
le notti inzuppate di sogni
quando
nonsense veleggiano
sulle ondivaghe acque dell’inconscio
.
o ti vedi seguire
una successione di stanze
e ti perdi e ti ritrovi
in un’altra realtà-sogno o dimensione
.
.
§
.
.
Epifanie
.
vita che si guarda
vivere e ci guarda
vita che si pensa ed è
.
-riflessa vita che
apre la fronte del mattino
.
ed è esistere
nel suo ricrearsi
.
epifanie
.
§
.
.
Il tuo volare alto
.
l’anima spando sulla terra
a ricambiarmi una solitudine
ampia come il cielo
.
mi appresto a gran passi agli ottanta
e ancor più poesia ti canto
-del mio sangue azzurra ala
.
ai confini della sera in quel
farneticare che richiama la morte
.
il tuo volare alto
come preghiera
.
.

Felice Serino è nato a Pozzuoli nel 1941. Autodidatta. Vive a Torino.  Copiosa la sua produzione letteraria (raccolte di poesia: da “Il dio-boomerang” del 1978 a “Dove palpita il mio sogno” del 2018); ha ottenuto importanti riconoscimenti e di lui si sono interessati autorevoli critici. E’ stato tradotto in otto lingue.  Intensa anche la sua attività redazionale.  Gestisce vari blog e siti.

“Lo sguardo velato” è disponibile cliccando sul seguente indirizzo: https://sestosensopoesia.files.wordpress.com/2018/06/felice-serino-lo-sguardo-velato-2016-17.pdf

Le ore del terrore di Simone Consorti letto da Angela Greco

Edito da L’arcolaio (novembre 2017) con prefazione di Anna Maria Curci, Le ore del terrore di Simone Consorti è un imponente custode di versi, suddiviso in tre sezioni, che impegna il lettore fin dal titolo. La silloge si apre con un significativo e non credo casuale testo intitolato Alla frontiera, i cui primi due versi recitano: “La guardia di frontiera / ha detto che non sono io” dove, se potessimo applicare quanto accade in una narrazione, ovvero che l’incipit ha in sé l’intera opera, saremmo – il condizionale è d’obbligo – di fronte ad una netta presa di distanza del creatore dalla sua creatura, ad una visione esterna della materia trattata e il che già farebbe dire che siamo in presenza di un autore di un certo calibro, capace di rendersi estraneo ai più comuni moti che muovono alla poesia i più.

La medesima poesia, quella d’apertura, per me la più emblematica, nel prosieguo richiama altre figure “e che neppure mi assomiglio / tantomeno mi potrei spacciare / per mio padre o per mio figlio / Mi intima [la guardia] di restare fermo / e per convincermi mi mostra uno schermo / che qui chiamano specchio” utili al poeta per mettere in chiaro una sorta di obiettività a garanzia di quanto verrà offerto al lettore (qui lo specchio è mezzo di visione di se stesso, una semplice lastra riflettente), in cui sembra che il protagonista si faccia semplice strumento di espressione (“restare fermo”) e dove quella frontiera di cui nel titolo del componimento, sembra diventare un diaframma che raffredda la temperatura emozionale, poiché appare riferito al poeta stesso che, alla frontiera con il mondo fuori da sé, cerca, per mezzo della poesia, un dialogo storico-contemporaneo con quel che ha appreso e che lo ha coinvolto.

Alla fine, però, con una certa maestria e con una rotazione netta, che affonda la vite nel materiale da assemblare, Consorti mette in chiaro, fin dalla prima poesia, il suo ruolo di regista e di attore che vive quanto offre al lettore, dall’interno e dall’esterno, allo specchio (che non diventa mai lente ustoria, però), come si apprende dagli ultimi versi del medesimo testo d’apertura: “Gli altri passano e mi guardano / facendo di no con la testa / Devo essere una brutta persona / se sono l’unico che resta / Mi studio di nuovo sul mio documento / ma la guardia mi spiega che è vecchio / e lo straccia / fissandomi con la mia faccia”  rivelando che la poesia è sì un mezzo per “guardare” gli altri, la Storia e le storie che possono generarla, ma che essa è anche (e soprattutto mi verrebbe da dire in questo caso) un potente mezzo per “studiare” – come dice il poeta – la propria faccia, il proprio essere in divenire (“è vecchio”, il documento, quindi differente dal momento attuale) e il proprio ruolo, evidenziato nella prima sezione da un ‘io’ che domina i vari testi e che offre al lettore le sue molteplici facce.

Alla frontiera
.
La guardia di frontiera
ha detto che non sono io
e che neppure mi assomiglio
tantomeno mi potrei spacciare
per mio padre o per mio figlio
Mi intima di restare fermo
e per convincermi
mi mostra uno schermo
che qui chiamano specchio
Gli altri passano e mi guardano
facendo di no con la testa
Devo essere una brutta persona
se sono l’unico che resta
Mi studio di nuovo sul mio documento
ma la guardia mi spiega che è vecchio
e lo straccia
fissandomi con la mia faccia
.

La prima sezione “Le ore del terrore” mette in scena il rincorrersi degli eventi che hanno imbruttito il Novecento (tranne 22 dicembre 1849): l’autore si rende partecipe per mezzo dell’io, che diviene quasi per abitudine quello di ciascuno ed anche del lettore, della cronaca dell’ultimo secolo, evidenziando una solitudine che a me, però, non giunge mai come quella dell’intellettuale consapevole del suo differente – dall’opinione comune s’intenda – sentire, quanto piuttosto mi giunge esattamente come voce dell’opinione comune su temi che attualmente calamitano l’attenzione della stessa, come si legge, ad esempio (ma non solo), nei versi proposti di seguito. Tanto, ci può stare, beninteso, ma a tanto, forse il lettore più esigente avrebbe voluto che si fosse aggiunto un punto di rottura, una crisi, un varco.

