Riproponiamo: Alexander Calder e il fascino del movimento e del colore – sassi d’arte

Alexander Calder (Lawnton, 22 luglio 1898 – New York, 11 novembre 1976) è stato uno dei maggiori innovatori della scultura del XX secolo.Artista molto ammirato in America e tra i più acclamati della scena internazionale, “Sandy” Calder, com’era conosciuto nella cerchia di amici, ha saputo cogliere lo spirito del suo tempo e fare del movimento e del colore le componenti fondamentali della sua opera.

I suoi mobiles, azionati dal vento, di dimensioni, forme e colori diversi, lo hanno reso famoso in tutto il mondo. Questi dischi di metallo sospesi a fili di ferro liberi di muoversi, animati dal minimo soffio d’aria e capaci di dare vita a complesse sequenze cinetiche estremamente affascinanti, con il loro sistema di elementi delicatamente in equilibrio, sembravano sfidare le leggi di gravità. Per Calder, la forma delle sue sculture simboleggiava il movimento universale del sistema solare e della vita. “La base di tutto quello che faccio – era solito dire – è l’universo”. I mobiles hanno rivoluzionato i principi dell’arte plastica, che per secoli era stata considerata l’opposto del movimento, effimero e mutevole, e hanno fatto di Calder un pioniere e un esponente di punta della scultura cinetica.

Parallelamente ai mobiles, Calder ha realizzato anche numerosi stabiles, sculture statiche costituite da piastre di metallo fissate con bulloni. Negli anni ’60 e ’70, mobiles e stabiles hanno raggiunto dimensioni monumentali. Al pari di altri monumenti urbani che abbelliscono le piazze pubbliche di tutto il mondo, queste gigantesche sculture hanno goduto e continuano a godere di una grande popolarità internazionale.

Calder ha iniziato la sua carriera come pittore, ha realizzato anche dipinti, disegni, gouaches, giocattoli umoristici, gioielli, arazzi, oggetti domestici di ogni tipo ed è diventato famoso per i suoi libri illustrati, le litografie, le automobili e gli aerei dipinti. Tra gli scultori contemporanei, l’amore di Calder per la sperimentazione è senza eguali; con un’energia e una curiosità incredibile, ha sperimentato tutti i materiali in grado di essere scolpiti. Gli anni ’30 furono uno dei decenni più ricchi d’innovazione nella carriera di Calder e in questo periodo l’artista ottenne anche i primi riconoscimenti internazionali. Fino al 1931, l’artista aveva lasciato allo stato grezzo i materiali che utilizzava nelle sculture e si era limitato, nelle opere grafiche, a contrasti in bianco e nero. Da quel momento, invece, cominciò a sfruttare l’interazione di forma e colore per dissolvere i volumi, dando vita a infinite combinazioni di movimento-colore-forma.

Quando fecero la loro prima apparizione , all’inizio degli anni ’30, i mobiles (plurale di “mobile”, termine coniato nel ’31 da Marcel Duchamp, quando visitò per la prima volta lo studio di Calder a Parigi) destarono grande scalpore: per la prima volta nella storia dell’arte una scultura, tradizionalmente statica, non era più “fissata” al suolo e poteva muoversi liberamente, poiché dotata di parti mobili che potevano essere messe in moto da correnti d’aria o azionate meccanicamente, creando “una configurazione astratta – come ha scritto nel 1955 patrick Heron nel suo libro ‘The Changing Forms of Art’ – di parti articolate in cui ciascun elemento o segmento è libero di descrivere un movimento proprio; movimento che, pur essendo da essi distinto, è condizionato dai movimenti di tutti gli altri segmenti articolati di cui si compone la costruzione totale”.

Dal 1932, Calder iniziò a realizzare i mobiles senza motore, animati da una semplice corrente d’aria e col passare degli anni ne sviluppò tre diversi tipi: quelli sostenuti da un supporto, quelli attaccati al muro e i più popolari, quelli che pendono dal soffitto, strutture liberamente ondeggianti, di forme, dimensioni e colori diversi. Calder realizzò oltre ai mobiles anche numerosi stabiles (termine inventato dallo scultore Hans Arp nel 1932, un anno dopo la prima esposizione parigina di Calder), costruzioni metalliche statiche  costituite da piastre d’acciaio tenute insieme da viti, bulloni e chiodi e del nuovo corso della sua scultura, l’artista diceva: “nel costruire le mie prime sculture astratte statiche ero interessato principalmente allo spazio, alle dimensioni vettoriali e ai diversi centri di gravità […]. Non si può comprendere il valore estetico di questi oggetti attraverso il ragionamento, ma devono piuttosto divenire familiari […]”. Nel corso degli anni ’50, queste strutture, gli stabiles, avrebbero portato a compimento il passaggio a forme scultoree rigidamente piatte e sempre più solide, costruite con materiali compatti e robusti, divenendo “familiari” anche in molte città.

(foto in chiusura: “Gallows and Lollipops” installazione in Beinecke Plaza, campus di Yale, New Haven – ph. by Calder Foundation on twitter – notizie riassunte dal volume monografico “Calder” edito da Taschen)

Riproponiamo: Andrea Mantegna, Giuditta – sassi d’arte

Andrea Mantegna, Giuditta con la testa di Oloferne

disegno, Gabinetto dei disegni e delle stampe degli Uffizi (Penna, acquarellature marroni, biacca su carta bianca molto scurita. cm 39 x 25,8)

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All’epoca era considerato un grandissimo. Poi passò in una sorta di oblio, quando la core per la quale lavorò assiduamente, quella dei Gonzaga di Mantova, fu relegata in un angolino della storia tra il 1630 e il 1707. Mantegna era nato figlio di falegname alle porte di Padova e aveva intrapreso la carriera di pittore quando questo mestiere era ancora considerato solo un mestiere. Dalle Vite di Vasari, pubblicate cent’anni dopo l’esecuzione delle opere maggiori, si apprende che la bottega padovana di Francesco Squarcione fu una sorta di laboratorio per una intera generazione di artigiani, che stavano diventando protagonisti della pittura del primo Rinascimento. In quel luogo ci si esercitava in «cose di gesso formate da statue antiche, et in quadri di pitture, che in tela si fece venire di diversi luoghi, e particolarmente di Toscana e di Roma». La bottega dello Squarcione, che lo adotta come figlio solo per pagarlo meno e con il quale finirà in causa, è una centrale artigianale che segue da vicino le passioni umanistiche e intellettuali dell’epoca. Ma è pure il luogo dove si applicano tutte le ricette recenti della prospettiva inventate nella Firenze del Brunelleschi. per Mantegna, quindi, l’impianto compositivo dei dipinti deve d’ora in poi guardare all’infinito e l’infinito diventa, così, il paesaggio esterno, la luce.

Il culmine del percorso pittorico avverrà nella decorazione della Camera degli Sposi a Mantova (leggi qui e qui in questo blog), mentre la tensione prospettica raggiungerà il massimo della sua forza iconografica nella composizione del Cristo morto che dipinge dieci anni dopo (leggi qui). Quest’attenzione prospettica di Mantegna non è solo dovuta alla visione scientifica che si sviluppa nei suoi anni,ma anche alla potente corrente estetica, che vede nella copia dell’antico il passo necessario per la scoperta della plasticità, quella copia che genera i piccoli capolavori delle grisailles a riproduzione dei bassorilievi del passato (il grisaille, grisaglia in italiano, o monocromo indica varie tecniche nella pittura; la parola è un prestito dal francese grisaille, che a sua volta proviene da gris -“grigio”- inteso come metodo per rendere le sfumature di grigio. In generale indica una decorazione o una pittura fatta a monocromo).

Giuditta, nella Bibbia, è l’eroina del libro che porta il suo nome; il libro, conservato in greco, è escluso dal canone ebraico, mentre è accettato da quello cattolico. Giovane e ricca vedova di Betulia, Giuditta, quando ormai la città, giunta allo stremo delle sue forze, sta per arrendersi a Oloferne, generale di Nabucodonosor, che l’assedia da tempo, passa – accompagnata da una schiava e splendidamente abbigliata – nel campo nemico, dove è ben accolta dallo stesso Oloferne colpito dalla sua bellezza. Ma, una notte, mentre il generale giace nella sua tenda oppresso dal vino, Giuditta gli taglia la testa e la porta, involta in un panno, nella città. I cittadini sono tanto rincuorati che fanno una sortita, sconfiggendo gli Assiri sconvolti dalla morte del generale. È tuttora discusso il fondamento storico di tale racconto, il cui testo originale (ebraico e aramaico) è andato perduto e del quale esistono altre recensioni più tarde; anche gli esegeti cattolici non nascondono le difficoltà molto notevoli di conciliarne i dati con la storia del periodo, ma il tempo ha conferito interesse a questa storia fuori dall’ordinario, nella quale è una donna a salvare il suo popolo con carattere e decisioni tragiche da sempre appannaggio degli uomini; storia che ha da sempre appassionato gli artisti, attraversando senza soluzioni di continuità tutte le grandi epoche pittoriche e non solo.

