Tu non conosci il Sud: spunti di riflessione da Lorenzo Calogero alla poesia odierna

Tu non conosci il Sud, le case di calce
da cui uscivamo al sole come numeri
dalla faccia d’un dado.
(Vittorio Bodini)
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Da vivo, Calogero, implorò anche il più piccolo riconoscimento per la sua poesia, cui aveva sacrificato tutto, anche la vita, destituendola di anno in anno sempre più di ogni valore, di ogni dignità, di importanza. La poesia fu l’unica aspirazione di Calogero, i riconoscimenti che essa avrebbe potuto dargli, il massimo da chiedere alla vita. Per la poesia Calogero ha consumato tutto, il suo fisico, il suo cuore, il suo intelletto, fino alla menomazione e alla follia.

(G.Tedeschi, estratto da Lorenzo Calogero Opere poetiche Vol.I a cura di Roberto Lerici e Giuseppe Tedeschi – leggi qui tutta la Premessa)

Non lacrima più una luna, di Lorenzo Calogero

Non lacrima più una luna
o va via col vento.
Una sfinge fugge cieca
e forse non è più un caso
lontanando nei brevi aliti
dei colli, sugli alberi,
nuda una linea
in continua mesta discesa
dentro un’idea.
da Come in dittici, da Poeti italiani del secondo Novecento , Oscar Mondadori
“A Sinisgalli si deve la «scoperta» di Lorenzo Calogero, il quale, dopo vari infruttuosi tentativi di pubblicare su qualche rivista, dà alle stampe a proprie spese due libri di poesia, che consegna personalmente allo stesso Sinisgalli che allora (fine anni ’50 del secolo scorso) lavorava a Roma dove Calogero lo va a trovare per chiedergli una prefazione al successivo volume Come in dittici. […] La poesia di Lorenzo Calogero è la poesia di un isolato: fisicamente e culturalmente confinato nella lontana provincia calabra di Melicuccà. […] L’immobilità linguistica della poesia di Calogero è, in una certa misura, il riflesso estetico dell’arretratezza economica e culturale del Sud (degli anni ’60, non specificato nel testo n.d.r.) ma, paradossalmente, questo è anche il suo punto di forza e di massima originalità. L’isolamento fisico e geografico della poesia di Calogero, relegato a fare il medico condotto nella provincia di Reggio Calabria, è anche il marchio di garanzia della sua qualità letteraria. E’ l’isolamento di un poeta intimamente refrattario alle lusinghe delle poetiche apparentemente più innovative e spregiudicate che stavano a ridosso della modernità.
(G.Linguaglossa, L’area pre-sperimentale in Dalla lirica al discorso poetico, EdiLet, 2011)

da Le sonagliere dei mirti vanno verso il porto, di Gino Rago

Ettore senza scudo quasi a cibare i corvi.
Astianatte nella Pietas di braccia senza carne.
Andromaca. Né più moglie né madre.
Ecuba ora perde la parola. Non emette
un’onda la sua voce. Le rimane solo il gesto.
Il linguaggio dei segni volge sulle schiave
e a sé soltanto dice: «Nella terra di quali uomini
sono giunta? Sono selvaggi, senza giustizia,
o nella mente serbano e nei gesti
anche un esile rispetto degli dèi?».

(leggi qui tutto il testo – inedito precedente il 2017)
“La Federazione Unitaria Italiana Scrittori (FUIS), nel quadro della attivita’ di promozione oltre a quella di rappresentanza e consulenziale, ha ospitato lo scorso 16 aprile 2015 la presentazione, presso la sede romana di piazza Augusto Imperatore, della Antologia «Il rumore delle parole. Poeti del Sud» (2015), per i tipi di EdiLet, a cura di Giorgio Linguaglossa. Sono intervenuti il curatore della Antologia e la poetessa romana Letizia Leone.
Linguaglossa ha illustrato l’opera precisando che l’Antologia non può ritenersi ultimata ed esaustiva in questa prima edizione. La particolarità, secondo Linguaglossa, dei Poeti del Sud, rispetto, per esempio, alla cosiddetta Scuola lombarda o ad altri indirizzi, risiede nella varietà degli stili.
Nel delineare i lineamenti geostorici della poesia italiana e nel tracciare i vari periodi di «egemonia letteraria» fra Milano, Firenze, Roma che nel corso del Novecento si sono succeduti, il curatore dell’antologia ha notato come nel Sud operino poeti vitali che si muovono secondo modalità non concordate, libere da interessi editoriali o di uffici stampa. È una poesia che non si rende immediatamente «riconoscibile» e dove ciascun poeta ha una sua precisa «identità stilistica».
Oggi il Sud si è smarcato dal periferico, evidenza il dinamismo fra centro e periferia anche se questo movimento tellurico era stato già intravisto con chiarezza da Pasolini per il quale la periferia romana sfociava nel terzo mondo. Nello stesso tempo, ha continuato Letizia Leone, ci sono autori come Albino Pierro che non vogliono centralizzarsi, altri fanno, anche a Nord, del dialetto la propria isola nel rifondare la propria stilistica. Se siamo nella post-storia, nell’epoca dello svuotamento ideologico, forse è lecito  parlare di post-meridionalismo, per questi poeti, lontani dalle poetiche del vissuto, dal mito di una poesia che abita il mito o di quella che ricerca una impossibile innocenza perduta.
In questo contesto storico che dista anni luce dalla linea meridionale degli anni Cinquanta, sia Letizia Leone che  Linguaglossa si sono soffermati sul rapporto tra scrittura e il territorio, individuando la forza di questi Autori nell’aver digerito lo scandalo della storia, quello dell’essere poeta oggi, di non sapere più a chi si rivolga la scrittura poetica.
(a firma A.F. tratto da Per una Carta Poetica del Sud, Manifesto del Poest-Meridionalismo su L’Ombra delle Parole Rivista, aprile 2015)

Collage (Poesia fatta di stracci), di Gino Rago

Non c’è niente di più opaco
della trasparenza totale.
Il corpo è colore e odore.
I sospiri delle onde richiamano il vento:
ora sboccio. Una rosa tra le dita.
Prendila.
Mi accorgo solo ora che l’artrite deforma le mani.
Tutto cominciò con una caduta.
Spremere fuori il mistero…
Ti muovi viva nel tuo stesso corpo.
Ma nuvolaglie increspano
le visioni razionali.
(…)

Ritirarsi? Sì.
Ritirarsi
Ma dalle forme consunte del poetico.
E rifarsi un vestito.
(…)

Un abito tutto nuovo di parole
per la festa e per il quotidiano.
Confezionarsi un vestito nuovo
Nell’atelier di stracci. E’ nuova la poesia
fatta con gli stracci.