Postfezia
.
Il Millennio si aprirà con due aerei
che faranno strike di grattacieli
e figlieranno guerre in Medio Oriente
Vedo persone scoppiare dal niente
e piazze lavate col sangue
Vedo statue di tiranni abbattute
e in giro tanta voglia di vendetta
Vedo papi buoni intonare canzoni
circondati da un concistoro
di cardinali assassini che gli fanno il coro
Vedo primavere trasformarsi in inverni
e folle speranzose
assiderate da nuove paure
rimpiangere pochi anni dopo
le care vecchie dittature
.
.
Un altro naufragio
.
È così lontana l’altra costa
quando la salvezza
è in direzione opposta
.
Non conosceremo la sua faccia
né le nostre braccia
riusciranno mai a stringerlo
Noi che lo aspettavamo
per respingerlo
.
 “Preghiere e bestemmie sincere”, seconda sezione della silloge, vede una maggiore partecipazione emotiva dello scrivente ai fatti e agli accadimenti narrati. Personaggi biblici si alternano alla presenza di Dio, figure con le quali Consorti sembra quasi giocare, tra rime e assonanze e consapevoli giochi di parole, in cui emerge un lato irriverente e piacevole e in cui si avvertono lo sciogliersi della tensione accumulata nella prima sezione ed il piacere di ‘mischiarsi’ con gli argomenti trattati. Chiesa depokemonizzata, in una riuscita assonanza, rende bene la contemporaneità e il rapporto dell’uomo di oggi con il sacro e, insieme con Abramo e Giuda, consegna al lettore testi originali, dove l’abilità formale (rime) di Consorti appare al meglio.
.
Chiesa depokemonizzata
.
Chiesa depokemonizzata
spegnere il cellulare
togliere la suoneria
e non messaggiare
Durante le preghiere
ci vuole concentrazione
ci vuole pazienza
ci vuole cuore
ci vuole speranza
ci vuole fantasia
ci vuole fede
Visto che sei entrato
perché per qualche minuto non credere?
.
.
Abramo
.
Come se fosse un favore
o una cosa da poco
giusto una formalità
o una specie di gioco
.
me lo chiede con un’aria indifferente
come se non fosse niente
.
Tipo due amici ad un tavolo
che fanno battute a caso
.
un solo gesto un atto unico
e guadagnerei mille punti con lui
.
In nome del nostro legame
senza starci troppo a pensare
.
Un figlicidio veloce
mica come mettere
il proprio erede in croce
.
.
Giuda
.
Trenta denari
se li converti
son solo un pugno di dollari
o qualche yen
.
Non bastano a pagarci un’analista
che allevi la tua pena
Massimo puoi invitarci gli amici
a un’ultima cena
.
Sempre che non ordini vino di marca
più o meno consacrato
e purché ti scordi
il caviale raffinato
.
Trenta denari
se fai la conversione
massimo ci compri le persone
.

“Spoon River Italia” è una silloge nella silloge, che chiude Le ore del terrore con ventotto componimenti incentrati sul tema della morte, in cui ricompaiono temi di attualità, in una serie di quadri in cui molti versi potrebbero essere estratti come aforismi, aderenti all’originale di cui nel titolo della sezione, ma che nell’opera di Consorti perdono l’immediatezza dell’epitaffio, per dilungarsi in veri e propri testi poetici dai quali estraggo “un epitaffio nuovo di zecca e mai usato” (XXVII), come lo stesso poeta dice, che a mio parere ben chiudono questa lettura. [Angela Greco]

Non sempre concordo con quello che penso
Non sempre la vita o la morte hanno un senso
.
.
.

Simone Consorti è nato nel 1973 a Roma, dove insegna in un liceo. Ha esordito con “L’uomo che scrive sull’acqua ‘aiuto’(Baldini e Castoldi 1999, Premio Linus). Ha pubblicato “Sterile come il tuo amore”(Besa, 2008, adattato per il teatro nel 2009), “In fuga dalla scuola e verso il mondo”(Hacca, 2009), “A tempo di sesso”(Besa, 2012) e “Da questa parte della morte”(Besa, 2015), oltre che diverse raccolte di poesia, tra cui “Nell’antro del misantropo”(L’arcolaio, 2014) e “Le ore del terrore”(L’arcolaio, 2017). La sua piéce “Berlino kaputt mundi” è andata in scena al teatro Agorà di Roma nel marzo del 2018. Il suo libro di racconti “Otello ti presento Ofelia” è in uscita per L’erudita. E’ presente on line con il sito simoneconsorti.com

Angela Greco, nota al volume AA.VV. Come una mezzaluna nel sole di maggio

.

“Qui non vorrei morire dove vivere
mi tocca, mio paese,
così sgradito da doverti amare;
lento piano dove la luce pare
di carne cruda
e il nespolo va e viene fra noi e l’inverno.
.
Pigro
come una mezzaluna nel sole di maggio,
la tazza di caffè, le parole perdute,
vivo ormai nelle cose che i miei occhi guardano:
divento ulivo e ruota d’un lento carro,
siepe di fichi d’India, terra amara
dove cresce il tabacco.
Ma tu, mortale e torbida, così mia,
così sola,
dici che non è vero, che non è tutto.
Triste invidia di vivere,
in tutta questa pianura
non c’è un ramo su cui tu voglia posarti.”
.
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Si presenta al lettore intitolata con un verso “Come una mezzaluna nel sole di maggio” del barese di nascita e salentino per sempre, Vittorio Bodini, l’antologia creata e curata dalla nascente realtà editoriale Fallone Editore di Taranto sul finire dell’anno appena trascorso e che in questo 2018 sarà presentata in diverse località. Un verso d’apertura, che subito identifica appartenenza e fine dell’opera, che riporta come sottotitolo “ricognizione della poesia pugliese 1975 – 1994” dove le cifre sono indicative degli anni di nascita (del più grande anagraficamente e del più piccolo) delle voci poetiche rappresentate all’interno.