Nei lavori di Andrea Mantegna Giuditta è rappresentata con forme aggraziate; il peso del corpo è scaricato su una sola gamba, secondo quel che, in arte, è definito “chiasmo”, (ovvero una tecnica compositiva, che consiste nella disposizione della figura umana secondo un particolare ritmo che ricorda l’andamento della lettera χ), che conferisce alla figura un andamento sinuoso sottolineato dal panneggio degli abiti. Oloferne è del tutto assente dalla scena tranne nelle versioni in cui la donna esce dalla tenda con la testa in mano.

Oltre al disegno conservato presso il Gabinetto dei disegni e delle stampe degli Uffizi, con il titolo di “Giuditta” si rinviene, tra le opere dell’artista padovano,  anche un dipinto tempera a colla e oro su tela di lino (65×31 cm) databile al 1495-1500 circa e conservato nel Montreal Museum of Fine Arts in Canada. L’opera fa parte di quella produzione di grisaglie che caratterizzò diverse opere del maestro mantovano negli ultimi anni dalla sua carriera, dal 1495 circa fino alla morte. Tali opere rivaleggiavano con la scultura ed erano molto apprezzate nell’ambiente della corte, anche per la scarsità di grandi scultori attivi a corte e la difficoltà di procurarsi il marmo, che doveva essere importato da territori vicini con un certo esborso economico. La tavola fa coppia con quella di Didone nello stesso museo, di misure pressoché identiche, e con due tavole alla National Gallery di Londra (Tuccia e Sofonisba), con le quali formavano il gruppo delle Donne esemplari dell’antichità. Citate tutte e quattro nell’inventario port mortem dei beni dell’ultimo duca di Mantova Carlo Federico Gonzaga nel 1542, passarono poi nelle collezioni del maresciallo Schulenburg, venendo citate in un inventario del 1738. Alcune incertezze nella ricostruzione storica sono date dalle misure che non combaciano, né con questa coppia né con quella di Montréal. Le due tavolette canadesi vennero battute a un’asta di Christie’s il 13 aprile 1775, quando vennero separate dalle altre due, entrando nelle raccolte londinesi di John Taylor, per essere vendute, in seguito, nel 1912. Dopo un paio di passaggi di proprietà vennero infine acquistate dal museo di Montréal. Sul retro della Giuditta esiste anche una scritta di collezione, visibile con riflettografia, che riporta And.a Mantegnia. P[inxit].

[tratto e adattato da I capolavori dell’arte a cura di Philippe Daverio – prima parte – , Enciclopedia Treccani on-line – storia di Giuditta – e da Wikipedia].

Riproponiamo: Gustav Klimt, Giardino di campagna con girasoli – sassi d’arte

Gustav Klimt, Giardino di campagna con girasoli, 1906 circa

olio su tela, cm 110 x 110 – Vienna, Österreich Galerie, Museo del Belvedere Superiore

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Come la maggior parte dei quadri di paesaggio di Klimt, il Giardino di campagna con girasoli è una veduta della regione austriaca dove il pittore usava passare l’estate negli anni della maturità. Un prato magnificamente fiorito occupa per intero la tela quadrata, scandita verticalmente da due piante di girasole, una decentrata verso destra e l’altra che spunta appena dal margine sinistro del quadro. grandi foglie verdi pendono dagli steli robusti, incorniciando perfettamente i girasoli, che si volgono in cerca di luce.

Il decorativismo saturo di colori e di forme del maestro austriaco trova libero sfogo nella straordinaria varietà dei fiori che arricchiscono il prato. Punti di azzurro, rosa, bianco, giallo, e rosso declinati in svariate tonalità si inseriscono nel verde dell’erba, a completare un mosaico di tessere minute. Sebbene il maestro dipinga all’aria aperta, egli appare totalmente disinteressato alla rappresentazione realistica della natura, preferendo offrire una visione idealizzata: i suoi paesaggi sono superfici bidimensionali sospese nello spazio e nel tempo.

Klimt rappresentò una delle figure centrali della vita della capitale austriaca intorno al volgere del secolo, e tuttavia conosciamo di lui molto meno di quanto ci sia noto circa chiunque tra i suoi contemporanei celebri. Non aveva l’abitudine di tenere un diario e scrisse pochissime lettere. Di quanto disse di sé abbiamo testimonianze assai scarse, tantoché non sappiamo quasi nulla di ciò che pensava riguardo la propria arte e quella altrui. C’è, è vero, una notevole quantità di informazioni di seconda mano, ma la maggior parte di esse è di carattere aneddotico e di limitata affidabilità. Il ritratto di Klimt che ne emerge può apparire netto al primo sguardo, ma diviene confuso non appena emergono ulteriori elementi di complessità e contraddizione.

Klimt era una figura centrale e, tuttavia, al contempo periferica. Diversamente da molti scrittori, giornalisti, artisti, musicisti, filosofi e scienziati, che fecero della Vienna fin-de-siècle un luogo affascinante, Klimt non apparteneva ad alcun circolo definito. Egli contava tra i propri amici altri artisti e compositori, ma li incontrava in privato, preferendo non frequentare i cafè situati nel cuore della città, celebri per le loro conversazioni e i loro pettegolezzi. Viveva e lavorava lontano dal centro e benché fosse conosciuto, ammirato e apprezzato da molti, le sue amicizie erano raramente intime. All’apparenza socievole e gioviale, Klimt era in realtà una persona molto riservata, che custodiva dentro di sé i propri sentimenti e pensieri più profondi. (Frank Whitford, Klimt, 1990)

Testo tratto da I capolavori dell’arte, Klimt (Corriere della sera, 2014)

Riproponiamo: Arazzo di Bayeux – sassi d’arte

1070 c.a. – otto strisce di lino allineate e ricamate (tessuto moiré), altezza tra cm 45,7 e cm 53,6 e larghezza m 68,38 – Bayeux, Centre Guillaume la Conquérant.

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L’arazzo di Bayeux, noto anche con il nome di arazzo della regina Matilde e anticamente come Telle du Conquest, è un tessuto ricamato (non un vero e proprio arazzo, a dispetto del nome corrente), realizzato in Normandia o in Inghilterra nella seconda metà dell’XI secolo, che descrive per immagini gli avvenimenti chiave relativi alla conquista normanna dell’Inghilterra del 1066, culminanti con la battaglia di Hastings e circa la metà delle immagini rappresenta fatti precedenti l’invasione stessa.
 
Benché apparentemente favorevole a Guglielmo il Conquistatore al punto da essere considerato talvolta un’opera di propaganda, in realtà la sua finalità è l’affermazione della legittimità del dominio normanno in Inghilterra. L’arazzo si prefigge come obiettivo di creare una convivenza pacifica tra normanni ed anglosassoni: ne è la prova il fatto che, a differenza di altre fonti (le “Gesta Guillelmi” e il “Carmen de Hastingae Proelio”), l’arazzo vede sotto una luce positiva Aroldo, elogiato per la sua vicinanza e intimità con il santo e re Edoardo, per il suo status aristocratico e signorile e per il suo valore, riconosciuto dallo stesso Guglielmo. Esso è l’espressione di settori del regno anglo-normanno, che cercano di elaborare il trauma conseguente all’invasione, di sanare i conflitti e di avviare un’integrazione tra normanni e inglesi.
 