(agosto 2017)
“Vedi caro Gino Rago,
io che conosco la tua poesia fin dalle prime pubblicazioni degli anni novanta, mi meraviglia, e non poco, constatare come la tua poesia, a contatto con la «nuova ontologia estetica» sia cambiata, ne ha avuto una accelerazione verticale. La tua poesia degli anni novanta scontava il generale immobilismo e il ristagno della poesia del Sud intervenuto dopo il post-ermetismo, diciamo così, dopo Sinisgalli e Lorenzo Calogero. Dopo questi due poeti la poesia del Sud si arresta e fa le veci della poesia del Centro e del Nord, diventa una poesia di un paese coloniale e colonizzato. Fenomeno questo del tutto naturale vista l’arretratezza della economia del Sud dipendente da quella del Nord.”
(G.Linguaglossa, 10 luglio 2017, commento).
La domanda nasce spontanea: allora i poeti – non solo del Sud -“”migliorano”” soltanto appartenendo all’ennesima congrega \ caso letterario \ movimento \ casta \ gruppo di amici \ chiamatelo come ve pare, proposto in nome di qualcosa, che non sappiamo se essere il modernismo o le manie personalistiche di affermazione, da sempre agognato? (e si badi che questo mio dire non è riferito al fare gruppo per scambio-crescita di idee). E per avere un momento di visibilità nella “stagnazione spirituale” in corso è necessario tagliare le pietre della forma voluta per dimostrare che quella forma esiste in natura, come dice il mio amico Flavio Almerighi (di cui riporto sotto un inedito sull’argomento)? Occorre coercizzare tutti i contesti, piegandoli alle proprie idee, per avvalorare qualcosa che si è deciso essere importante e necessaria, gettando alle ortiche tutto quello che non rientra nel cerchio magico per qualcosa, appunto, che se è vera, – e speriamo sia ancora consentito il dubbio – solo il tempo potrà dimostrarlo? Diamine, io se credo in qualcosa non faccio opera di proselitismo, martellamento, demolizione mirata, porta a porta e mistificazione, ma, semplicemente, perseguo in silenzio la mia strada. I cambiamenti non si studiano a tavolino, non si creano “ad arte”, semplicemente accadono, avvengono. E si finisca una buona volta di usare la retorica del nascondersi sotto l’abituccio dismesso della modestia, della noncuranza, del tono basso per non destare scalpore, della finta dimenticanza dell’Ego e del disinteresse per l’argomento stesso per poi glorificarsi a vicenda. Di “scarpari” (nel mio dialetto significa “calzolai”) ne abbiamo sì bisogno, ma di quelli veri, che sappiano prima di cosa ha bisogno ogni piede e poi come si aggiusta una scarpa, tenendo i chiodini a zittirli tra le labbra e martellando solo sulla superficie interessata, non ovunque!
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E prima che qualche buon massone…ehm buontempone venga a fare storie qui, avvisiamo tutti i “noeauti”, antichi Argonauti che hanno pero il vello, ma non altro – e pure quelli che hanno aperto nuovi blog solo per avere un nickname – oggi persi per altre scialuppe bucate, che questo articolo, che tratta per la prima e ultima volta di NOE in questa sede, non ha nessun fine celebrativo, né pubblicitario per nessuno, né tanto meno è un attacco personale; qui non ci contrapponiamo a nulla e a nessuno, ma cerchiamo soltanto di esprimere il nostro dissenso verso qualcosa che secondo noi sta creando qualche danno alla Poesia, supportata da una voce che sfrutta la sua storia letteraria e che oggi abbraccia quei modi di fare da anni contrastati. Con buona pace di sciamani, sufi, sofisti, musicisti, trapezisti, analisti, qualsivoglia ‘isti e disquisizioni psico-socio-filosofico-antropo/logiche e illogiche e di tutto quello che Poesia non è.
Prendete e leggetene tutto, come un semplice confronto di fatti e persone.
Ai posteri l’ardua sentenza e ai postumi del caldo, il resto. Io, intanto, speriamo che me la cavo. Buona Poesia con la maiuscola, si spera, a tutti! (AnGre)
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balliamo un surf senza futuro, di Flavio Almerighi
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la bocca automatica
ha mangiato il dime
non vuole risputarlo,
forse non per vendetta
decisero la riduzione
a due sole scuole di pensiero
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c’era chi il metro
era novanta centimetri
chi uno e dieci, è giusto ci sia
un po’ di finta opposizione.
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I parolai sparlarono,
le comari strepitarono,
fu una corsa interminabile,
anche adesso sotto le finestre,
tutti a rincalzare coperte,
cantare ninne nanne,
ungere culi,
in cerca di prove indubbie
sul vero metro,
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valutare, svalutare:
una troia fu sollevata
in men che non si dica
dalla stalla alle stelle
venne fatta santa,
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il lontano cugino Paolo,
ohimè è un po’ sordo,
comprò in ferramenta
un metro da cento
e, come monito,
fu appeso per i piedi
finì che ci trovammo tutti
come i sindacati,
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pieni di burocrati e pensionati
balliamo un surf senza futuro
(In apertura: Michelangelo Pistoletto, Venere degli stracci: esempio italiano di Pop Art. Il termine “Pop Art” indica un movimento artistico d’avanguardia sviluppatosi intorno al 1955 parallelamente in Gran Bretagna e negli Stati Uniti d’America, come reazione alla pittura degli Espressionisti Astratti. Arte che, dietro immagini apparentemente grottesche, lasciava intuire le contraddizioni dell’Uomo moderno, vittima della società; un’arte di massa, i cui quadri spesso erano riproduzioni in serie di oggetti su tela o in scultura sempre, però, icone sociali, oggetti, appunto, e materiali  del quotidiano elevati a manifestazione artistica. La Pop Art, ebbe il ruolo di mettere in evidenza sfrontatamente la mercificazione dell’Uomo, l’ossessivo martellamento mediatico e il consumismo eletto a sistema di vita, fondando la propria comprensibilità su soggetti noti e riconoscibili.)
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Giorgio Linguaglossa, I pensieri del poeta Gaio Cornelio Gallo a proposito del suo collega Druso

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Giorgio Linguaglossa, inedito

I pensieri del poeta Gaio Cornelio Gallo a proposito del suo collega Druso

Druso ha sempre i piedi sporchi nei calzari di cuoio,
il ventre prominente e parla un latino infarcito di dialettismi della Sabina;
inoltre, a tavola non è mai sobrio, ama l’eccesso
in libagioni e in amorazzi con le sue schiave
e con i mori che acquista al mercato al suono di sesterzi d’oro.
Nel Foro non prende mai una posizione
univoca, chiara, ciò che dice in
privato non lo ripete certo in pubblico.
È abile, sfuggente come una biscia, oleoso
come la resina del Ponto Eusino,
dire che non lo amo sarebbe un eufemismo,
una ipocrisia, ma ciò che è più grave,
non riesco neanche a detestarlo.
Mi dico: «Druso è un codardo, un mentitore,
un fingitore, un voltagabbana» ma, ciononostante,
non riesco a detestarlo. Forse che dovrei rimproverargli
il suo faccione impolverato di cerusso?
In fin di conti è un mio simile: un teatrante, un attore,
ha un mento, due occhi, un naso aquilino, proprio come me.
«Non c’è alcuna differenza – mi dico – tra noi».
Druso ha gli occhi foderati di cerone da teatro
il volto scivoloso di biacca, il mento leporino
e gli occhi cisposi per il vino in eccesso
bevuto la notte innanzi, ascolta
ciò che gli torna immediatamente utile,
quando non gli conviene fa il pesce in barile;
dei nostri discorsi sulla res publica
dice «che sì, che no, che forse, che insomma…».
Del resto, sto molto attento quando
nei conviti privati mi porge il cratere colmo di vino,
fingo di bere con un sorriso sordido…
mentre con la coda dell’occhio
sbircio sempre in allarme la porta d’entrata.
Evito di guardare in volto il capo delle guardie
quando fa ingresso in casa di Mecenate
con il suo codazzo di pretoriani e di ottimati profumati.
Anch’io parlo sempre meno in pubblico
dei miei pensieri privati, e in privato
dei miei pensieri pubblici…

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tratto da: Tre poesie inedite di Giorgio Linguaglossa sul tema dei personaggi storici, mitici o immaginari (clicca qui per gli altri testi)

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Da un commento dell’Autore, leggiamo:

Le poesie fanno parte di una raccolta inedita “Tornare alla corte di Cesare?”, scaturita dalla lettura di una poesia di Zbigniew Herbert (“Il ritorno del proconsole”). La figura retorica sulla quale ho costruito le poesie della raccolta è la “trasposizione” (il traslato), ovvero, il parlare dell’oggi fingendo di parlare di personaggi del lontanissimo passato. Se non si capisce questo non si comprenderebbe nulla delle mie poesie. Il problema indagato è la condizione dell’artista nei confronti del Potere, di qualsiasi potere, anche di quello cd. democratico.