Un’opera, questa antologia, che, nelle due accezioni fornite dal vocabolario del termine ‘ricognizione’ – che, ricordiamo, etimologicamente significa riconoscere, osservare attentamente – intende riferirsi sia all’accertamento dell’esistenza del fatto poesia, sia al fatto di raccogliere, mediante la constatazione diretta, le informazioni necessarie per impostare un’azione, in questo caso poetica, per il divenire. In ciò, l’editrice ha voluto più che fornire una mappa, dare delle chiavi di accesso, dei punti di riferimento per l’orientamento del lettore in un campo vasto e molto frammentato, qual è quello della poesia in un territorio diversificato e complesso dal punto di vista morfologico e letterario, la Puglia, una terra, che si allunga per oltre quattrocento chilometri da nord a sud e che ha subito e subisce costantemente influssi esterni, per motivi storici, di localizzazione geografica e vocazione d’accoglienza, oggi accentuati più che mai in poesia grazie ai nuovi mezzi di socializzazione di massa, nei quali ci si ritrova a confrontarsi, quanto non meno a scontrarsi.

Così, in tempi come questi, di nuova, forte e utile crisi di identità, un’antologia che riunisce differenti voci e differenti esperienze, si pone come mezzo di unione nella diversità, centrando, oltre l’obiettivo propriamente letterario, anche un motivo che dovrebbe essere proprio dell’uomo contemporaneo, ovvero, secondo Giorgio Agàmben, di “colui che riceve in pieno viso il fascio di tenebra che proviene dal suo tempo[1]”. Da qui, mettendo in comunione le proprie dissimiglianze, si deve tentare d’impostare e sperare di realizzare quell’azione di cambiamento invocata da tanti, capace di condurre ad una maggiore valorizzazione della Persona, piuttosto che a tutto l’insieme di cose che ad essa si sono sostituite.

Anche la copertina realizzata da Fausto Maxia, che ritrae un’opera intitolata “Fragmenta Tav.XX” ben dice della condizione in cui vertiamo oggi, dove forse il venti a numero romano sta ad indicare proprio il Ventesimo secolo, quello in cui più che mai ci si è ritrovati scissi e lontani dall’unione, perché se è vero che il lavoro del poeta nasce come qualcosa di singolo, nel suo incontro intimo con l’esperienza del mondo, è vero anche che una volta data alle stampe la poesia diventa un fatto pubblico, comune, plurale e che ogni singolo frammento serve a ricomporre l’unità. Un’antologia di autori vari, nel ricomporre i differenti pezzi proposti da ogni singolo autore, è, quindi, un mezzo utile a ritrovare l’unità, che in questo caso è il valore dello stare in Poesia e del ritrovarsi grazie alla Poesia, senza troppo discettare su che cosa sia la poesia o a che cosa serva oggi, sulla sua utilità o sulla sua assoluta inutilità, se pensiamo in termini monetari, ma cogliendone gli effetti di comunione e consapevolezza del mondo da sé.

La poesia è un mezzo, alla fine, per incontrarsi, come Giorgio Caproni ha ben detto nel suo involontario discorso sulla poesia il 6 febbraio 1982 al Teatro Flaiano di Roma, dove avrebbe dovuto commentare alcuni suoi versi e dei quali, invece, non dirà nulla. “[…] riuscire, – dice Caproni – attraverso la poesia, a scoprire, cercando la mia, la verità degli altri, la verità di tutti, o, per essere più modesti e più precisi, una verità, una delle tante verità possibili che possa valere non soltanto per me, ma anche per tutti quegli altri me stessi, che formano il mio prossimo del quale io non sono che una delle tante cellule viventi[2]”

“L’esercizio della poesia – continua Caproni – rimane puro narcisismo finché il poeta si ferma ai singoli fatti esterni della propria persona o biografia. Ma ogni narcisismo cessa non appena il poeta riesce a chiudersi e inabissarsi totalmente in se stesso da scoprirvi e portare al giorno quei nodi di luce che non sono soltanto dell’io ma di tutta la tribù. Quei nodi di luce che tutti i membri della tribù possiedono, ma che non tutti i membri della tribù sanno di possedere o riescono ad individuare[3]” ed è in tal modo che una compagine di autori vari, qual è un’antologia, implementa anche il lettore tra le sue pagine, coinvolgendolo suo malgrado in un progetto comune. (Angela Greco AnGre)

.

La presente nota di lettura ha volutamente omesso i riferimenti alle poesie degli Autori riuniti nell’antologia data la presenza, tra essi, della stessa scrivente  Il volume antologico “Come una mezzaluna nel sole di maggio. Ricognizione della poesia pugliese 1975-1994” (Fallone Editore, 2017) contiene i testi di diciotto poeti pugliesi nati tra il 1975 e il 1994, alcuni dei quali già consolidati a livello nazionale e altri ancora inediti, censiti per generazioni.

