Dario Bellezza: poeta e narratore italiano (Roma 1944 – ivi 1996), nel 1971 pubblicò la prima raccolta di poesie, Invettive e licenze, con cui, grazie anche all’autorevole avallo di P. P. Pasolini, si affermò nell’ambiente letterario romano come una delle figure più rappresentative di una nuova generazione di poeti, non compromessa con le ragioni della neoavanguardia. (Treccani Enciclopedia)
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Forse mi prende malinconia a letto
se ripenso alla mia vita tempesta e di
mattina alzandomi s’involano i vani
sogni e davanti alla zuppa di latte
annego i miei casi disperati.
Gli orli senza miele della tazza
screpolata ai quali mi attacco a bere
e nella gola scivola piano il mio
dolore che s’abbandona alle
immagini di ieri, quando tu c’eri.
Che peccato questa solitudine, questo
scrivere versi ascoltando il peccatore
cuore sempre nella stessa stanza
con due grandi finestre, un tavolo
e un lettino di scapolo in miseria.
E se l’orecchio poso al rumore solo
delle scale battute dal rimorso
sento la tua discesa corrosa
dalla speranza.
~
Per sempre
Eri una emozione per vivere,
per stridere durante il pasto
serale. Era emozionante ricevere
posta. La mattina in fretta
le scale scendevo e lì
trovavo le ingiurie tue
alla mortale natalità.
Accuse per andare avanti.
Ma dopo ti rendevi inquieta
al delitto del non detto
se non rispondevo per le rime.
O rima che dirti non sapevo
senza la fuga in avanti
di terzine squilibrate
sul dolce stil vecchio della
Musa canterina a presiedere
gli ozi di Sodoma. Dirti
che ero pieno di sonno
se l’immortalità era un pio
desiderio, lugubre sospiro
ti avrebbe annoiato.
Talvolta una stradina
mi risucchia indenne
dove non alberga strepito di auto;
allora sciolto dai tuoi lunghi
sensi camminare ti vedo per sempre.
~
Amleto
Ho portato il mio vecchio corpo rotto da malattie
che non danno più la pace dello Spirito fino al teatro
dove Amleto carezzava la sua imperatrice madre
cacciatrice di mode pur di evitare la servitù
dell’amore filiale o il coraggio di un incesto
per bene, quasi fosse la mia, di madre, tenera madre
dimenticata nelle sue nevrosi mattutine
di casalinga inquieta, nelle inquiete stanze
della vastità amara di un tempo. Ero giovane,
ero ragazzo, ero libero, ero cascamorto giullare
di un invito al ristorante con la grande artista
melodiosa del verbo incarnato del Cristo.
Ora lo sento il tempo distante da me che vivo
fuori del tempo e nessuno mi ha in simpatia,
neppure quando grido che in Italia si può
essere, o ironia di una citazione!, solo
ideologici o arcadici. Sempre al sevizio
di qualche re buffone, arlecchino dalle cento
piaghe. Diventare vecchi bacucchi significa
mangiare la foglia della schiavitù corrigenda,
della fulminea posta al direttore delle carceri
divine. Non c’è spazio per te, qui. Dario caro,
dittelo con tutta la fosca ottenebrata concessione
alla limitazione temporale degli editti di morte.
Qualcuno ti ha condannato a morte; e non è la carità
che spinge il tuo cuore a trasmettere il turpe messaggio
al cervello, né la paura solitaria della mano
sul membro in erezione continua,
ma la visione di Amleto, tuo simile,
spia terrena del Diavolo, traditore dei traditori
che s’infiamma nella ricerca della verità inesistente.
Eppure il suo pazzo consiglio nel dramma è identico
al tuo: «Di avercela tanto con i traditori,
avendo da sempre tutti, senza esclusione, tradito».