L’arazzo di Bayeux ha un valore documentario inestimabile per la conoscenza della Normandia e dell’Inghilterra dell’XI secolo. Costituito da otto strisce di lino per una lunghezza totale di 68,30 metri, era conservato sino alla fine del XVIII secolo nella collezione della Cattedrale di Bayeux, mentre attualmente è esposto al pubblico nel Centre Guillaume-le-Conquérant sempre di Bayeux. Nel 2007 l’UNESCO lo ha inserito nel Registro della Memoria del mondo. Non è chiaro chi sia stato il committente né la località di manifattura dell’arazzo; recentemente si è affermata con una certa sicurezza l’ipotesi che l’arazzo sia stato prodotto negli anni 70-80 del secolo XI a Canterbury, nell’abbazia di Sant’Agostino, commissionato da Oddone. In una seconda tesi si nega, invece, la presenza di Oddone, lasciando l’ideazione dell’opera esclusivamente ai monaci dell’abbazia, ma la sua frequente e forte presenza sull’arazzo rimarrebbe tuttavia a prova del contrario. Due studiosi, tuttavia, relativizzano la capacità di condizionamento di Oddone, finanziatore, indicando i monaci quali creatori indipendenti dell’opera. Ciò potrebbe spiegare l’orientamento ideologico “neutrale” dell’arazzo e la sfiducia che l’arazzo mostra verso i nobili laici, incapaci di siglare una pace definitiva e duratura, e anche la presenza di numerosi personaggi minori, essendo questi appartenenti al circolo dei benefattori dell’abbazia di Sant’Agostino. 
 
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L’arazzo illustra l’invasione dell’Inghilterra da parte di Guglielmo, ma la realtà che veramente offre l’opera è, però, un’altra: una narrazione neutrale delle vicende, anche quella del giuramento, essendo lo scopo di questo la convivenza tra due diversi popoli. Ne è la dimostrazione la “parità” riservata ai morti di Hastings, essendo impossibile comprendere a quale schieramento i morti fanno parte. Il vero messaggio, oltre all’invito a superare assieme il trauma dell’invasione, è quello di critica e sfiducia verso il mondo laico-aristocratico, portatore di morte ed instabilità. In ogni caso, essendo opera di religiosi, i morti eguali tra loro possono rappresentare una generica critica verso la guerra, negatrice della più basilare pietà cristiana.
 
L’arazzo di Bayeux è una pregevole testimonianza dell’arte romanica ma, soprattutto, è uno dei documenti più grandiosi della storia europea. Un testo latino continuo e un fregio costituito da 58 quadri ricamati, i quali, con poche eccezioni, sono narrati nella corretta sequenza storica e ognuno dei protagonisti compare più volte nel corso dell’opera; malgrado gli anonimi artisti non abbiano cercato in alcun modo di raffigurarli con l’esattezza del ritratto, essi restano comunque identificabili. I ricami dell’arazzo non miravano solo alla rappresentazione epica di una battaglia epocale, non erano solo un manifesto politico, ma rispondevano anche alla necessità di soddisfare il bisogno di svago e intrattenimento. Le bordure poste sopra e sotto le scene della vicenda principale hanno in parte una funzione puramente decorativa, in parte raffigurano leggende, narrano episodi secondari o anticipano eventi futuri. Verso la fine del ciclo, nella scena in cui imperversa la battaglia di Hastings, la striscia lungo il margine inferiore raffigura schiere di arcieri, soldati morti e feriti e la deportazione di cadaveri, il tutto reso con un naturalismo che infrange le regole del tempo.
 
Il principio di una narrazione per immagini, che si svolge come un fregio, era conosciuto fin dall’antichità – un esempio è fornito dai bassorilievi della colonna di Traiano – e l’arazzo di Bayeux segue questo principio narrativo, tanto che l'”azione” che caratterizza le scene raffigurate ha fatto sì che esso venisse spesso paragonato ad un film o a una striscia a fumetti. Il colore non naturalistico eppure omogeneo, le figure spesso molto allungate, agili come insetti e dalla vivida gestualità, suscitano una intensa e potente impressione generale.
 
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La tesa drammaturgia dell’insieme fa dell’arazzo un capolavoro di fantasia creativa. La sua impostazione grafica, è articolata in azioni concatenate, che vedono in scena un totale di 126 personaggi diversi; ogni scena è corredata di un breve commento in lingua latina. L’arazzo risulta amputato della parte finale, di lunghezza stimata intorno ai 90–200 cm, nella quale probabilmente si raffigurava l’incoronazione di Guglielmo. Contiene la raffigurazione di 626 persone, 202 cavalli e muli, 505 animali di altro genere, 37 edifici, 49 alberi. In totale 1515 soggetti forniscono una miniera di informazioni visive sull’XI secolo: per la storia navale, ad esempio, si apprende dalla forma delle vele che le navi utilizzate erano di tipo vichingo; per l’oplologia (studio delle armi), si apprende, invece, che le armi usate da ambo le parti erano di origine scandinava; per l’araldica si registra il primo uso in battaglia di insegne allo scopo di distinguere amico da nemico. Non si è conservata nessun’altra opera d’arte figurativa medievale che offra una simile ricostruzione opulenta della storia più recente – le poche altre opere tessili di epoca romanica, per esempio l’arazzo di Gerona, sono dedicate e temi religiosi – e questo particolare induce a chiedersi a quale luogo questo arazzo di Bayeux fosse destinato: forse veniva appesa in cattedrale per una determinata festività o, secondo una ipotesi più convincente, si pensa che l’arazzo fosse utilizzato originariamente per ornare il salone di un palazzo vescovile, sia a Bayeux, sia in una qualsiasi altra località dell’Inghilterra meridionale.
 
(Tratto e adattato dal volume Romanico, di Norbert Wolf edito da Taschen e da Wikipedia; immagini dal web)

Paul Gauguin, Nave Nave Moe con una nota dell’artista – sassi d’arte

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Paul Gauguin, Nave Nave Moe (Dolci fantasticherie), 1894

olio su tela, cm 73 x 98, San Pietroburgo – The State Hermitage Museum

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Nave nave Moe (Dolci fantasticherie tradotto anche come Acqua deliziosa) fu dipinto da Paul Gauguin in Francia durante il periodo di ritorno in Europa: il pittore ha portato con sé molti disegni e appunti, di cui si serve anche a Parigi per eseguire opere tahitiane e anche in questo caso, dove vengono accostati elementi sacri e della vita quotidiana, si ritrovano caratteri consueti, quali le donne del luogo, il mango e, sullo sfondo, la danza rituale per la dea Hina.

Quando Gauguin torna nella capitale francese vuole assolutamente stupire con un atteggiamento eccentrico e disinvolto, con la speranza di attirare sulle sue opere l’attenzione di eventuali acquirenti; invece, ottiene l’effetto di allontanare anche quei pochi collezionisti che avevano mostrato interesse verso il suo modo di dipingere. Pur essendo tornato nella sua patria continua ad evocare le immagini di quei mari del Sud che lo avevano letteralmente sedotto: egli non si cimenta con motivi nuovi, ma utilizza il vecchio repertorio con la speranza di conquistare il mondo dell’arte; ma il suo distacco da ogni residuo di realtà concreta, a cui si erano orientati finora i suoi mondi figurativi, farà sì che egli si senta sperduto nella sua patria tanto da mantenere vivi anche a Parigi i ricordi dei Tropici e dipinti come Dolci fantasticherie continueranno a essere immersi nella magia del ondo perduto.

In una delle lettere alla moglie, avvalorando il suo carattere e soprattutto le sue scelte improduttive dal punto di vista economico e, forse per questo, anche inutili per tanti, Gauguin dirà qualcosa che – a mio parere – è validissimo ancora oggi e non solo in Pittura: “Sono un grande artista e lo so. Proprio perché lo sono ho sopportato tante sofferenze: per seguire la mia vita, se no mi considererei un bandito. Che è quello che sono, del resto, per molte persone. In fondo, che importa? […] da un pezzo so che cosa faccio e perché lo faccio. Il mio centro artistico è nel mio cervello e non altrove, e io sono grande perché non mi lascio frastornare dagli altri e perché faccio quello che è in me. Beethoven era sordo e cieco, isolato da tutti, e perciò le sue opere rivelano l’artista che vive su un suo pianeta. Guarda che cosa è successo a Pissarro a forza di voler essere sempre all’avanguardia, al corrente di tutto: ha perduto ogni originalità e la sua opera è priva di unità. Segue sempre la corrente, da Courbet a Millet fino a quei giovanottelli chimici che accumulano puntini.