Di seguito si riportano gli Autori ospitati nell’antologia:

Anni Settanta: Simone Giorgino, Ilaria Seclì, Angela Greco, Vanni Schiavoni, Salvatore Tafuro, Gianpaolo G. Mastropasqua, Francesco Mola

Anni Ottanta: Carla Saracino, Lidia Fraccari, Vito Russo, Gianpaolo Altamura, Francesco Cagnetta, Gianluca Maria Lacerenza, Michele de Virgilio, Andrea Donaera

Anni Novanta: Antonella Chionna, Attilio Cantore, Giacomo Cucugliato

 https://falloneeditore.com/ 

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[1] Giorgio Agamben, Che cos’è il contemporaneo? (I sassi nottetempo ed.)
[2] Giorgio Caproni, Sulla poesia (Italosvevo Ed.)
[3] ibidem

 

 

Michele Paoletti, Breve inventario di un’assenza letto da Angela Greco

Breve inventario di un’assenza (Samuele Editore, maggio 2017, prefazione di Gabriela Fantato) di Michele Paoletti è la presa di coscienza di un distacco, di un’assenza assunta nelle piccole e ripetute dosi dei brevi componimenti poetici di cui è costituita. Michele Paoletti elabora per tutta la lunghezza di questo breve itinerario poetico, una separazione da qualcuno che è stato parte di lui, di cui lui era parte a sua volta e con la capacità di chi possiede il dono dell’analisi, un pezzo per volta guarda, elabora e archivia in una memoria poetica da offrire al lettore diluita dall’urgenza e dall’ustione della perdita. Passi piccoli che consentono al poeta di avvicinarsi alla materia pregnante di cui è composta la silloge, ma che al contempo gli consentono di addomesticare e man mano distaccarsene fino al punto in cui si è capaci o è possibile, la perdita, l’assenza, il vuoto lasciato da questa figura che si sente, ma che mai si vede, che si avverte, ma di cui mai viene detto in maniera esplicita. Momenti di abbandono all’accaduto si susseguono a distaccati attimi poetici che vanno ad incorniciare un sentire partecipe, mai sopra i toni, mai eccessivo, quasi si avesse timore delle proprie stesse reazioni. Un pudore, che a tratti soffia sulla pelle del lettore un alito apparentemente freddo, ma che verso la fine del libro allenta un pochino le redini per cedere il passo ad un atteggiamento più caldo ed emozionato, come a dire di aver appreso la lezione del distacco e, alla fine, averne ricavato un tornaconto non in passivo, per quanto possibile nelle capacità umane.

Ha il tono del bilancio, questo libro, dell’economia nel senso più nobile del termine, della valutazione di quanto vi è dopo l’evento scatenante la poesia e di cosa sia più favorevole trattenere e cosa, invece, leggera, lasciar andare ai cieli di un altrove immutabile, di sola accettazione. Liriche brevi, dosate in un ritmo che, al contrario di quanto si possa credere per la loro brevità che suggerirebbe una certa fretta, rallenta il lettore, lo frena, gli consente la sosta; ritmo in cui la pausa non già grafica, quanto piuttosto intima, spesso è inevitabile, per non perdere la scena che vi è alle spalle del verso e da cui lo stesso è nato. Breve inventario di un’assenza si può considerare una sorta di retrospettiva dell’autore e punto di partenza per un qualcosa ancora da dire, esattamente come il titolo suggerisce nel termine economico che possiamo assumere nella accezione di chiusura, un inventario finale insomma, che ha ben espresso il bilancio di una fase sicuramente orfana di qualcuno, ma che già in questa assenza sa trovare tutti gli elementi per riaprire l’attività successiva.

[Angela Greco]

*

versi da Breve inventario di un’assenza di Michele Paoletti

La luce inonda il corridoio
e scopre le piaghe che la casa
nasconde agli occhi
persi nello specchio
a indovinare quante pieghe
del mio viso ti appartengono.
 .


Marciva il tavolo in giardino
la plastica dei vasi si spaccava
in minuscole foglie triangolari.
Ottobre era un viale illuminato,
una canzone sepolta nella terra.
.


Fissavo una briciola di terra
in bilico sull’orlo del lenzuolo.
Un piccolo rotondo promemoria
che mi rammenta come va a finire.

.

Tienimi le mani contro il muro
mentre la notte chiude un cerchio
attorno al corpo
che mi hai gettato addosso
come un abito mai messo.

.

Michele Paoletti è nato nel 1982 a Piombino (LI) dove vive e lavora. Si è laureato in Statistica per l’economia e si occupa di teatro per passione, da sempre. Ha pubblicato Come fosse giovedì (Puntoacapo editrice, 2015), la sua raccolta d’esordio, e la plaquette La luce dell’inganno (Puntoacapo Editrice). Una selezione di suoi testi è inserita nell’antologia iPoet di Lietocolle, 2016. Numerosi i premi vinti e i riconoscimenti in concorsi letterari a livello nazionale.

Felice Serino, La vita nascosta letto da Angela Greco

      sguardi e il tracimare
di palpiti
alle rive del cuore
.
aria dolce come
di labbra
incanutire di fronde
nella liquida luce
.

La vita nascosta (2017), di Felice Serino (Pozzuoli, 1941), ultima silloge edita per i tipi “Il mio libro” (in apertura di questa nota, Sguardi e il tracimare) sin dall’esordio propone un impegnativo corpo a corpo tra lettura e lettore sia per l’importante numero di liriche raccolte, sia per il percorso sacro-intimistico-sociale che in essa si snoda, attraversando momenti pubblici e privati, accadimenti reali e propositi a venire, in un caleidoscopio di sensazioni \ emozioni fedele alla poetica, allo stile e al tono pacato e garbato a cui l’autore ci ha felicemente abituati in questi anni da “autodidatta”, come egli stesso si definisce, rivelando con una sorta di meraviglia, in riferimento alla Poesia, l’essenzialità del fatto che in questo comparto non esistono scuole dove imparare il mestiere, ma, quasi si avesse a che fare con un destino, ognuno è artefice di se stesso. Ed in tempi di proclamate e ostentate scuole-correnti di pensiero non è poco affidarsi a se stesso, con tutte le conseguenze del caso, non per presunzione, quanto piuttosto per volontà di riconoscere fin dove si è capaci di arrivare e scoprendo, magari, che ogni limite può essere un’opportunità.