Ecco, l’avere lo sguardo lontano è proprio di ogni artista, ogni vero artista non può che disprezzare il presente, non può accordare la propria cetra alle regole metriche del Presente. Il tono “salottiero”, che taluni hanno evidenziato, è quello usato, è vero, ma vorrei ricordare anche l’altra figura retorica fondamentale di molta poesia degli ultimi due secoli (tra cui ci metto Brodskij) : quella della “epistola” che consente di scrivere nel’intimità delle cose che altrimenti non potrebbero essere vergate; il pubblico è lontano, le poesie sono indirizzate quindi ad un misterioso “interlocutore” non ben specificato. Tutte le poesie (almeno le mie) sono sempre indirizzate ad un “interlocutore” posto al di fuori del proprio tempo e del tempo, per questo forse appaiono stranianti (ma non sono il solo, ci sono molti poeti europei che scrivono in questo modo!). Parlo meglio di me e della mia epoca quando assumo la finzione di parlare di un’altra lontanissima epoca. [Giorgio Linguaglossa]

immagini: busto marmoreo di Gaius Cornelius Gallus (da Rome & Art) ; monete antiche.

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Giorgio LinguaglossaGiorgio Linguaglossa è nato a Istanbul nel 1949 e vive e Roma. Nel 1992 pubblica Uccelli e nel 2000 Paradiso. Ha tradotto poeti inglesi, francesi e tedeschi tra cui Nelly Sachs e alcune poesie di Georg Trakl. Nel 1993 fonda il quadrimestrale di letteratura «Poiesis» che dal 1997 dirigerà fino al 2005. Nel 1995 firma con Giuseppe Pedota, Lisa Stace, Maria Rosaria Madonna e Giorgia Stecher il «Manifesto della Nuova Poesia Metafisica», pubblicato sul n. 7 di «Poiesis». È del 2002 Appunti Critici – La poesia italiana del tardo Novecento tra conformismi e nuove proposte. Nel 2005 pubblica il romanzo breve Ventiquattro tamponamenti prima di andare in ufficio. Nel 2006 pubblica la raccolta di poesia La Belligeranza del Tramonto. Nel 2007 pubblica Il minimalismo, ovvero il tentato omicidio della poesia in «Atti del Convegno: È morto il Novecento? Rileggiamo un secolo», Passigli, Firenze. Nel 2010 escono La Nuova Poesia Modernista Italiana (1980 – 2010) EdiLet, Roma, e il romanzo Ponzio PilatoMimesis, Milano Nel 2011, sempre per le edizioni EdiLet di Roma pubblica il saggio Dalla lirica al discorso poetico. Storia della Poesia italiana 1945 – 2010. Nel 2013 escono il libro di poesia Blumenbilder (natura morta con fiori), Passigli, Firenze, e il saggio critico Dopo il Novecento. Monitoraggio della poesia italiana contemporanea (2000 – 2013), Società Editrice Fiorentina, Firenze. Nel 2015 escono La filosofia del tè (Istruzioni sull’uso dell’autenticità) Ensemble, Roma, e Three Stills in the Frame Selected poems (1986-2014) Chelsea Editions, New York. Nel 2016 pubblica il romanzo 248 giorni con Achille e la Tartaruga. Ha fondato la Rivista Letteraria Internazionale L’Ombra delle Parole. Nel 2016 ha curato l’Antologia di poesia contemporanea Com’è finita la guerra di Troia non ricordo, autori vari, ed. Progetto Cultura di Roma.

Angela Greco, Fuori le mura, inediti con due note critiche e commenti

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Piet Mondrian, Evoluzione

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 Nota critica di Mario M. Gabriele (dicembre 2016)

Nella raccolta inedita dal titolo Fuori le mura del 2016 di Angela Greco, la tipologia linguistica, moderna e per frammenti, punta tutto sul fermo immagine, nel tentativo di recuperare universi statici e in movimento, con proprie frazioni temporali e metaforiche. La parola poetica si forma ad ogni scatto di foto flash, mentre lo sguardo si fissa sulle “facciate in ristrutturazione”, su tutto ciò che proviene dall’esterno. E’ un reportage multiforme, coloristico, percepibile come illuminazione del momento nel tentativo di scoprire l’attimo ineffabile, fluidificante fra soggetti e oggetti. L’occhio è il periscopio puntato sul mondo. Le campionature dell’esistenza, polverizzate dal tempo giacciono su un terreno deflorizzato, tornando a esistere nel momento in cui il Vuoto, la frantumazione, il senso deleuziano di una “totalità perduta” finiscono di essere tali, per integrarsi nel corpo dei frammenti, che ridanno essenza, all’assenza, in un viaggio della mente e della psiche. Qui “l’effetto di superficie” diventa armonizzazione delle cose, categoria rifondatrice della materia, volontà di ricostruire tutto ciò che resta nel cuore e nella mente. Non c’è bisogno delle narrazioni, perché il discorso si affida al frammento, che svolge un ruolo di determinazione delle cose, con piccoli squarci dialogici, in una spirale di frantumazioni e di intuizioni che si fissano in una sorta di fotoni poetici.

Il postmoderno ha ucciso i cantastorie e gli aedi del lirismo. Si è istituito così l’ideale storico della liberazione da ogni contatto con la metrica, che governava rigidamente la struttura del verso nel Novecento. Oggi il criterio di validazione di un testo poetico, non può prescindere dalla ricostituzione della parola, che resta l’unico mezzo progettuale del divenire poetico. La modernità culturale lo esige. Profondità e altezza si annullano con una descrizione del mondo esterno e di quello interno nella configurazione della realtà attraverso i vari stadi, provvisori e fluidificanti. L’autrice annota tutto questo con ritmo crescente, misurando la propria lunghezza visiva su sfondi catarifrangenti formalizzati poi con i versi.

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Appunto di Giorgio Linguaglossa sulla «Rappresentazione»

Il tratto caratterizzante della forma artistica del Moderno va individuato, secondo Foucault in quell’opera fondamentale che è Les Mot et les choses, nel concetto di Rappresentazione (Darstellung) attraverso la diagnosi di Las Meninas di Velazquez. I termini del problema sono presto detti. Si rappresenta l’atto stesso della rappresentazione: pittore, tavolozza, grande superficie scura della tela rovesciata, quadri appesi al muro, spettatori che guardano; da ultimo, nel centro, nel cuore della rappresentazione, vicinissimo a ciò che è essenziale, lo specchio, il quale mostra ciò che è rappresentato, ma come un riflesso così lontano, così immerso in uno spazio irreale, così estraneo a tutti gli sguardi volti altrove, da non essere che la duplicazione più gracile della rappresentazione.

Tutte le linee del quadro convergono verso un punto assente: vale a dire, verso ciò che è, a un tempo, oggetto e soggetto della rappresentazione. Ma questa assenza non è propriamente una mancanza, è piuttosto quella figura che “nessuna” teoria della rappresentazione è in grado di contemplare come suo momento interno. La caratteristica della rappresentazione alle origini del Moderno sta dunque nel fatto che il soggetto della rappresentazione, il produttivo “fuoco” che la sorregge, le coordinate, si colloca al di fuori della rappresentazione stessa.

L’absentia segnala dunque in Foucault la chiusura di ogni representatio. Nessuna teoria della rappresentazione è, in quanto tale, in grado di includere nel suo circolo il Soggetto-sostegno della rappresentazione. L’osservatore, per cui la rappresentazione è allestita, non può osservare se stesso, ma solo il suo simulacro, o, come in Las Meninas, la sua immagine riflessa nello specchio. La forma-poesia dell’età moderna rientra in questo schema epistemologico: il soggetto viene ad eclissarsi, viene detronizzato della sua presunta centralità e la sua visione diventa strabica, eccentrica, parziale, s-focata, fuori fuoco, fuori gioco, insomma, non è più centrale, ha perduto la sua centralità… ma questa intrinseca debolezza del soggetto, della centralità del soggetto, invece di rivelarsi una debolezza ontologica può, paradossalmente, riabilitarsi in una nuova volontà di potenza, in una nuova messa a fuoco del problema della rappresentazione e del soggetto che sta al di fuori di essa. In una parola, in una continua de-angolazione prospettica tipica delle moderne (o meglio post-moderne) forma-romanzo e forma-poesia.