No, io ho un fine e continuo a perseguirlo, accumulando documenti. Ogni anno vi sono trasformazioni, è vero, ma sempre nella medesima direzione. Sono il solo a essere logico e per questo trovo ben poche persone che mi seguano a lungo. Povero Schuffenecker, che mi rimprovera di essere rigido nelle mie determinazioni! Le mie azioni, la mia pittura eccetera, sul momento mi sono sempre contraddette e poi finalmente mi danno ragione. Io devo sempre ricominciare. Sono persuaso di fare il mio dovere e, frte di ciò, non accetto né consigli né rimproveri. Le condizioni in cui lavoro sono sfavorevoli e bisogna essere un colosso per fare quello che faccio in queste condizioni.”

Tratto e adattato dalla monografia “Gauguin” edita da Skira.

Stabat Mater

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Tiziano Vecellio, Mater Dolorosa (1550-1555), Museo del Prado, Madrid

Stabat Mater è una sequenza liturgica in onore della Madonna, trasmessa in molte redazioni e presto accolta in vari messali (dalla metà del 14° sec.), fino a essere inserita nel Messale romano da Benedetto XIII (1727). Quasi certamente ne è autore Iacopone da Todi. Composta da due coppie di ottonari rimati, ciascuna delle quali seguita da un senario sdrucciolo, può essere rappresentata anche sotto forma di azione scenica. Fra le realizzazioni polifoniche o concertanti del testo si ricordano quelle di J. Desprez, G. Pierluigi da Palestrina, O. di Lasso, E.R. Astorga, A. Vivaldi, A. e D. Scarlatti, G.B. Pergolesi, L. Boccherini, F.J. Haydn, F. Schubert, G. Rossini, G. Verdi, A. Dvorak, K. Szymanowski, F. Poulenc, K. Penderecki. [Enciclopedia Treccani]

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Warsztat Krakowski, Pietà di Tubadzin (1450), Museo Nazionale di Varsavia

Stabat Mater (dal latino per Stava la madre) è una preghiera – più precisamente una sequenza – cattolica del XIII secolo quasi certamente attribuita a Jacopone da Todi. La prima parte, che inizia con le parole Stabat Mater dolorosa (“La Madre addolorata stava”) è una meditazione sulle sofferenze di Maria, madre di Gesù, durante la crocifissione e la Passione di Cristo. La seconda parte della preghiera, che inizia con le parole Eia, mater, fons amóris (“Oh, Madre, fonte d’amore”) è, invece, una invocazione in cui l’orante chiede a Maria di renderlo partecipe del dolore provato da Maria stessa e dal Cristo.

È recitata in maniera facoltativa durante la messa dell’addolorata (15 settembre) e le sue parti formano gli inni latini della stessa festa. Prima della Riforma liturgica era utilizzata nell’ufficio del venerdì della settimana di passione (Madonna dei sette dolori – venerdì precedente la Domenica delle Palme). Ma popolarissima era soprattutto perché accompagnava il rito della Via Crucis e la processione del Venerdì santo. Un canto amatissimo dai fedeli, non meno che da intere generazioni di musicisti colti. (dal web)

(c) Dulwich Picture Gallery; Supplied by The Public Catalogue Foundation
Guido Reni, Mater dolorosa, XVII sec., Dulwich Picture Gallery, Londum pendébat Fílius.iuxta crucem lacrimósa,

La Domenica delle Palme negli affreschi di Giotto – sassi d’arte

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Nel calendario liturgico cattolico la Domenica delle palme è celebrata la domenica precedente quella di Pasqua e con essa ha inizio la settimana santa. Nella forma ordinaria del rito romano essa è detta anche domenica De Passione Domini (della passione del Signore) ed è una festività osservata non solo dai cattolici, ma anche dagli ortodossi e dai protestanti (ovvero le religioni che riconoscono Cristo).

In questo giorno la Chiesa ricorda il trionfale ingresso di Gesù in Gerusalemme in sella ad un asino, osannato dalla folla che lo salutava agitando rami di palma. La folla, radunatasi a voce per l’arrivo di Gesù, stese a terra i mantelli, mentre altri tagliavano rami dagli alberi intorno e, agitandoli festosamente, gli rendevano onore.

In ricordo di questo, la liturgia della Domenica delle palme, si svolge iniziando da un luogo al di fuori della chiesa, dove si radunano i fedeli e il sacerdote benedice i rami di ulivo o di palma portati dai fedeli stessi; quindi si procede in processione fino all’interno della chiesa, continuando la celebrazione della messa con la lettura della Passione di Gesù. Il racconto della Passione viene letto da tre persone che rivestono la parte di Cristo (letta dal sacerdote), dello storico e del popolo.

In questa Domenica il sacerdote, a differenza delle altre di quaresima (in cui veste di colore viola, che indica penitenza, richiamo alla conversione e alla stessa penitenza e che si usa in Avvento e in Quaresima, ma anche durante la celebrazione delle Messe dei defunti) indossa paramenti di colore rosso (colore che indica il sacrificio sulla croce di Gesù e la divinità dello Spirito Santo, ma anche il sangue sparso dai Santi Martiri; si usa la Domenica delle Palme, appunto, il Venerdì Santo, a Pentecoste, nelle feste degli Apostoli e dei Martiri e per la Messa della Cresima).

§

nell’immagine: Giotto, Scene dalla vita di Cristo, Entrata in Gerusalemme, affresco databile 1303-1305, Cappella degli Scrovegni, Padova: da sinistra Gesù avanza a cavallo di un asino verso le porte di Gerusalemme, seguito dagli Apostoli e facendosi incontro a una folla incuriosita: chi si prostra, chi accorre a vedere, chi è sorpreso, ecc. Sebbene la stesura denoti un’autografia non piena dell’episodio, la scena spicca come una delle più vivacemente naturali del ciclo, con una serie di episodi interni tratti dalla vita quotidiana, come quello dell’uomo che si copre la testa col mantello (un’azione goffa o un simbolo di chi non vuole accettare l’arrivo del Salvatore?) oppure i due fanciulli che salgono sugli alberi per staccare i rami d’ulivo da gettare al Salvatore e per vedere meglio, dettaglio derivato dalla tradizione bizantina, ma qui più realistico che mai. [fonti varie]

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Yves Bonnefoy, Siano Amore e Psiche

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Siano Amore e Psiche di Yves Bonnefoy (1923-2016)

🕊

I

Quelle mani che si avvinghiavano a lei di notte,
Le sentiva innumerevoli, non cercava
Di dar loro un volto. Le occorreva
Non sapere, desiderando non essere.

Anima e corpo, per stringere le vostre dita, unire le vostre labbra,
Davvero occorre l’approvazione degli occhi?
Penano i nostri occhi, che il linguaggio obbliga
A sventare senza posa troppi inganni!

Psiche aveva amato che il non vedere
Fosse come il fuoco quando avvolge
L’albero di qui degli altri mondi della folgore.

Eros, lui desiderava tenere tutto quel volto
Tra le mani, non l’abbandonava
Che con vivo rammarico ai capricci del giorno.

II

E per tutto il giorno Psiche è cieca? No,
Ha rimboccato su di sé il lenzuolo della luce.
È estate, tutto è immobile sotto il cielo,
Anche il fiume nel suo letto in disordine.

Lei avanza, nel suo corpo, e sola. Ma ecco
Che un estraneo invoca, nel suo sangue,
È come se lo spirito si desiderasse altro
Da sé, un embrione in seno alla morte.

Felice il mondo in cui la notte trabocca
Nel giorno, e gronda sotto la luce.
Avanzare in quest’acqua, fino alle ginocchia,

È volgersi verso un altro sole,
E il fondo del mare è rosso, poi si nuota
E tutto si perde di ciò che si è stati.

III

E Psiche s’intorpidisce, quando viene sera, ama
Che batta nel suo corpo il cuore di un altro,
Vuole non essere altro che questa camera buia
Dei bambini della notte, sonno e morte.

È come quando tocchiamo uno specchio
E dita vengono incontro alle nostre,
Psiche crede che una mano afferri la sua,
Per condurla verso più di ciò che è.

Verso più? Sono scalini che digradano,
E il corpo si stanca, le mani si aggrappano
A una greve lampada, le ginocchia si piegano.

Psiche, perché vuoi, con la tua spalla nuda,
Spingere la porta in cui giace il tuo avvenire?
Tu entri, tu senti quei quieti respiri.

IV

E lei ha acceso, con mani tremanti,
Questa fiammella? Più svelto di lei
Si è lanciato nell’immagine, questa pace,
Qualcosa di nero, con un grido.

Amore dorme? No, i suoi occhi sono aperti,
Ma sono solo orbite vuote,
Due buchi, insanguinati. È cieco?
Peggio, i suoi occhi sono stati strappati.