La silloge, introdotta da Giovanni Perri, propone trecento pagine di testi prodotti nell’ultimo triennio; un dato, questo, che fa ben comprendere il bisogno e la necessità che ancora si hanno della poesia, per la capacità di quest’ultima di riuscire ad esternare quel che è difficilmente esprimibile in altri modi. La poesia è, quindi, ancora un bene indispensabile – ed il lavoro di un poeta di lungo corso dovrebbe far riflettere sullo stato dell’arte – anche in questi nostri tempi di presunto futuro rivoluzionario, di cambiamenti, di distruzione dei valori fino allo sgretolamento della parte umana dell’essere vivente. Felice Serino crede nella poesia, come veicolo di miglioramento e di crescita, tanto del poeta quanto del fruitore della stessa, e nelle sue liriche racconta il vissuto, porta materialmente l’esperienza la riuscita e la disfatta con molta onestà, ad esempio, come si legge in Luce ed ombra:

      luce ed ombra rebus in cui siamo
impronte di noi oltre la memoria
forse resteranno o
risucchiati saremo
ombre esangui nell’imbuto
degli anni
.
guardi all’indietro ai tanti
io disincarnati
attimi confitti nel respiro
a comporre infinite morti
.

L’interesse di Serino è senza dubbio l’Uomo, la Persona, in un’ottica metafisica, plurale, e mai personale: anche quando il soggetto è l’Io, la riflessione poetica non si ferma mai al Sé, ma abbraccia sempre e comunque l’esperienza che può già essere o diventare patrimonio comune. Serino si pone come suggeritore, come consigliere, come insufflatore di positività. Ed ecco, allora, che anche l’esperienza più drammatica, come la morte, in questo poeta diventa qualcosa che non chiude, ma piuttosto apre ad una nuova visione e l’Uomo, nonostante i difetti, viene ad essere un elemento non attorno a cui ruota tutto il resto, ma un pezzo di un più grande disegno di cui si può solo tentare di dire attraverso la poesia, appunto. Ne La separazione si legge:

      alla fine del tempo
è come ti separassi da te stesso
in un secondo ineluttabile strappo
simile alla nascita
quando
ti tirarono fuori dal mare
amniotico
luogo primordiale del Sogno
stato che
è casa del cielo
.

La poesia di Felice Serino, con la sua concretezza e il suo vissuto, anche laddove prevale il senso etereo o metafisico o quando richiama il sacro e finanche nei riferimenti all’arte, arriva al lettore diretta, mai sofisticata da espressioni scritte soltanto per destare scalpore, per mettersi in mostra o per creare un personaggio; puntuale e delicata anche negli argomenti più impegnativi, questa scrittura poetica rende in modo nitido e molto piacevole il frutto di riflessioni attente e dello studio continuo, sempre quali esternazioni di un grande amore per la conoscenza e per la materia vivente, in tutte le sue forme. Nella verticalità, nel tempo oltre la vita, nell’augurio di luce e nell’ineffabilità di cui è vestito il testo di In questo riflesso dell’eterno a parer mio è possibile leggere i temi cruciali della poetica di questo prolifico autore, che mostra senza fronzoli anche una dote poco comune tra i poeti, la generosità. (Angela Greco)

      credimi vorrei dirti che quanto
avviene anche là avviene
oltre le galassie oltre
lo specchio dei tuoi occhi amore
anzi certamente è presente
da sempre in mente dèi
imbrigliati noi siamo in un giorno
rallentato
noi spugne del tempo
assediati da passioni sanguigne
credi mia cara che quanto
avviene semplicemente
lo rappresentiamo
sulla scacchiera del mondo
noi essenze incarnate
in questo riflesso dell’eterno
dove l’anima si specchia
mentre ci appare infinito
mistero la vita – miracolo
tutta questa luce che
ci attraversa
.
.
*
.
Clicca sul link Felice Serino su Il sasso nello stagno di AnGre  per leggere altri articoli.
.
*

 

Rosaria Di Donato, Preghiera in Gennaio: disamina di Flavio Almerighi della poesia “Prima che sia notte” e nota di lettura di Angela Greco

      prima che sia notte
ancora vorrei qualcosa
qualcosa di mio
qualcosa che irrompa
nel tempo mostrando
un seme nuovo
un germoglio
e non disamore
.
 .

……Otto versi di una semplicità disarmante, perché nuda. L’autrice riesce, senza tedio per il lettore e/o inutili perifrasi, a delineare bene quello che può essere l’animo di ognuno di noi al momento del calar della sera (prima che sia notte). Il timore ancestrale del buio fa parte dell’uomo, fa parte di una condizione esistente fino all’invenzione della corrente elettrica, che ha cambiato non di poco abitudini e stile di vita. L’uomo è rimasto comunque la stessa creatura arboricola e indifesa, piena di istinto di conservazione e che doveva difendersi anche nel buio, che non la proteggeva dai predatori notturni specie felini. Il senso dell’inquieto e dell’incompiuto irrompe e per certi versi spaventa (ancora vorrei qualcosa/qualcosa di mio) un incompiuto e una paura ancestrale che sentono fortemente il bisogno di qualcosa/qualcuno che le giustifichi e le annetta a un versante non propriamente materiale (qualcosa che irrompa/nel tempo mostrando/un seme nuovo) ma più spirituale, e per questo nuovo, perché la vita non è soltanto mancare di rispetto ad altre vite per salvare la propria e darle qualche nuova ora di luce in più. E qui sopraggiunge il valore di una redenzione che può essere individuale, ma anche un valore comune (un seme nuovo/un germoglio). Fino all’esplosione forte, sincera, del verso finale (e non disamore), dove si evoca l’esatto contrario, l’amore che può coprire, salvare da quel buio che tanto velocemente calerà. Amore che non sia soltanto istinto di conservazione del sé e dei propri cuccioli. Insomma, alla sera della vita, se non c’è qualcosa che non sia soltanto contingenza, la vita stessa non ha significato e non ne può assumere, qualsiasi o qualunque sia il valore per dare significato a una vita che non sia solo sopravvivere, ma vivere e possa diventare anche valore comune. Il resto è la guerra per tornare a essere terra. [Flavio Almerighi]

.