È proprio il concetto di de-angolazione prospettica quello che vorrei mettere a fuoco nella poesia di Angela Greco. La de-angolazione prospettica in un testo letterario fa sì che si ha un inizio ma non una fine, non solo, e che all’interno dello sviluppo della rappresentazione non si dà un filo conduttore stabile ma un susseguirsi di punti di vista, di angolazioni prospettiche che confluiscono in un sistema di scrittura caratterizzata dalla multi prospezione prospettica; particolarità costruttiva che investe sia la forma-poesia che la forma-narrativa odierne.  Caratteristica della poesia di Angela Greco è il suo procedere per «tagli» dell’oggetto, per sovrapposizioni e accostamenti di «pezzi», e successivo montaggio, per dis-locamento dell’io parlante, per «slittamenti» frastici, per «sviamenti» e «deviazioni» dall’ordito principale del discorso; c’è insomma, una dis-locazione, un andamento a zig zag, che va di qua e di là, che porta il discorso poetico attraverso deragliamenti di significati e di direzioni, quasi che il senso, se senso c’è del discorso poetico, fosse possibile afferrarlo soltanto tramite una serie continua di deviazioni e di smarcamenti dal filo del discorso, mediante illogicismi, inserzioni di onirismo, di surrealtà, di fatti del quotidiano, di relitti linguistici che galleggiano in un mare di prosasticità. (tratto dalla Rivista Letteraria L’Ombra delle Parole  del 16 gennaio 2017)

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Kazimir Malevich, La cavalleria rossa, 1932 ca. Museo Statale Russo, San Pietroburgo.

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Nota dell’autrice – Queste composizioni inedite narrano incontri e situazioni reali e realmente accadute, che a loro volta hanno rimandato ad altri luoghi anch’essi spesso reali, ma ancor più simbolici e metaforici, inseriti per rimando d’immagine, mischiando soprattutto i piani temporali. La scelta del frammento si è adattata alla perfezione all’esigenza che da tempo avevo di rendere materialmente il problema del tempo sfuggevole e fuggente e del ricordo. Il momento, l’attimo, fosse del ricordo o dell’emozione, ho ritenuto opportuno renderlo in frammenti appunto, in flash, come fossi un fotografo, che sceglie (perché la stesura di un verso comporta delle scelte precise, delle decisioni da prendere) lo scorcio più idoneo, il taglio, l’angolazione, l’esposizione e solo dopo scatta la foto, dove “scattare la foto” qui sta per imprimere l’attimo su un supporto. Rimanendo nell’ambito delle scelte, per me la poesia è simile ad un taglio chirurgico, dove il chirurgo, deve sapere con esattezza dove incidere e ridurre al massimo l’indecisione (mancanza di decisione o indeterminatezza, ossia mancanza di definizione e torniamo così ancora all’immagine, che deve essere definita, precisa, e non generica) pena la vita del paziente. Così in queste poesie: i luoghi, i tempi, gli spazi, sono identificati con precisione, per catturare – non senza sforzo s’intenda – quel momento e non un altro; il momento preciso rimasto in me e che l’elaborazione-sedimentazione ha restituito soltanto dopo in poesia.

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Angela Greco, FUORI LE MURA – inediti 

Incontri urbani

Il cerchio perfetto dei tuoi occhiali
è sottrazione d’azzurro,
segna il confine dell’immagine riflessa
che accoglie il flash della macchina fotografica.
(Il fondale è lo spazio tra gli alberi
e la città in lontananza)
Nuda esco dalla Tempesta.
Settembre. Il giorno ha precisione meteorologica.
Il metal detector passa attraverso il suono delle campane.
Il treno esce allo scoperto lungo il muro disegnato.
Due file di auto e aceri a mosaico. La visuale.
Ti seguo.
In mezzo, un discorso sulla poesia.
Prima strada a sinistra. Facciata in ristrutturazione.
Le porte da saloon dell’ascensore stridono
e lo specchio ci riflette nei due angoli opposti.
Un metro quadrato fa procedere lentamente il tempo,
mentre al muro bianco si alternano vetro e luce.
Sesto piano. Rumore di chiave nella serratura.
Due porte. Corridoio con libri. Finestra aperta.
Interno giallo con legni scuri. Finestra chiusa.
Stapelia Variegata apre il suo fiore fuoristagione
e non ha più importanza quel che accade all’esterno.
«Sono uno dei tuoi angeli relegati in Paradiso».
Ridi.

Il nono secolo è stato un tempo di battaglie, per me;
per te, il tempo del testo kashmiri e della sua filosofia.
Uno di fronte all’altro: clangore di spade e fruscio di pagine.
Le porte del tempio di Giano ancora aperte
oggi si chiudono in questo inizio. Siamo il passaggio
e la doppia fronte nel suo significato originario.
Il Novecento è la cicatrice ombelicale da disinfettare,
perché si occluda e possiamo allora dirci adulti.
Procediamo un millennio alla volta: il terzo,
dall’anno 753 dalla fondazione di Roma, ci sorprenderà.

 

Tra me e dio

Di quante parole ha bisogno un dialogo?
Pavimento coperto da schegge di vetro.
Lo specchio rotto e l’immagine in frantumi.
Guardo in basso. Ogni frammento amplifica la visione.
Black out. La midriasi svela una presenza.
Pugni chiusi. Prendo la direzione opposta.
In silenzio. Ascolto.

Siamo nel 1987. Giugno. L’ulivo è in fioritura.
Non ci sono nuvole dopo pranzo. Passeggiamo.
In lontananza la strada scende verso il vigneto.
Il cane abbaia ad un’auto di passaggio. Io gioco
a raccogliere le pietre lisce verdi e grigie del fiume
che nasconde la sua acqua in profondità.
Siamo nel 1987. Sto imparando a scrivere.
In quel preciso momento abbiamo smesso di parlare.

Ho incontrato Dio una notte del 1928. Primi giorni di gennaio.
Mi dissero che era nato da poco.
Ebbero paura morisse subito, la mattina stessa del parto.
Per questo giunse a gennaio.
Mi domandai dove fosse l’altra metà da cui anche quel dio era nato.
19 ottobre 1959. Paese in festa. Le campane suonano alle 11.
Sono passati cinquantasette anni e trenta secoli
dal giorno in cui le due parti si sono ricongiunte.

Pagina bianca. Mitra uccide il toro. Qualcuno muore sempre.
Dalla giugulare fiotta la fertilità della terra. Pagina scritta.
Ogni dio ha un sacrificio da compiere. Il mio è vivere.
L’immortalità è scrittura nell’agonia del foglio immacolato.

Ultimo atto. Quattro i cavalli e quattro i colori. Sette i sigilli.
Il giorno successivo al primo flagello ho imparato a cavalcare.
Una filastrocca scioglie la lingua e segna la strada.
Primo giorno di scuola. Finestra aperta. Siedo nel banco
vestita di bianco e tu sorridi lasciandomi la mano.
Dio è una promessa di ritorno.

angela-greco-bianco-e-nero

Strada senza uscita

Da tre anni aspetto la fioritura dell’iris aucheri
affresco di Tebe e gioia del giardino del faraone,
introdotto in terra egizia dalla bella Siria.
Aspetto la scia colorata della buona notizia
l’attimo preciso in cui rileggere la carta delle vie
e lasciare alle stelle la decisione dell’esito finale
di questa strenua battaglia che lo specchio conosce.

La finestra è aperta su un nuovo documento word,
ultima versione, stessi caratteri, spaziatura e margini.
La seconda finestra si apre su una strada senza uscita.
Cade a pezzi a quest’ora sulle terre del Sud
un tramonto di bestia macellata annuncia la notte.
Il toro muggisce nel recinto di pietra all’ombra del castello:
il compianto è per un’altra morte, questa volta
non è Ignacio a lasciare la scena eppure l’odore è lo stesso.

La camicia azzurra stirata alla perfezione
induce ad allontanarsi dal tuo petto
per timore che linee segnino il desiderio.
Basta una stretta di mano, affare concluso
senza altre parole si stipula il contratto:
coltiveremo iris e alleveremo bovini per gli dei.
Ci occuperemo anche della morte,
in un secondo momento.