Grande moto di questo gran corpo che ridesta
Qualche goccia d’olio, che lo brucia.
Tu errerai, tra i rovi del mondo.

Si rialza, parla, che dice?
La attira svestita contro il suo cuore,
Ascolta i suoi gran singulti che nulla placa.

*

da L’ora presente, Lo Specchio – Mondadori, 2015, trad. di Fabio Scotto.

🕊

In apertura, Amore e Psiche, dettaglio dell’opera di Antonio Canova realizzata tra il 1800 e il 1805 e oggi ospitata all’Ermitage di San Pietroburgo: qui, a differenza della più famosa composizione ospitata al Louvre, Amore e Psiche sono presentati come due adolescenti in piedi; il dio, nudo, con il braccio delicatamente appoggiato sulla spalla della fanciulla, posa il capo sul petto di lei, mentre la stessa Psiche gli depone dolcemente nella mano una farfalla, simbolo della propria anima.

Vincent van Gogh, La notte stellata – sassi d’arte

Vincent Van Gogh, La nuit étoilée – La notte stellata, 1888

dipinto in Arles, olio su tela, cm 72,5 x 92 – Musée d’Orsay, Paris, France

© RMN-Grand Palais (Musée d’Orsay) / Hervé Lewandowski

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Sin dal suo arrivo ad Arles, l’8 febbraio 1888, la rappresentazione degli “effetti di notte” diventa una preoccupazione costante per Van Gogh. Nell’aprile del 1888, l’artista scrive al fratello Théo: “Mi occorre una notte stellata con dei cipressi o, forse, sopra un campo di grano maturo”. A giugno, così confida al pittore Emile Bernard: “Quando mai riuscirò a dipingere un Cielo stellato, un quadro che, da sempre, occupa i miei pensieri ” e a settembre, in una lettera alla sorella, torna sullo argomento: “Spesso, ho l’impressione che la notte sia più ricca di colori se paragonata al giorno”. In quello stesso mese di settembre, van Gogh realizza finalmente questo progetto diventato per lui irrinunciabile.

In un primo tempo dipinge un angolo di cielo notturno nella terrazza di un caffè sulla piazza centrale ad Arles (Otterlo, Rijksmuseum Kröller-Muller). Quindi, questa veduta del Rodano in cui l’artista riproduce in modo esemplare i colori che percepisce nell’oscurità. La tonalità dominante è il blu in varie sfumature: di Prussia, oltremare o cobalto. Le luci della città brillano di un arancio intenso e si riflettono nell’acqua. Le stelle risplendono come pietre preziose.

A distanza di qualche mese, subito dopo il suo internamento nell’ospedale psichiatrico, Van Gogh dipinge un’altra versione dello stesso soggetto: Il Cielo stellato (New York, MoMA – qui sotto), in cui si esprime in tutta la sua virulenza la sua personalità disturbata. Gli alberi assumono le stesse fattezze delle fiamme mentre il cielo e le stelle volteggiano in una visione cosmica. Nel dipinto La notte stellata, custodito presso il museo d’Orsay, la presenza di una coppia di innamorati sulla parte bassa della tela accresce l’atmosfera di grande serenità dell’opera.

[fonte: sito del Musée d’Orsay]

Paul Gauguin, Ia Orana Maria (Ave Maria) – sassi d’arte

Paul_Gauguin_Orana_Maria

Paul Gauguin, La Orana Maria (Ave Maria), 1891-1892,

olio su tela, 88 x 114 cm. New York, Metropolitan Museum of Art (The MET)

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Per soddisfare la sua implacabile sete di stimoli pittorici e nuove esperienze Gauguin nel 1891 si recò a Tahiti, nella Polinesia francese: Ia Orana Maria è una delle prime opere appartenenti a questo importante capitolo dell’arte gauguiniana. È lo stesso Gauguin a descriverci i contenuti del dipinto:

«Ho fatto una tela con un angelo dalle ali gialle che indica due donne tahitiane, vestite con un pareo, tessuto a fiori che si allaccia come si vuole alla cintura. Sullo sfondo montagne in ombra ed alberi fioriti. Un sentiero violetto ed in primo piano del verde smeraldo; a sinistra delle banane. Ne sono abbastanza soddisfatto» 

(Paul Gauguin, A Daniel de Monfreid, 11 mars 1892, in Lettres choisies : Paul Gauguin, Parigi, Fondation d’entreprise La Poste, 31 luglio 2003).

Nel distretto di Mataiea, a differenza degli altri villaggi dell’isola, non veniva ancora largamente professata la religione cristiana e perciò Gauguin fu perfettamente in grado di spogliare il tema della Madonna con il bambino della mitizzazione ufficiale promossa dalla Chiesa e di trasfigurarlo nella natura lussureggiante della Polinesia. Questa tela, dove troviamo raffigurati esattamente Gesù e Maria «tahitiani», intende dunque recuperare quella spiritualità della vita di tutti i giorni e trasfigurarla sotto il sole dei Tropici: sarà tuttavia l’ultima a sfondo cristiano realizzata dall’artista, che da quel momento in poi iniziò ad interessarsi maggiormente alle mitologie maori residue sull’isola.

In Ia Orana Maria, in ogni caso, Gauguin fonde armoniosamente la religione cristiana con gli stimoli visivi provenienti dalle terre del Sud. Ci troviamo in un contesto naturalistico lussureggiante e rigoglioso, degno di un «paradiso terrestre»: vi troviamo, infatti, un albero del pane, degli ibischi, dei candidi fiori di tiarè, noti per il loro profumo sublime, e infine una natura morta esotica con due caschi di banane, disinvoltamente poggiati su un piccolo altare legno su cui è laconicamente incisa la salutazione angelica: «Ia Orana» [Ave Maria]. È in questo modo che l’osservatore comprende di stare davanti a una trasposizione tahitiana del tema della Madonna con il bambino: partendo da sinistra, in effetti, scorgiamo un bellissimo angelo dall’incarnato scuro e dalle ali gialle e viola. Ha appena annunciato alle due tahitiane davanti a lui il mistero dell’Incarnazione: le due donne, infatti, si stanno avviando sul sentiero in atteggiamenti deferenti, con le mani giunte sul petto, in segno di saluto. In primo piano, infine, troviamo una donna (o, meglio, la Madonna) avvolta in uno sgargiante pareo rosso con il Gesù bambino sulle spalle: entrambe le figure sono aureolate, a testimonianza della loro sacralità.

Con Ia Orana Maria Gauguin traspone un tema iconografico tradizionalmente cristiano in un contesto tahitiano, orchestrando un suggestivo sincretismo culturale e figurativo: era sua opinione, infatti, che la civiltà occidentale con la sua ideologia convulsamente contorta (si consulti, in tal senso, il paragrafo Paul Gauguin § Via dalla pazza folla: Gauguin e il primitivismo) avesse rovinato e contaminato un mondo puro come quello tahitiano. Questo bipolarismo, tuttavia, si traduce anche sul piano più strettamente volumetrico: Gauguin, infatti, non esita ad abolire il chiaroscuro, risolvendo il pareo della donna in soli termini coloristici, senza per questo rinunciare a conferire un vigoroso risalto plastico alla natura morta in primo piano. Nonostante la composizione sia poi gremita di elementi e figure, inoltre, Gauguin riesce a trasmettere all’osservatore un senso di calma e di quiete, enfatizzato dalla sapiente concatenazione di linee orizzontali (sentiero, orizzonte, braccia e spalle delle donne) e verticali (le figure e le alberature). Questa potente raffigurazione, che amalgama il forte senso decorativo dell’arte orientale con l’ancestrale solidità dell’arte occidentale, vibra anche di un potente cromatismo, frammentato in tinte sgargianti che si valorizzano scambievolmente. È in questo modo che Gauguin ottiene «un miscuglio inquietante e saporoso di splendore barbaro, di liturgia cattolica, di sogno indù, d’immaginazione gotica, di simbolismo oscuro e sottile», come ha mirabilmente osservato l’intellettuale francese Octave Mirbeau. (Wikipedia)

Emilio Vedova, Scontro di situazioni 59-6 — sassi d’arte

Emilio Vedova (Venezia, 1919-2006), Scontro di situazioni 59-6 (1959)

olio su tela, cm 275 x 214 – Städtisches Museum Leverkusen, Schloss Morsbroich

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Emilio Vedova è una figura di spicco nella pittura astratta italiana. Al grido di “Astrazione come lingua universale”, anche nella Penisola i giovani artisti si riunirono in innumerevoli gruppi. Dal canto suo, Vedova partecipò solo per un anno, fra il 1952 e il 1953, alle attività di un’associazione di artisti, il Gruppo degli Otto; per il resto fu sempre un individualista e la sua scelta di continuare a vivere a Venezia, quindi lontano dai centri artistici del resto del paese, sottolineava ancor più il suo isolamento.