[Angela Greco] – Preghiera in Gennaio, la breve e pregnante raccolta di versi di Rosaria Di Donato – scaricabile dal sito neobar.net cliccando Neobar eBooks marzo 2017 – si apre con la lirica Prima che sia notte, di cui la lettura precisa e densa di Flavio Almerighi fornisce anche una chiave d’accesso all’intera opera. La notte, di cui parla la poetessa e che Almerighi mette ben in chiaro, evidenziandola come buio, quindi come assenza di luce, assume immediatamente la valenza di notte dell’anima, quel momento preciso spesso sperimentato da ciascuno di noi, in cui sembra di essere giunti al punto di non ritorno e dinnanzi al quale nessuna cosa umana regge più e dove, per istinto di sopravvivenza, si tende ad affidarsi al metafisico, al trascendentale. E prima che l’uomo giunga a questo abisso, prima che sia notte appunto, Rosaria Di Donato tenta, affidandolo alla parola poetica, un cammino-percorso intimo, spirituale, che possa in qualche modo fungere da bussola al lettore smarrito in questo mondo non più avvezzo alla religione quale componente del vivere. Nelle undici poesie più una dodicesima composizione assimilabile ad una breve prosa poetica, si incontrano personaggi biblici dell’antico e del nuovo testamento, partecipando di una varia umanità sempre con gli occhi rivolti ad una meta finale, che sappia dare compimento finanche alla stessa poesia.

Rosaria Di Donato ha assimilato le storie bibliche e la storia del Cristianesimo, forgiando poesie in cui i protagonisti accompagnano i passi degli uomini e delle donne moderne, raccontano ancora il proprio vissuto, ma con una voce che carezza, che conforta, che ha quasi pietà delle vicende umane. Si fa notare, oltre all’assenza della punteggiatura, l’uso delle minuscole anche per i nomi propri ad indicare non una gerarchia, ma una parità che esalta l’umanità anche dello stesso poeta.

Oltre la veste, riportata in chiusura, è, a parer mio, forse la lirica più coinvolgente per la valenza metaforica espressa fin dal titolo e per la reiterazione del verso “beato chi ha in sorte la tunica”: un invito esplicito ad oltrepassare le apparenze ed un augurio di concreta presenza di Cristo nel quotidiano decretato dalla sorte, appunto (la tunica indossata da Gesù al processo che lo vide poi crocifisso, essendo un tessuto pregiato e di un certo valore, fu assegnata con un tiro di dadi ad uno dei soldati che presenziavano la sede del giudizio).

Rosaria Di Donato con questo piccolo libro elettronico basato su elementi incontrovertibilmente religiosi non compie un tentativo di convincimento sulla sua religione sentita e vissuta, quanto piuttosto offre una possibilità di venire in contatto con un genere poetico antichissimo, la preghiera, che da sempre ha accompagnato quelle notti dell’anima di cui in apertura, lasciando scorgere in filigrana la sua fiducia nell’uomo e nella stessa poesia, come si legge in chiusura:

Torno all’amore dei poeti perché imperituro, eterno, simile a quello divino. Solo che l’amore di Dio, è misericordioso, mentre quello dei poeti è « impietoso »: vero e nudo come il primo uomo nel giardino dell’Eden, l’io lirico si muove tra scabrosità e armonia trovando un ritmo nel  caos. E’ dono la parola annunciata, è legame che forgia il Mondo, che va oltre le cose sconnesse.

.

oltre la veste
.
beato chi ha in sorte la tunica
.
con tenere mani la tessé maria
tutta d’un pezzo intrecciando
in silenzio la trama con l’ordito
sopra il telaio curva per giorni
interi e notti a inumidire il filo
con sospiri e lacrime-carezze
che bianca la fecero e splendente
non abito ma anima del figlio
redentore
.
beato chi ha in sorte la tunica
.
senza macchia vestì il cristo
fino all’albero ove spoglio
germogliò nel buio delle pupille
astanti ignare del bene ricevuto
di vita come un fiume nel fluire
di Spirito sgorgato dal costato
aperto a rinnovare il mondo
dal peccato ferito dall’odio
consumato
.
beato chi ha in sorte la tunica
.
che al gioco dei dadi fu affidata
da chi sprezzante non riuscì
a smembrarla né lacerarla
ma intera la vinse senza cuciture
né rammendi come la fedeltà
del cristo che totalmente amò
l’intera umanità per sempre
gesù promessa di liberazione
sangue-effuso per gli ultimi
.
.
.
Rosaria Di Donato è nata a Roma, dove vive. Laureata in filosofia (quadriennale e specialistica), insegna in un liceo classico statale. Ha pubblicato quattro raccolte di poesia: Immagini, Ed. Le Petit Moineau, Roma 1991; Sensazioni Cosmiche, Ed. Le Petit Moineau, Roma, 1993; Frequenze D’Arcobaleno, Ed. Pomezia-Notizie, Roma 1999; Lustrante D’ Acqua, Ed. Genesi, Torino 2008. Ha partecipato all’antologia Nuovi Salmi a c. di Giacomo Ribaudo e Giovanni Dino, Ed. I Quaderni di CNTN, Palermo 2012. Alcuni suoi testi sono presenti in Voci dai Murazzi 2013, antologia poetica a c. di Sandro Gros Pietro, Ed Genesi, Torino 2013. Ha partecipato con il gruppo Poeti per Don Tonino Bello alla realizzazione di Un sandalo per Rut Oratorio per l’oggi, Ed. Accademia di Terra D’Otranto – Collana Neobar, 2014. E’ presente nell’antologia I poeti e la crisi a c. di Giovanni Dino, Fondazione Thule Cultura, Bagheria 2015. Collabora a riviste di varia cultura e i suoi volumi si sono affermati sia in Italia che all’estero, con giudizi critici di Giorgio Bàrberi Squarotti, per esempio, e traduzioni di Paul Courget e Claude Le Roy (riviste Annales e Noreal). Partecipa al blog Neobar di Abele Longo e a vari siti letterari sul web. Vincitrice di alcuni premi di poesia, si interessa di arte, cinema, letteratura. Dal 2016 cura un laboratorio di scrittura creativa nel Liceo in cui insegna.
.
Immagini: Mimmo Jodice, Figure del mare (in apertura), 10; Mare e Monti, foto di F.sco Magnano (al centro); Rosaria Di Donato, dal web (in chiusura).