Il castello è chiuso al pari di un ufficio comunale.
A questo si riducono i viaggi, alla burocrazia.
Riprendo il cammino con l’indice tra le pagine
e mi fermo al quadrivio segnato dalla croce.
Leggo ancora un verso, quello in cui descrivi la città
e tutte le variazioni del suo nome. Siamo ad Oriente
e il ritorno all’ora legale affretta la sera e le sue ombre.
Scrivo un altro rigo seguito da puntini sospensivi.

Le colombe al mattino tubano sul balcone.
Il computer illumina la stanza centrale della casa.
La mattina inizia sempre con il caffè amaro
ed una lettura che mi restituisce il sogno.

 

Fuori le mura

Crollano all’esterno del palazzo
le mura, il re, pietre e attese.
Si spezza dell’abito dai bordi d’oro il filo
con cui era unito alle sete. Cadono bottoni.
Il telaio s’inceppa sull’ultimo punto:
un giorno di novembre ed un ritorno.

La regina ed i suoi enigmi destano Salomone.
Possono disconoscersi ed invertire i ruoli:
lui farà domande e lei avrà saggezza, ma
il deserto non cambierà la sua natura
e della sabbia si occuperà la carovana.
La notte segnata dalla stella riconduce a casa.

Living con divano in pelle e libreria. Terzo ambiente.
Orologio fermo all’ora del decesso. Dodicesimo anno.
La data immobile sul calendario dice che è dicembre
nuovamente il quindici.
Come numeri dalla faccia d’un dado, ha detto il poeta,
mentre imperterriti perdiamo tempo in domande inutili,
distraendoci con risposte di comodo.

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Ricorrenze

#1

Novembre è entrato alla tua uscita
per fumare e telefonare.
Ha posto due domande:
«Continuare fino alla fine?»
«Fermarsi al 23, mercoledì, ore 19 e 40?»

La pioggia mi sorprende a ridere
incredula della voce alla compieta,
preghiera esaudita, immagine nitida
nella sera incipiente. Poi la cena, per prassi.

Si è abbreviata la distanza dalla luna.
Nuovi eventi hanno permesso l’avvicinamento
e non occorre più rivolgersi ad alcuna agenzia.
Per esplorare il cosmo basta guardare la foto:
quella dove stringi tra le mani l’ultima ora del giorno.

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#2

«Dimmi cos’hai»
40 anni. Una penna. Fame.
Il libro degli astri. Un ricordo.
Scegli.

«E cosa vorresti?»
Un biglietto per l’Orient Express.

La voce legge Tranströmer:
un chiarore blu…una fessura
attraverso la quale i morti
passano clandestinamente il confine.
Mentre ci diluiamo con le ore della notte,
una lampada velata aspetta l’alba.

al buio

Mario M. Gabriele è nato a Campobasso nel 1940. Poeta e saggista, ha fondato nel 1980 la rivista di critica e di poetica Nuova Letteratura. Ha pubblicato le raccolte di versi Arsura (1972); La liana (1975); Il cerchio di fuoco (1976); Astuccio da cherubino (1978); Carte della città segreta (1982), con prefazione di Domenico Rea; Il giro del lazzaretto (1985), Moviola d’inverno (1992); Le finestre di Magritte (2000); Bouquet (2002), con versione in inglese di Donatella Margiotta; Conversazione Galante (2004); Un burberry azzurro (2008); Ritratto di Signora (2014): L’erba di Stonehenge (2016). Ha pubblicato monografie e antologie di autori italiani del Secondo Novecento tra cui: Poeti nel Molise (1981), La poesia nel Molise (1981); Il segno e la metamorfosi (1987); Poeti molisani tra rinnovamento, tradizione e trasgressione (1998); Giose Rimanelli: da Alien Cantica a Sonetti per Joseph, passando per Detroit Blues (1999); La dialettica esistenziale nella poesia classica e contemporanea (2000); Carlo Felice Colucci – Poesie – 1960/2001 (2001); La poesia di Gennaro Morra (2002); La parola negata (Rapporto sulla poesia a Napoli (2004). È presente in Febbre, furore e fiele di Giuseppe Zagarrio (1983); Progetto di curva e di volo di Domenico Cara; Poeti in Campania di G.B. Nazzaro; Le città dei poeti di Carlo Felice Colucci;  Psicoestetica di Carlo Di Lieto e in Poesia Italiana Contemporanea. Come è finita la guerra di Troia non ricordo, a cura di Giorgio Linguaglossa, (2016). Si è interessata alla sua opera la critica più qualificata: Giorgio Barberi Squarotti, Maria Luisa Spaziani, Domenico Rea, Giorgio Linguaglossa, Letizia Leone, Luigi Fontanella, Ugo Piscopo, Stefano Lanuzza, Sebastiano Martelli, Pasquale Alberto De Lisio, Carlo Felice Colucci,  Ciro Vitiello, G.B.Nazzaro, Carlo di Lieto. Altri interventi critici sono apparsi su quotidiani e riviste: Tuttolibri, Quinta Generazione, La Repubblica, Misure Critiche, Gradiva, America Oggi, Atelier, Riscontri. Cura il Blog di poesia italiana e straniera Isoladeipoeti.blogspot.it.
Angela Greco (nelle foto dell’articolo) è nata il 1 maggio del ‘76 a Massafra (TA), dove vive con la famiglia. E’ un perito agrario con alle spalle quattro anni di Medicina Veterinaria. Ha pubblicato: in prosa, Ritratto di ragazza allo specchio (racconti, Lupo Editore, 2008); in poesia: A sensi congiunti (Edizioni Smasher, 2012 di cui è in preparazione la seconda edizione con prefazione di Flavio Almerighi); Arabeschi incisi dal sole (Terra d’ulivi, 2013); Personale Eden (La Vita Felice, 2015, con prefazione di Rita Pacilio); Attraversandomi (Limina Mentis, 2015, con ciclo fotografico realizzato con Giorgio Chiantini e nota introduttiva di Nunzio Tria); Anamòrfosi (in uscita per le edizioni Progetto Cultura di Roma con prefazione di Giorgio Linguaglossa). È presente anche in diverse antologie e in diversi siti e blog.

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Nicola Romano, due poesie da Voragini ed appigli con due appunti critici

 

vivere-di-sogni
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Nicola Romano, due poesie da “Voragini ed appigli” (Pungitopo, 2016)
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E la parola mi muore
fra le mani e non ho fiato
– Goliarda Sapienza –
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… in fin dei conti
so radunare al meglio le parole
traggo quelle che affiorano
dal caglio dei silenzi
ed ascolto fonèmi
rime dal mezzo e afèresi
solfeggio accenti e sillabe
d’un verso martelliano
ma…
quando incombe l’ora
di quel prossimo mio
come me stesso
che con mani feroci
cava il bene dagli occhi
e tracotante spazza
l’integrità e la pace
.
si spappola il precordio
tracollo in un deliquio
e non ho più par…
.
.
.
Lascia tremar sul cero
la fiamma come un bacio
– Cristina Campo –
.
Ti scelgo e t’assaporo
nella notte ialina
come spicchio succoso
e ti carezzo l’orlo
opaco e venerino
Hai nel pube un diamante
che coglierò ansimante
con le mani furtive
e un impeto discreto
e mi dirai che è dolce
giocare a darsi amore
tra sussurri sgualciti
tu nonostante Luna
.
.
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Ester Monachino scrive: Inoltrandoci nella lettura del volume e soffermandoci tra i versi, con immediatezza si coglie sofferenza: non è, dunque, un sentire sporadico ma persistente, una sofferenza che non è dovuta al sottrarsi fuggevole dal transeunte del quotidiano ma nel trovare in esso l’intrinseco nocciolo sostanziale che si faccia medium o scheggia d’essenziale e di eterno, gemma d’intoccabile compiutezza. Invero, in una poesia d’alta liricità può trovarsi un santuario di bellezza, una nicchia di devozione, l’ascesi del e nel corpo sacro dell’Amore. Del Poeta Nicola Romano noi vediamo le orme intense di chi non si lascia sedurre dalle tentazioni nullificanti dell’apparenza perché va dritto al centro delle cose, nelle fioriture dei loro misteri.