La pittura di Vedova viene strutturata dal bianco e dal nero delle composizioni; l’artista sottolinea il significato dei non-colori, tanto che le sue opere non si riducono a semplici composizioni nere su fondo bianco. Sulle sue tele, il nero e il bianco sono in lotta tra loro, accompagnati da altri colori, soprattutto rosso e blu. Le tinte vengono applicate “a umido sopra umido”, mescolandosi e sfumandosi le une nelle altre. La superficie non presenta una struttura chiara, né una direzione o un centro: Vedova applica i colori con gesti impulsivi e frenetici. In tal modo, sulla tela si formano piccoli punti di snodo, in corrispondenza dei quali  i colori sembrano cozzare gli uni contro gli altri come in un’esplosione. Il monumentale Scontro di situazioni 59-6 è una delle tipiche composizioni di Vedova. Il titolo enfatizza la spontaneità, la contraddizione e l’apertura del processo pittorico. Nel 1959, anno di realizzazione dell’opera, l’artista aveva esposto già due volte i propri lavori alla mostra “documenta” di Kassel (la prima era stata nel 1955).

Vedova ha sempre inteso la propria pittura come un atto politico, senza per questo ricorrere mai a una rappresentazione realistica o figurativa. Molte delle sue opere astratte, spesso riunite in forma di cicli pittorici di ampio respiro, rimandano, nei titoli, a tematiche politiche. Nel 1964, durante un soggiorno a Berlino finanziato da una borsa di studio, apparve l’Absurde Berliner Tagebuch (L’assurdo diario berlinese), un’installazione di tavole di legno, dipinte da entrambi i lati e collocate liberamente, sul modello delle pale d’altare portatili medievali. Vedova ha chiamato Plurimi queste opere articolate nello spazio, definendole “oggetti creati come potenti armi al sevizio di un segno aggressivo, che non poteva più restare confinato nelle preconcette dimensioni dell’immagine (superficie passiva), tracciate da un individuo, il pittore”.

Su queste tavole non è possibile scorgere le tracce di scene berlinesi, ma l’applicazione del colore aggressiva e secca crea l’associazione con la città divisa e lacerata. E gli elementi pittorici liberamente distribuiti nello spazio ricordano gli sbarramenti anticarro collocati lungo tutto il confine tedesco.

(da Arte Astratta, Taschen Ed.)

Armand Seguin, I fiori del male – sassi d’arte

Seguin I fiori del male

Armand Seguin, I fiori del male, 1894

olio su tela, cm 53 x 35 – Santa Monica, Loan Courtesy of The Kelton Foundation

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Armand Félix Abel Seguin (Parigi, aprile 1869 – Châteauneuf-du-Faou, inizio 1904) è stato un incisore e pittore francese. Dei suoi studi di pittura, della sua produzione e, in generale, della sua vita prima di recarsi in Bretagna si conosce molto poco. Studiò certamente all’Académie Julian, dove si impadronì saldamente del disegno e dell’incisione, mentre iniziò la sua carriera di pittore abbracciando le teorie e le tecniche dell’impressionismo; nel 1889 visitò la mostra del Caffè Volpini e ne fu profondamente colpito. Decise, allora, di raggiungere Paul Gauguin e il suo gruppo: dall’aprile del 1891 si trasferì in Bretagna, a Pont-Aven, dove divenne allievo dello stesso Gauguin e dove frequentò il gruppo di Pont-Aven, lasciando che la sua pittura passasse, quindi, ad espressioni chiaramente postimpressioniste. Nel 1893 si recò a Le Pouldu, dove insegnò allo stesso Gauguin la tecnica dell’acquaforte e dell’acquatinta; ma la scarsità di mezzi economici lo indusse, malvolentieri, a produrre incisioni commerciali e a lavorare, come illustratore, realizzando anche numerose stampe.

Nonostante le dimensioni ridotte, I fiori del male può essere considerato il dipinto più riuscito di Seguin. Le macchie di vario colore, forma e tonalità di cui si compone formano il collage di un paesaggio piatto fatto di sogno e suggestione. Persino la figura, circondata da fiori astratti e circondata da una roccia grigia, è poco più che un motivo tra la fastosità generale.

Quest’opera rappresenta l’immagine di una fuga dal mondo quotidiano in una fantasmagoria al di fuori del tempo e dello spazio. Il titolo rivela il debito dell’autore del dipinto nei confronti della prosa e della poesia di Baudelaire, la cui omonima raccolta poetica del 1857, condannata per immoralità, fu importante fonte d’ispirazione per tutta una generazione di poeti e pittori simbolisti. A lasciare il segno era soprattutto la sezione intitolata Correspondances, con la sua suggestione che l’universo va letto e non semplicemente visto e che il mondo materiale non è altro che una foresta di simboli. Ecco l’inizio:

La Nature est un temple où de vivants piliers
Laissent parfois sortir de confuses paroles;
L’homme y passe à travers des forêts de symboles
Qui l’observent avec des regards familiers
.
la Natura è un tempio dove colonne viventi
talvolta lasciano uscire confuse parole;
l’uomo vi passa attraverso foreste di simboli
che lo osservano con sguardi familiari
.

Seguin condivideva la fiducia di Baudelaire nelle corrispondenze, ma non aveva un talento o un vigore fisico paragonabile a quelli del poeta. Morì di tubercolosi all’inizio del 1904, poche settimane dopo aver ricevuto la notizia della scomparsa del suo maestro e principale ispiratore, Paul Guguin. [fonti varie]

Piero della Francesca, Sacra Conversazione – sassi d’arte

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Piero della Francesca, Sacra Conversazione (con la Madonna col Bambino, sei santi, quattro angeli e il donatore Federico da Montefeltro) denominata anche Pala di Brera o Pala Montefeltro, 1472

tempera su tavola, 248×172 cm; Pinacoteca di Brera, Milano.

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In questa grande pala d’altare, Piero della Francesca raggiunge il vertice della perfezione nell’uso dei rapporti geometrici e della prospettiva. Il pittore trascorse circa quattro anni alla corte ducale di Urbino contribuendo, insieme ad altri artisti, a fare di questa piccola capitale uno dei maggiori centri del Rinascimento italiano.

La Sacra Conversazione fu commissionata all’artista da Federico da Montefeltro, duca di Urbino, e dalla sposa Battista Sforza per celebrare la nascita, nel gennaio 1472, del figlio Guidobaldo, alla quale la madre non sopravvisse. Le leggi della prospettiva elaborate dagli artisti e dai matematici rinascimentali vi sono applicate con rigore scientifico, ma si nota anche l’influenza dei pittori fiamminghi, che avevano soggiornato alla corte di Urbino, nella rappresentazione minuziosa degli indumenti, dei gioielli e dell’armatura del duca, e nel prezioso tappeto orientale che ricopre il piedistallo del trono.

La “Pala di Brera” trova la collocazione milanese come bottino napoleonico per pagare la campagna d’Italia del 1796, che decretò l’arricchimento del museo parigino del Louvre e del suo “clone” lombardo; perché, se il Louvre doveva essere la teca d’Europa, Brera doveva svolgere la funzione di mirabile museo quale luogo didattico legato alla formazione di pittori e architetti. Benché la prima destinazione dell’opera non sia conosciuta con certezza, la sua presenza è testimoniata, nel 1482, nella chiesa di san Bernardino a Urbino, che venne completata in quegli anni, dov’era collocata sull’altare maggiore.