Alberto Rizzi, Monstra con una nota di lettura di Angela Greco

Due poesie da Monstra di Alberto Rizzi ed una nota di Angela Greco

GLI OCCHI MALE ALTROVE
.
Mai sarà mio lo sguàrd’avvizzìto del vecchio
………………………lo sguardo dell’avvocato
assassino di genti
……….quello d’un giornalista ipocritato
per pianto di notizie false
nell’uggiosa giornata plena de lo squittire suo
………………..d’una puttana
smaniosa d’un conforto ch’a suepólpe
s’appenda sottoforma di denaro
.
Mi tengo l’accavallìo d’immagini tante
…………………….che paio fa con vostra confusione
e guàrd’altróve anche quando parlo
…………………………………come voi
nel buiofìtto di menzògnevòstre
…………………………………che fissate il vuoto
con puntine da disegno e sangue
al muro di chi abulico mi crede
.
Anche se non v’è compenso
al dolore de’ nervi sótt’il cranio
……………………………..vedete come so toccar
con mano fòrtefàtta d’esperienza
gli oggetti che discerno
.
Così è d’impaccio a voi
il mio diatonico guatare
………………………..a voi perfetti fuori
e al fondo marci dentro
.
mentre che io dimostro
……………………a chi già meglio sappia di vedere
l’ennesimo diritto al rimaner mestésso
per sempre come sono
(pag.11)

.

CORPO DI MAGREZZA ESTREMA
.
Quasi non jetta ombra ‘l corpo mio
……………………………..quando che me ne vegno
benignamente d’humiltà vestuta
.
dato che per quante piàzz’incrócio
……………………………….strade
gli occhi dentr’ai muri
a ‘vitar gli sguardi de’ passanti tegno
di commiserazione e attesa pregni
.
attesa che qualcosa si rompa
……………………………….si cada
.
Stecchi di legno e gamb’e braccia
………………………………..pur se test’a zucca non habbo
sorella mi sento a primavera
a chi spaventa uccelli per li campi
.
che forse fin ne lo sguardo suo
……………………………….sì fiss’e vvuoto
fino una meraviglia a me
gli si porrìa carpire
.
Eppure vado
…………..voglio andare
.
Or che senzamotìvo sentivo miapèlle raggrinzirsi
………………………………………..perder consistenza e forza
io svaporavo in tendini e nell’ossa
…………………………………….piànovituperàndo dentromé
l’aspetto mio primevo e pieno
.
ché così non nacqui
.
ma piuttosto mi ruppi
…………………..mi caddi
.
Monito miafigùra questo
………………………….allora
così ch’anch’ìo comprenda infine
lo scopo che porrìa ancora conseguire
.
Secche le zinne
…………..il cuore che mi bast’appéna
e sol perché ostacolo non v’è
oltrecùi gettarlo
………………lo sforzo ch’ogni muscolo appanna
quando più d’un gradino incombe
………………………….lasciata che ho la strada
su per le scale che menano a miestànze
in pocacàrne l’ombra mia vestita
ancora vado e voglio andare
(pag.46)

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Monstra, di Alberto Rizzi (Arco di Trento, 1956), residente da sempre nella provincia di Rovigo ed attivo professionalmente in poesia dai primi Anni ’90, come si legge nella sua nota biografica, è una raccolta autoprodotta senza ricorrere ai “vanity editors” a pagamento, come egli stesso afferma. Rizzi, c’è da dire prima di tutto, è un autore indipendente dal tempo e dalla stessa poesia contemporanea; sperimentalista, potrebbe risultare paradossalmente a tratti avanguardistico, in questo presente proteso esasperatamente in avanti, per quel suo essere anacronistico nell’uso di arcaismi e finanche della stessa lingua, un misto tra volgare medievale con echi francescani (alcune espressioni sono scritte alla maniera del Cantico delle creature), toscano rimandante al padre per antonomasia della poesia italiana e verve da avanspettacolo di mezzo secolo fa. Rizzi vuole essere differente e questa volontà è percepibile senza sforzo durante la lettura dei ventidue testi di Monstra, raccolta di lunga e difficile stesura, questa: dal Febbraio 2004 al Febbraio 2010, per essere precisi, come si legge nella Presentazione scritta dallo stesso autore.