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Dalla Prefazione di Giorgio Linguaglossa: Con il suo caratteristico tono sobriamente dissonante, a metà tra il calligrafismo e la didascalia stilizzata, questa raccolta di Nicola Romano si rifugia nell’elegante fattura del settenario come per prendere le distanze da tutto ciò che non può entrare in quel metro breve. Sicuramente, la ironizzazione e la parodia della tradizione crepuscolare italiana sono uno dei cardini della poesia, o meglio, della poesia di Nicola Romano. Il suo progetto di operare una «discesa culturale» di bachtiniana memoria nella poesia italiana, ha avuto successo, è una operazione utile come può essere utile ogni operazione di «discesa culturale» in presenza di una tradizione che sta in alto. Ma Nicola Romano non si limita ad una mera «discesa culturale», opera anche una «risalita», mediante la adozione di un metro breve, il classico settenario, posizionato come metro esclusivo di questo poemetto. Metro della tradizione burlesca che l’autore  ripropone nella sua traslazione dal burlesco all’ironico. Personalmente, nutro molti dubbi sulla utilità e sulla efficacia, oggi, in Italia, di una «discesa culturale» che non venga accompagnata anche da un riposizionamento verso l’alto di quella discesa, siamo già scesi così in basso che ogni forma di ironizzazione rischia di cadere nel vuoto da cui proviene. Così, il poeta di impianto ironico dei nostri giorni deve saper modulare entrambe le opzioni metriche e stilistiche, deve oscillare sapientemente tra la «discesa» e la «risalita»; ed è quello che fa Nicola Romano, il quale lascia oscillare il dettato poetico tra i due poli mediante la adozione di un punto di vista serioso e supercilioso sulla realtà. Cioè, per l’autore siciliano è serioso ciò che non appare esserlo, è serioso lo stile dilemmatico che oscilla tra un più e un meno, tra i due poli inconciliabili sopra detti. Semmai, il problema per il poeta di Palermo è il «vuoto» della società italiana. Ed è con questo problema che si misura il «finto vuoto» dei versi del poeta palermitano, fatti apposta per attirare e fagocitare il «vuoto». È la sua risorsa strategica, l’ultima, direi, quella di riformulare il «vuoto» ricorrendo ad una testuggine di parole indurite nei settenari, brevi, rapidi, superciliosi, ultra minimalisti.

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nicola-romanoNicola Romano risiede a Palermo, dove è nato nel 1946. Giornalista pubblicista, dal 1987 al 1996 è stato condirettore del periodico “insiemenell’arte” e attualmente collabora a quotidiani e periodici con articoli d’interesse sociale e culturale. Alcuni suoi testi hanno trovato traduzione su riviste spagnole, irlandesi e romene. Nel 1997 ha partecipato, su invito, ad incontri di poesia in Irlanda insieme all’attrice Mariella Lo Giudice ed ai poeti Maria Attanasio e Carmelo Zaffora, con lettura di testi a Dublino, Belfast, Letterkenny e Londonderry. Nel 1984 l’Unicef ha adottato un suo testo come poesia ufficiale per una manifestazione sull’infanzia nel mondo svoltasi a Limone Piemonte. Con il circuito itinerante de “La Bellezza e la Rovina” ha recentemente partecipato a letture insieme a noti poeti italiani. Tra le sue ricerche, particolare attenzione ha prestato ai poeti Vittorio Bodini, Raffaele Carrieri, Leonardo Sinisgalli, Giorgio Caproni, Alfonso Gatto ed allo scrittore Antonio Russello. Molti i titoli di poesia pubblicati.

Giorgio Linguaglossa, La grande casa immersa tra gli aranci

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La grande casa immersa tra gli aranci

La grande casa immersa tra gli aranci.
Un vento freddo la percorre a ritroso.
Nel cofanetto, i gioielli di mia madre, il bocchino d’avorio,
le lettere avvolte in un nastro azzurro, il quaderno viola
dove è scritto il destino.
Sullo stipite del tempo, l’algida immortalità dell’angelo:
“Vivete in casa e la casa non crollerà.”
.
Un bambino siede sulla riva del mare spumoso.
Cavalieri in armi galoppano sulla spiaggia.
Il bambino guarda dalla siepe di oleandri e ginestre
la nuvola di polvere sollevarsi, gli zoccoli dei cavalli.
La testa di un Apollo d’avorio è riversa
tra i solchi di un campo di grano.
.
Un’ombra passa sul volto di mia madre. È giovane.
Si affaccia sul davanzale della finestra, saluta qualcuno
che si assottiglia e scompare nel fogliame del bosco.
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Mia madre invecchia sempre più velocemente.
Mio padre è caduto in battaglia e la casa nell’aranceto
è in fiamme…
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(2006-2016)
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Giorgio Linguaglossa

tratta da AA.VV. LA CASA E’ DOVE SI TROVA IL CUORE – Antologia 

immagine d’apertura: Gustav Deutsch, scena per il grande schermo ispirata alle opere di E. Hopper.

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giorgiolinguaglossa 23 ottobre 2015 RomaGiorgio Linguaglossa è nato a Istanbul nel 1949 e vive e Roma. Ha pubblicato in poesia: Uccelli (1992), Paradiso (2000), La belligeranza del tramonto (2006), Blumenbilder (natura morta con fiori) (2013), Three Stills in the Frame Selected poems 1986-2014 (2015). Ha tradotto poeti inglesi, francesi e tedeschi tra cui Nelly Sachs e alcune poesie di Georg Trakl. Nel 1993 fonda il quadrimestrale di letteratura «Poiesis» che dal 1997 dirigerà fino al 2005. Nel 1995 firma con Giuseppe Pedota, Lisa Stace, Maria Rosaria Madonna e Giorgia Stecher il «Manifesto della Nuova Poesia Metafisica», pubblicato sul n. 7 di «Poiesis». È del 2002 Appunti Critici – La poesia italiana del tardo Novecento tra conformismi e nuove proposte. Nel 2005 pubblica il romanzo breve Ventiquattro tamponamenti prima di andare in ufficio. Nel 2007 pubblica Il minimalismo, ovvero il tentato omicidio della poesia in «Atti del Convegno: È morto il Novecento? Rileggiamo un secolo», Passigli, Firenze. Nel 2010 escono La Nuova Poesia Modernista Italiana (1980 – 2010) EdiLet, Roma, e il romanzo Ponzio Pilato per Mimesis, Milano. Nel 2011, sempre per le edizioni EdiLet di Roma pubblica il saggio Dalla lirica al discorso poetico. Storia della Poesia italiana 1945 – 2010. Nel 2013 esce il saggio critico Dopo il Novecento. Monitoraggio della poesia italiana contemporanea (2000 – 2013), Società Editrice Fiorentina, Firenze. Nel 2015 esce La filosofia del tè (Istruzioni sull’uso dell’autenticità) per Ensemble, Roma. Nel 2016 pubblica il romanzo 248 giorni con Achille e la Tartaruga. Ha fondato la Rivista Letteraria Internazionale lombradelleparole.wordpress.com  – Sito personale:: http://www.giorgiolinguaglossa.com.

Auguri in poesia! Breve antologia a tema / e-book scaricabile gratuitamente

fotografia-di-giorgio-chiantini

Il sasso nello stagno di AnGre,

insieme con i suoi Collaboratori ed i suoi Amici di lunga data,

augura a tutti sereni giorni di festa…in poesia!

Al link sotto riportato è possibile scaricare gratuitamente, cliccandovi sopra, una breve Antologia di Autori Vari sul tema della “casa”, intesa non solo, come le mura entro cui molti hanno la fortuna di vivere. La raccolta di poesie, che coralmente doniamo ai nostri lettori, abbraccia il Novecento e giunge fino a questo nuovo secolo ed ha per titolo una significativa massima di Plinio il Vecchio, “La casa è dove si trova il cuore”. Un titolo, a cui non abbiamo attribuito nessun significato retorico, ma che ha riunito in sé l’idea di Poesia, quale casa per tutti, e l’augurio che tutti possano avere un luogo che li accolga, sempre, ogni giorno, Natale compreso. Buona lettura!