La scena, allusiva e ricca di significati reconditi, è ambientata entro una grande architettura rinascimentale che si ispira a quella di una chiesa, decorata con grandi specchiature marmoree inquadrate da pilastri; nel catino absidale, a forma di conchiglia (che riprende un dettaglio del romano arco di Giano), è appeso un uovo di struzzo, che allude alla nascita e risurrezione di Cristo (poiché era credenza medievale ritenere che lo struzzo nascesse da un uovo non fecondato, similmente a Cristo nato da una vergine), oltre che alla maternità della duchessa Battista Sforza. Il fulcro della composizione è costituito dalla Vergine e dalla figura di Gesù Bambino dormiente, il cui sonno prefigura la morte, rappresentato nudo con al collo una collana di corallo – in accordo con un’iconografia diffusa nel Rinascimento – che allude al sangue della Passione. Intorno, si dispongono: a destra di Maria, san Giovanni Battista, san Bernardino da Siena, san Girolamo e alla sua sinistra, san Francesco d’Assisi, san Pietro da Verona e un incerto evangelista, forse san Giovanni; in ginocchio, in primo piano, con le mani giunte e di profilo, il duca Federico con i guanti e il bastone del comando deposti. L’impianto prospettico del dipinto converge in un unico punto di fuga centrale, collocato all’altezza degli occhi della Vergine, il cui volto ovale si pone perfettamente in linea con l’uovo dalla forma perfetta, che pende dal catino absidale.

Fra i tanti stili, il più ricco, il più complesso e monumentale era quello di Piero; ed era anche il più influente su un vasto raggio, nella zona che va da Roma a Ferrara passando intorno alla Toscana. Le ragioni della sua autorità sono ammirevolmente esposte: la definizione dello spazio e l’esaltazione della superficie ottenuta mediante colori campiti si accordano in modo così fermo e persuasivo, che si può dire si tratti della prima “sintesi” moderna. (André Chastel, “La grande officina: arte italiana 1460-1500”, 1965)

– Tratto e adattato da “Piero della Francesca, Sacra Conversazione”, collana I Capolavori dell’Arte, Corriere della Sera – 

Arazzo di Bayeux – sassi d’arte

1070 c.a. – otto strisce di lino allineate e ricamate (tessuto moiré), altezza tra cm 45,7 e cm 53,6 e larghezza m 68,38 – Bayeux, Centre Guillaume la Conquérant.

*

L’arazzo di Bayeux, noto anche con il nome di arazzo della regina Matilde e anticamente come Telle du Conquest, è un tessuto ricamato (non un vero e proprio arazzo, a dispetto del nome corrente), realizzato in Normandia o in Inghilterra nella seconda metà dell’XI secolo, che descrive per immagini gli avvenimenti chiave relativi alla conquista normanna dell’Inghilterra del 1066, culminanti con la battaglia di Hastings e circa la metà delle immagini rappresenta fatti precedenti l’invasione stessa.
 
Benché apparentemente favorevole a Guglielmo il Conquistatore al punto da essere considerato talvolta un’opera di propaganda, in realtà la sua finalità è l’affermazione della legittimità del dominio normanno in Inghilterra. L’arazzo si prefigge come obiettivo di creare una convivenza pacifica tra normanni ed anglosassoni: ne è la prova il fatto che, a differenza di altre fonti (le “Gesta Guillelmi” e il “Carmen de Hastingae Proelio”), l’arazzo vede sotto una luce positiva Aroldo, elogiato per la sua vicinanza e intimità con il santo e re Edoardo, per il suo status aristocratico e signorile e per il suo valore, riconosciuto dallo stesso Guglielmo. Esso è l’espressione di settori del regno anglo-normanno, che cercano di elaborare il trauma conseguente all’invasione, di sanare i conflitti e di avviare un’integrazione tra normanni e inglesi.
 
L’arazzo di Bayeux ha un valore documentario inestimabile per la conoscenza della Normandia e dell’Inghilterra dell’XI secolo. Costituito da otto strisce di lino per una lunghezza totale di 68,30 metri, era conservato sino alla fine del XVIII secolo nella collezione della Cattedrale di Bayeux, mentre attualmente è esposto al pubblico nel Centre Guillaume-le-Conquérant sempre di Bayeux. Nel 2007 l’UNESCO lo ha inserito nel Registro della Memoria del mondo. Non è chiaro chi sia stato il committente né la località di manifattura dell’arazzo; recentemente si è affermata con una certa sicurezza l’ipotesi che l’arazzo sia stato prodotto negli anni 70-80 del secolo XI a Canterbury, nell’abbazia di Sant’Agostino, commissionato da Oddone. In una seconda tesi si nega, invece, la presenza di Oddone, lasciando l’ideazione dell’opera esclusivamente ai monaci dell’abbazia, ma la sua frequente e forte presenza sull’arazzo rimarrebbe tuttavia a prova del contrario. Due studiosi, tuttavia, relativizzano la capacità di condizionamento di Oddone, finanziatore, indicando i monaci quali creatori indipendenti dell’opera. Ciò potrebbe spiegare l’orientamento ideologico “neutrale” dell’arazzo e la sfiducia che l’arazzo mostra verso i nobili laici, incapaci di siglare una pace definitiva e duratura, e anche la presenza di numerosi personaggi minori, essendo questi appartenenti al circolo dei benefattori dell’abbazia di Sant’Agostino. 
 
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L’arazzo illustra l’invasione dell’Inghilterra da parte di Guglielmo, ma la realtà che veramente offre l’opera è, però, un’altra: una narrazione neutrale delle vicende, anche quella del giuramento, essendo lo scopo di questo la convivenza tra due diversi popoli. Ne è la dimostrazione la “parità” riservata ai morti di Hastings, essendo impossibile comprendere a quale schieramento i morti fanno parte. Il vero messaggio, oltre all’invito a superare assieme il trauma dell’invasione, è quello di critica e sfiducia verso il mondo laico-aristocratico, portatore di morte ed instabilità. In ogni caso, essendo opera di religiosi, i morti eguali tra loro possono rappresentare una generica critica verso la guerra, negatrice della più basilare pietà cristiana.
 
L’arazzo di Bayeux è una pregevole testimonianza dell’arte romanica ma, soprattutto, è uno dei documenti più grandiosi della storia europea. Un testo latino continuo e un fregio costituito da 58 quadri ricamati, i quali, con poche eccezioni, sono narrati nella corretta sequenza storica e ognuno dei protagonisti compare più volte nel corso dell’opera; malgrado gli anonimi artisti non abbiano cercato in alcun modo di raffigurarli con l’esattezza del ritratto, essi restano comunque identificabili. I ricami dell’arazzo non miravano solo alla rappresentazione epica di una battaglia epocale, non erano solo un manifesto politico, ma rispondevano anche alla necessità di soddisfare il bisogno di svago e intrattenimento. Le bordure poste sopra e sotto le scene della vicenda principale hanno in parte una funzione puramente decorativa, in parte raffigurano leggende, narrano episodi secondari o anticipano eventi futuri. Verso la fine del ciclo, nella scena in cui imperversa la battaglia di Hastings, la striscia lungo il margine inferiore raffigura schiere di arcieri, soldati morti e feriti e la deportazione di cadaveri, il tutto reso con un naturalismo che infrange le regole del tempo.
 
Il principio di una narrazione per immagini, che si svolge come un fregio, era conosciuto fin dall’antichità – un esempio è fornito dai bassorilievi della colonna di Traiano – e l’arazzo di Bayeux segue questo principio narrativo, tanto che l'”azione” che caratterizza le scene raffigurate ha fatto sì che esso venisse spesso paragonato ad un film o a una striscia a fumetti. Il colore non naturalistico eppure omogeneo, le figure spesso molto allungate, agili come insetti e dalla vivida gestualità, suscitano una intensa e potente impressione generale.
 
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La tesa drammaturgia dell’insieme fa dell’arazzo un capolavoro di fantasia creativa. La sua impostazione grafica, è articolata in azioni concatenate, che vedono in scena un totale di 126 personaggi diversi; ogni scena è corredata di un breve commento in lingua latina. L’arazzo risulta amputato della parte finale, di lunghezza stimata intorno ai 90–200 cm, nella quale probabilmente si raffigurava l’incoronazione di Guglielmo. Contiene la raffigurazione di 626 persone, 202 cavalli e muli, 505 animali di altro genere, 37 edifici, 49 alberi. In totale 1515 soggetti forniscono una miniera di informazioni visive sull’XI secolo: per la storia navale, ad esempio, si apprende dalla forma delle vele che le navi utilizzate erano di tipo vichingo; per l’oplologia (studio delle armi), si apprende, invece, che le armi usate da ambo le parti erano di origine scandinava; per l’araldica si registra il primo uso in battaglia di insegne allo scopo di distinguere amico da nemico. Non si è conservata nessun’altra opera d’arte figurativa medievale che offra una simile ricostruzione opulenta della storia più recente – le poche altre opere tessili di epoca romanica, per esempio l’arazzo di Gerona, sono dedicate e temi religiosi – e questo particolare induce a chiedersi a quale luogo questo arazzo di Bayeux fosse destinato: forse veniva appesa in cattedrale per una determinata festività o, secondo una ipotesi più convincente, si pensa che l’arazzo fosse utilizzato originariamente per ornare il salone di un palazzo vescovile, sia a Bayeux, sia in una qualsiasi altra località dell’Inghilterra meridionale.
 