Difficile, non solo la stesura, ma il carattere stesso dell’opera, volutamente centrato sul tema della differenza fisica e del diverso nella forma concreta, del deforme appunto, che rappresenta alla fine l’espressione del poeta stesso nella società (dopotutto, l’artista non è percepito – da questa società di merda – come un essere “deforme dentro”? si legge nella riuscita Presentazione), richiamando senza difficoltà, ma introiettandolo materialmente ed esternandolo come avrebbero fatto i marinai di quella poesia, il concetto legato all’albatro-figura del poeta di Baudelaire, che diviene mostruoso una volta estromesso dal suo ambiente: in Monstra, però, non c’è bellezza, volo, risalita, riscatto legato al lettore che alla fine pensa al poeta, come un essere libero e padrone dei cieli; piuttosto in questa silloge c’è una volontà chiarissima di mettere in luce il dramma della deformità vista dall’interno. Nelle poesie di Rizzi è il poeta in prima persona che avverte la differenza con la normalità e se ne fa carico, nuova croce, ma senza risurrezione; prima che sia la società ad indicare la differenza, nei versi di Rizzi è l’Io poetante che avverte tutti gli altri di quello che la differenza con la norma comporterà.

La deformità non intesa come mezzo per muovere a pietismo o destare una morbosa attenzione, ma come tramite tra l’autenticità di chi accetta e mostra la differenza e la finzione buonista della società che, al contrario fa di tutto per celare quanto sa, per interposta esperienza, che non verrà accettato e sarà oggetto di scontro. Rizzi non teme lo scontro e, pur non cercandolo apertamente, con questo lavoro in versi dall’ardita lettura, si pone come sasso sul liscio procedere di una certa letteratura e del suo clientelismo esasperante per chi è in cerca della verità, della non-finzione, dell’onestà.

A metà libro, a parer mio, si incontrano i cardini dell’intera opera, racchiusi nei tre versi qui riportati:

“Il tempo stesso viene deformato”

“(! oh, il sorriso che non bisogna di respiro)”

“Ma perfino vivo”

(pagg.25-26, Polmoni insufficienti)

In questi versi, che precedono la carrellata di poesie dedicata a varie differenze morfo-fisologiche di cui il poeta dispone per evidenziare la sua contrarietà verso questa esistenza, vengono indicati l’attore e l’azione principale, il Tempo e il Vivere, e, forse, una chance di riscatto. Lo stesso tempo non viene sottratto allo scopo del libro: è sottoposto, come tutti i personaggi vissuti ed interpretati dall’Io-poeta, alla variazione di forma (Il tempo stesso viene deformato) ed inserito in un testo (“Polmoni insufficienti”) riferito all’azione propria del vivere, ovvero il respiro, atto involontario che accomuna tutti i deformi e rende palese il vivere anche al poeta che ne scrive (Ma perfino vivo) e che sembra concedere benevolenza solo in un caso, quando parla del sorriso (! oh, il sorriso che non bisogna di respiro) che, essendo esente, come si legge nella poesia, dall’atto del respiro-vivere non può essere ascritto al negativo-deforme di cui soffriamo tutti, artisti nel riconoscerlo ed esseri umano nella mancata accettazione e che si pone, quindi, come unica risorsa di riscatto alla situazione. Sorriso, che non abbiamo difficoltà a credere possa anche essere sardonico e ironico, se messo sulla bocca di un autore come Alberto Rizzi. [Angela Greco]

*

Alberto Rizzi (Arco di Trento, 1956), nella foto qui sopra, risiede da sempre nella Provincia di Rovigo ed è attivo professionalmente in poesia dai primi Anni ’90. Secondo Mauro Ferrari – quasi l’unico critico che ne abbia seguito l’attività – è uno dei migliori esempi in Italia di “autore sommerso”: espressione con la quale identifica quegli autori, che vengono ignorati dal sistema italiano della cultura; sistema gestito perlopiù secondo regole mercantili e clientelari.

            Nel caso di Rizzi questa “disattenzione” non può stupire, fin dal momento in cui si legga la frase che ne sottolinea l’immagine nell’home page del suo sito (www.seautos.it). La sua predilezione per temi di critica sociale o comunque disturbanti – secondo l’ipocrisia che caratterizza il pensiero democratico – e la sua repulsione verso i premi e gli altri riti che sono cardine della politica del consenso in Italia, hanno fatto il resto.

            Ciononostante, la sua attività gli ha riservato notevoli soddisfazioni, soprattutto alla luce delle difficoltà che ha dovuto affrontare: se la maggior parte delle sue oltre venti raccolte sono apparse per forza di cose autoprodotte in forma di samizdat, Rizzi è riuscito a vedersene pubblicate in maniera corretta (cioè senza ricorrere ai “vanity editors” a pagamento) altre cinque dal 1994.

      Di queste solo “Poesie incitanti all’odio sociale” (uscito per la Puntoacapo Edizioni di Novi Ligure nel 2008) risulta essere ancora reperibile. Gli altri (Opera prima: Non voglio morire a Rovigo” – Padova, Ed. Calusca 1994; “Poesie” – Rionero in Vulture (PZ) Ed. Progetto Siderurgiko 1998; “Piccola trilogia nera” – Modigliana (FC) Ed. Criatu 2000) non lo sono più da tempo. Mentre “L’armadio cromatico” – San Bellino (RO), Ed. L’Archivio della Memoria 2000 è reperibile solo in occasione delle manifestazioni a sfondo sociale alle quali partecipa questa minuscola realtà editoriale.

            Fra le numerose antologie nelle quali è stato inserito va fatto cenno almeno a due “Antologia ecologica minima richiedibile presso l’editore: Lato Selvatico e “Word Poetry Yearbook 2014” apparsa con fondi UNESCO in Pechino. Numerose pure le riviste e le fanzines che lo hanno ospitato nel corso dell’ultimo ventennio. Oltre a una manciata di racconti, apparsi su qualche fanzine e sito web, Alberto Rizzi ha pubblicato finora una sola opera in prosa: il romanzo breve “I pesci nel barile”: ambientato negli “Anni di piombo”, uscito nel 2012 per le Ed. Saecula di Vicenza.