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— AA.VV. LA CASA E’ DOVE SI TROVA IL CUORE (clicca qui) —  

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AA.VV. “La casa è dove si trova il cuore” – Autori & titoli

FLAVIO ALMERIGHI, Le chiavi di casa 

LEOPOLDO ATTOLICO,  Pied sot terre 

EMILIA BARBATO, Autunno

DORIS EMILIA BRAGAGNINI, L’albero e la mela

MARIELLA COLONNA, Da bambina non mi piacevano le bambole 

MIRELLA CRAPANZANO, La casa sul mare

MARIO M.GABRIELE, La casa risaliva agli anni 40 

ANGELA GRECO, IV stanza

MONICA GUERRA, due poesie brevi tratte da due libri dell’autrice

GIORGIO LINGUAGLOSSA, La grande casa immersa tra gli aranci

RITA PACILIO, Senza titolo – inedito

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All’interno dell’allegato, inoltre, sono inclusi anche alcuni autori storicizzati.

La fotografia di copertina, riportata anche in apertura, è di Giorgio Chiantini.

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— Un ringraziamento speciale gli Amici, che hanno aderito con entusiasmo a questa proposta, per la disponibilità, l’amicizia e soprattutto per la stima — 

(AnGre)

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Tramonta il sole in Occidente – inedito di Angela Greco con commento

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TRAMONTA IL SOLE IN OCCIDENTE

Il giorno nasce con la piega greve
della maschera che ti accompagna
al posto comprato e numerato.
.
L’ attesa si sveste di silenzio. Inizia la rincorsa
a qualunque cielo sia in grado di ascoltare,
ad ogni dio che abbia occhi per i suoi piedi
e per quelle mani che edificano preghiera.
.
La notte ha sbarrato le palpebre;
ha perso le stelle. Si affittano speranze
anche usate, purché risuolate bene.
.
Il nuovo giorno non ha tardato
altri accanto aspettano ancora.
La folla inferocita sentenzia senza esitare
i mezzi di comunicazione di massa annotano
la domanda multipla e l’unisona risposta.
.
A quale regno apparteniamo
quando abbiamo paura
e a chi si deve riconoscenza
del mutato destino
è ora di domandarselo.
L’intima distorsione affligge
genera deformità e cambia connotati
fino al disconoscimento.
.
Giungono tempeste da sud.
Il falco rosso e grigio guarda
immobile dall’alto della pietra
la città piccola
osserva muto
il velo di sabbia sulle parole,
sui silenzi e sulle preghiere:
apre le ali a croce
e segna il cielo.
.
Tramonta il sole in occidente.
.
.
Angela Greco (inedito)
.
.
.

—-In questa poesia di Angela Greco, nel discorso poetico, al modo di raggruppamento del discorso ordinario subentra un modo di raggruppamento insolito. Non appare fondata, qui, l’opinione di Wundt secondo il quale il ritmo poetico è come una sottolineatura, un condensamento, del ritmo del parlato. Il ritmo del parlato è uno di quei fattori, che non dinamizzano (ovvero, non complicano) il discorso, ma esauriscono in sé la loro funzione comunicativa e di sottolineatura, quindi di condensamento del ritmo del parlato, in una certa direzione è possibile forse dirne solo nel caso di una analisi del ritmo della prosa d’arte.

Il ritmo delle proposizioni in questa poesia è uno dei fattori del sistema dinamico del ritmo; in particolare esso si incontra con le articolazioni metriche. Il ritmo di questa poesia, in pratica, è come la risultante di molti fattori, uno dei quali è il ritmo del discorso; se ne deduce, quindi, che la parola poetica è sempre oggetto simultaneo di varie categorie enunciative e ciò complica e deforma singolarmente il modo di enunciare la stessa parola poetica. Ogni coincidenza, che conduce alla concretizzazione della parola poetica può, dunque, essere intesa come facilità di enunciazione ed ogni mancata coincidenza, di contro, come difficoltà.

La caratteristica moto-energetica del ritmo coincide, in questa poesia, anche con la gerarchia degli elementi ritmici, essendo infatti la componente principale del ritmo il metro.

(Giorgio Linguaglossa)

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Oggetto:  Premio Letterario Nazionale “CITTA’ DI MESAGNE”- Comunicazioni ai Concorrenti  XIV ed. : “Come da bando di concorso in data 23.03.2016, parag. 5-6-7, questa Associazione comunica che il Comitato d’Onore-Giuria preposto alla valutazione delle opere pervenute in concorso alla XIVed., analizzandone liberamente e riservatamente tematica, contenuto, stile, forma, originalità e conformità alle modalità di partecipazione, ha ritenuto la Sua lirica “TRAMONTA IL SOLE …” meritevole di 6° (sesto) posto ex-aequo per la Sez.POESIA cat. A – “inediti”

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Genesi della mia morte, di Alfredo de Palchi, letto da Angela Greco

Il giardino dell'Eden di Marc Chagall

“Genesi della mia morte”, da Estetica dell’equilibrio (inedito) di Alfredo de Palchi, letto da Angela Greco – La sezione completa è rintracciabile sulla Rivista letteraria Internazionale L’Ombra delle Parolecliccando su questo link –

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Genesi della mia morte, tratta da Estetica dell’equilibrio, inediti di Alfredo de Palchi, è un susseguirsi in prosa poetica di avvenimenti che in sedici giorni (in apertura è riportata la data 1-16 novembre 2015, presumibilmente riferibile ai giorni in cui il poeta ha segnato su carta quanto oggi si legge) ripercorre, ma sarebbe meglio dire ripropone in una veste differente da quella conosciuta ed accettata, la genesi del genere umano e la stessa esperienza di vita di Alfredo de Palchi, classe 1926, veneto emigrato a Parigi e da qui, negli Stati Uniti nella metà del secolo scorso, dopo essere stato prosciolto dalle accuse che lo avevano portato in carcere ai tempi del secondo conflitto mondiale; “e ancora EUROPEO abito qui (negli States) come italiano residente in America e non come italo-americano” sono parole dello stesso de Palchi. Dell’intera vicenda poetica depalchiana, sempre in simbiosi con la biografia del poeta stesso, si sono occupati Luigi Fontanlla, Roberto Bertoldo, che ha curato il volume delle opere complete del poeta, e Giorgio Linguaglossa in diverse pagine della sua rivista telematica (a cui si rimanda la lettura per meglio conoscere ed approfondire la conoscenza con questo autore, così come pure si invita a leggere la pagina di critica, cliccando su questo link) e in un breve saggio preciso e non reverenziale, appena uscito on-line su L’ombra delle parole (11\9\’16), in cui, partendo proprio dagli inediti di Genesi della mia morte, il critico pone ai lettori la questione dell’autenticità in poesia e nello specifico in quella di Alfredo de Palchi, esaminando il percorso che dagli anni Sessanta ad oggi ha visto questa poesia sempre e comunque estranea alle correnti in auge in Italia, prima protagonista e successivamente grande esclusa della scena letteraria nazionale ed oggi nuovamente riconsiderata da coloro che hanno preso coscienza della nuova strada da intraprendere per dare una nuova direzione \ per uscire dall’epoca “della stagnazione” come lo stesso Linguaglossa definisce questo periodo in cui ci troviamo a vivere e a scrivere.

un Uomo in Vetri Rotti

La prosa poetica dei sedici “quadri” di Genesi della mia morte, si apre con una definizione priva di diplomazia e buonismo nei confronti dell’Uomo – chiamato dal poeta “antropoide” con un non celato rimando all’automatismo, alla meccanica, alla robotica, tutti elementi che mirano alla sottrazione di umanità – e snocciola paragrafo per paragrafo la vicenda umana dell’autore e del tempo che ha attraversato e lo ha attraversato, creando un meta-ambiente che non è più né l’uno (la vicenda umana) né l’altro (il tempo in cui accadono gli avvenimenti anche storici), ma è un nuovo mondo-luogo dove via via l’antropoide prende consapevolezza della sua natura, altamente dissimile e decisamente lontana dal destino religioso-utopistico-positivo in cui si finisce per credere, forse per retaggio o forse per apatia, e a cui è avviato l’uomo fin dalla nascita.