(Tratto e adattato dal volume Romanico, di Norbert Wolf edito da Taschen e da Wikipedia; immagini dal web)

Cavità sacre e misteriosi laboratori – sassi d’arte

 
Viviamo in un incantesimo,
tra palazzi di tufo,
in una grande pianura.
Sulle rive del nulla
mostriamo le caverne di noi stessi
– qualche palmizio, un santo
lordo di sangue nei tramonti, un libro
lento, di pochi fatti che rileggiamo
più volte, nell’attesa che ci dia
tutte assieme la vita
le cose che crediamo di meritare.
 
 
Vittorio Bodini
Da Foglie di tabacco (1945-47),
in La luna dei Borboni (1952)

Le gravine pugliesi (in apertura, panoramica sugli ambienti rupestri della Valle delle Rose, nella gravina della Madonna della Scala, Massafra – TA) sono profondi canyon dove, nell’ombra, si rifugiano specie di piante e animali che cercano la tranquillità e l’umidità necessarie alla sopravvivenza. Questi luoghi sono anche stati, in passato, rifugio per gli abitanti dei paesi che sulle loro pareti nacquero e ancora oggi si affacciano e i ripari di un antico Medioevo sono poi divenuti luoghi di culto ipogei di grande bellezza in cui si coniugano – come forse in nessun altro luogo del nostro Paese – la perfezione delle architetture scavate sottoterra e il fascino di antichi cicli di affreschi, al confine tra l’arte dell’Occidente e la pittura dell’Oriente Bizantino.

Site nell’area a nord del Golfo di Taranto, dove l’intero arco di altipiani segue l’andamento della costa jonica pugliese, le gravine sono profonde incisioni di origine fluvio-carsica, caratterizzate da alte pareti rocciose. Hanno uno sviluppo orientato da nord a sud e sono, a grandi linee, parallele tra loro. Dunque, le gravine rappresentano, il letto di antichi corsi d’acqua che, scorrendo tra le fratture della roccia formatesi per effetto dei movimenti tettonici, per millenni hanno eroso la roccia. Queste imponenti incisioni carsiche nel corso dei millenni sono state abitate, scavate, popolate, dando vita a quel comprensorio rupestre unico riunito nel parco naturale Terra delle Gravine (parcogravine.com), un’area naturale protetta istituita in Puglia nel 2005 per tutelarne il patrimonio paesaggistico e faunistico; l’area si estende per la massima parte nella provincia di Taranto, comprendendo un solo comune della provincia brindisina, nella zona delle Murge e copre 14 Comuni: Ginosa, Laterza, Castellaneta, Palagianello, Mottola, Palagiano, Massafra, Statte, Crispiano, Martina Franca, Montemesola, Grottaglie, Villa Castelli, San Marzano di San Giuseppe. (In foto, il Villaggio rupestre di Santa Marina, nella gravina San Marco, Massafra)

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All’imboccatura del Parco Regionale si innalza lo sperone roccioso di Massafra: la più importante città rupestre pugliese, che per via della sua millenaria vocazione eremitica é stata soprannominata “Tebaide d’Italia” (chiamata anche così per via delle “cento porte”, ovvero gli innumerevoli pertugi scavati, nel tempo, nelle pareti di tufo).  In una regione dove gli insediamenti spettacolari sono decisamente numerosi, il colpo d’occhio sull’abitato di Massafra è molto impressionante. La città è costruita sulle due sponde della vertiginosa Gravina di San Marco e i due quartieri, il borgo e il centro storico, sono collegati da due viadotti, il più basso dei quali è il panoramico Ponte Vecchio, innalzato su cinque arcate. Le moltissime cavità scavate nelle pareti di tufo della gola nacquero forse come rifugio per la popolazione nel corso dell’alto Medioevo; nelle zone più impervie della provincia di Taranto andarono presto addensandosi estese “criptopoli”: città segrete, ricavate dallo scavo plurisecolare dei fianchi di burroni. Con lo stanziamento degli eremiti venuti da Oriente, questi antri furono riadattati e coperti di immagini sacre affrescate in stile bizantino, dove il contrasto tra le cromie e la pietra grezza pone in massimo risalto il valore del misticismo teologico trasposto in pittura. (In foto: Massafra, a sinistra, affresco di Maria della Bona Nova, cripta -oggi in restauro – adiacente il santuario della Madonna della Scala; a destra, invece, cripta della Candelora nella gravina di san Marco). 

Massafra, Madonna della Bona nova a sin. e cripta della Candelora a dx

Proprio a imitazione di sant’Antonio abate, che verso il 306 d.C. era emerso vittorioso da una volontaria reclusione espiatoria nel deserto egiziano della Tebaide, i suoi adepti usarono espiare i peccati del genere umano isolandosi, pregando e digiunando in terre ostili e disabitate. Pur essendo difficile, in carenza di scavi sistematici, offrire una cronologia precisa della fenomenologia rupestre, il periodo di massima frequentazione del sito è attestato tra X e XI secolo: la prima notizia storica attestante l’esistenza di monaci orientali a Massafra, il cui territorio risulta frequentato come sito trogloditico fin dall’età della Pietra, si registra nel 971 d. C. Gli ambienti ricavati nel tufo, riabitati dall’alto Medioevo come rifugio isolato dagli assalti nemici alle grandi città, furono presto adibiti a nuovo uso. L’insediamento tra le grotte da parte di comunità cristiane dedite all’austerità prevedeva le difficili attività di purificazione spirituale (askesis) e fuga dal mondo (anachoresis).

Attualmente, a ridosso di un pianoro urbanisticamente saturo, il centro moderno di Massafra è solcato da ben due gravine costellate di grotte e villaggi ipogei. La vistosa gravina orientale, dedicata a San Marco e occupata da un villaggio rupestre, con le chiese di santa Marina, della Candelora e san Marco, incarna una preziosa testimonianza di vita ascetica; sulla faglia aperta si staglia il castello di origine normanna, munito di torri cilindriche. Vedere un villaggio trogloditico così ben inserito in un centro abitato fa del contesto massafrese un habitat unico al mondo.

Massafra farmacia del mago Greguro

Riti pagani e culti religiosi si sono alternati nel corso dei secoli e Massafra ne riporta i segni nel proprio territorio con uno dei più vasti e affascinanti complessi rupestri della zona; bisogna prendere la provinciale per Martina Franca, nella zona Nord della città, invece, per ammirare la Gravina della Madonna della Scala, che deve il nome al santuario e comprende diverse unità abitative a corollario del vasto ipogeo, e per visitare la “Farmacia del mago Greguro” (fotografia in alto). La farmacia è una delle grotte più affascinanti custodita in questa gravina, nella quale, la tradizione popolare vuole che Greguro, igumeno del villaggio, e sua figlia Margaritella curassero con le erbe spontanee la popolazione che a loro si rivolgeva; questa cavità è composta da una serie di ambienti comunicanti su vari livelli, in parte scavati e in parte naturali, e sulle pareti delle grotte si trovano centinaia di piccoli incavi scolpiti nella roccia, circostanza che in passato ha fatto pensare a una serie di punti d’appoggio per contenitori di erbe medicinali, necessari a pratiche mediche o a misteriose magie (in chiusura, Massafra oggi vista dall’alto, con il Ponte Vecchio che si erge sulla gravina di san Marco). 

Massafra

Notizie tratte e adattate da “Viaggio nell’Italia sotterranea” di Fabrizio Ardito per Giunti, da cui è condivisa anche la foto dei due affreschi e il titolo dell’articolo; italiamedievale.org; immagini dal web. Per ulteriori approfondimenti sul vasto e affascinante argomento della Terra delle Gravine, su Massafra, sulle cripte basiliane e sulle bellezze nascoste della Puglia, di cui qui si è scelto di condividere solo una minima parte, vi invito a cercare on line e ancor più a venirci a trovare in questi luoghi ricchi di fascino e storia! (AnGre)