Genesi della mia morte è la partita a scacchi de “Il settimo sigillo” di Ingmar Bergman, un bianco e nero dato non già dall’assenza di mezzi cinematografici che contemplino il colore, ma come scelta estrema di assenza totale di orpelli, di blandizie, in favore di un momento privilegiato – il dialogo con la Morte – in cui non conta più tutto il superfluo di cui si è stati capaci fino a quel momento ultimo.

il_settimo_sigillo

In queste sedici brevi prose la narrazione procede dal luogo più vicino verso il più lontano, includendo in questa genesi se stesso e il genere umano tutto, la natura e lo stesso pianeta che l’uomo abita, e in esse l’autore si mantiene sempre all’esterno, sopra le parti, pur partecipando con passione del destino suo e non solo suo, e al contempo dicendo esattamente quello che pensa e prova dinnanzi alla realtà e al suo deterioramento. In un capovolgimento degno di chi ha fatto i conti anche col momento più duro e difficile della propria vita, il poeta dice che in fin dei conti il suo permanere ancora tra i viventi è stato solo una scelta della Morte stessa e, giunto ad un punto di non ritorno, addirittura suggerisce a questa signora mai nominata, ma riconoscibilissima, alcuni accorgimenti “per migliorare” la situazione ormai disperata in cui verte ancora anche egli stesso (forse pensando al futuro, partendo dalle condizioni attuali), come si legge nel “quadro”n.11: “Gentile Signora liberali tutti dal male della poesia liberandoli dal male di essere antropoidi. . .gestiscili (gli esseri umani) nella vanitas vanitatum omnia vanitas. . .”alfredo-de-palchi-legge

Inevitabilmente giunge il momento finale: il poeta ammette che la “razza sleale elettasi superiore al pianeta per imporsi ed esplodere terrore” non terminerà nonostante gli eventi traumatici naturali e non che di quando in quando decimano la specie, e, dopo una vita intensamente vissuta e dopo essere sopravvissuto a tutti i tranelli che la stessa gli ha teso, serenamente chiude questi inediti immaginando una “fine suggestiva”, come da lui stesso definita, consistente nell’ “assistere allo svuotarsi del pianeta” e nel fatto che la Morte stessa smetta di proteggerlo, liberandolo una volta per tutte da quello che lui definisce “male globale”. Ed una volta liberata la terra dall’uomo, ormai identificato nel male di grado più elevato, il pianeta potrà tornare, chiudendo quasi il mitico serpente che si morde la coda, ad essere quel Giardino dell’Eden da cui ebbe inizio la stessa vicenda umana.

(Angela Greco)

 *

Alfredo de Palchi, da ESTETICA DELL’EQUILIBRIO, estratti da Genesi della mia morte (inediti)

1-16 novembre 2015

1

È animale quantitativo autoqualitativo autorevole prepotente razzista astuto violento e da unico vile appartenente alla fauna spadroneggia su ogni specie. . . nell‘antico Latium l’antropoide legionario conquista e costruisce civiltà a ovest sud est nord. . .

pregiudizialmente assume che tu, fine di tutto, sia femmina perenne temibile di nome Mors Moarte Mort Muerte Morte. . .

 

9

con felicità intatta non temo l‘assidua protezione che mi sfiora a sbuffi lievissimi d’aria. . . che tu segua la mia positiva certezza indica che non dubiti del mio rispetto. . . mi accorgo che ti avvicini e io non fuggo poi che la mia esistenza si prolunga e la tua maniera protettiva si gratifica della mia gratitudine. . . chi ti teme e scongiura vive da defunto. . . non intuisce che sai che terrorizzato aspetta la convenienza polare. . .

 

11

Il pianeta sta affondandosi nell’abisso infinito per abbondanza di destinati a smorzare poesia della loro insufficienza. . .  superfluamente megalomani antropoidi masse di indistinti li onorano effigiati di eccelsa vanità. . . i rari eletti anch’essi brutali in sciame di vespe svolazza punzecchiando senza sgocciare miele. . . ognuno adatto alla fatica nei campi si convince a inventarsi barattiere bancario commesso al monte di pietà e di essere di troppo e mercenario partecipante all’inevitabile. . . Gentile Signora liberali tutti dal male della poesia liberandoli dal male di essere antropoidi. . . gestiscili nella vanitas vanitatum omnia vanitas. . .

 

16

periodi lunghi di pestilenze puliscono il globo di antropoidi inceneriti dalla fiamma che ti illumina sul pianeta. . . ma la fiamma non fa abortire la femmina del mostriciattolo che le gonfia a calci la pancia. . . moltitudini affamate e prepotenti non smettono di devastare inquinare e inaridire la terra. . . razza sleale elettasi superiore al pianeta per imporsi ed esplodere terrore. . . io non mi esimo benché manchi d’innati componenti terroristici. . . la mia fine suggestiva sarebbe di assistere allo svuotarsi del pianeta e sapere che tu smetti di proteggermi liberandomi per ultimo dal male globale. . .  e che il pianeta libero dal superno male della mia razza sia finalmente Giardino dell’Eden.

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immagini, dall’alto verso il basso: Il giardino dell’Eden di Marc Chagall ; Uomo e finestra rotta dal web; Il settimo sigillo di Ingmar Bergman;  Alfredo de Palchi; Adamo ed Eva, Lucas Cranach, dettaglio.

Angela Greco, Siamo già in viaggio – inedito con commento

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“Siamo già in viaggio – dice il Maestro –
dal giorno del nostro primo incontro”
(lo sguardo segue l’orizzonte pallido del risveglio)

Della città da cui proveniamo rimangono soltanto
l’orologio con i numeri romani ed una casa di pietre.
Decidiamo di portarli con noi: l’uno appeso al collo
e l’altra a riempire le borse usate un tempo per la scuola.

L’orologio dice che non è ora, questa, di rimanere fermi
e le pietre una ad una si infilano a formare un sentiero.
I molti che guardano me e il Maestro, nudi, passare
su quella lastricata di precedenti parole illuse di essere poesia
ci additano, nuovi untori, cercando rifugio tra altre pagine.

“Maestro, dove siamo diretti?”
La risposta è il silenzio.

L’orizzonte coperto da nuvole,
la polvere e l’incomprensione scoraggiano.
Intrecciamo una danza, un’alleanza¹ – dico.
E riprendo a seguirlo.

§

La poesia ha risonanza, volume, è prosastica, come giustamente deve essere la poesia di oggi (non diciamo moderna, perché la parola è diventata un insulto)… È una poesia sulla crisi della poesia: il Maestro e l’allieva si allontanano dalla città delle parole vuote e si inoltrano verso l’ignoto delle parole pregne di senso. Sono in viaggio. Ma dove? La poesia non lo dice, e non lo potrebbe neanche dire, perché nessuno sa quel che il viaggio dirà loro. C’è un moto da… e un moto verso… E questo è esattamente il “viaggio” della crisi permanente che noi chiamiamo Stagnazione stilistica e spirituale.

Giorgio Linguaglossa

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____________________________________________________
¹ Giorgio Linguaglossa, Blumenbilder (Natura morta con fiori)

 

Angela Greco, un inedito con commento di Giorgio Linguaglossa

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“Dopo il futuro e dopo la morte e dopo il tempo”
(Giorgio Linguaglossa, «Ponzio Pilato»)

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«Vivi nella parola non detta
quella che impronunciata esula dal vocabolario».
La voce acquea del maestro ha sfumatura d’oboe
e le sue dita una ad una percorrono tasti e spazi;
«La notte pericolosa di Istanbul delle tue mani
s’insinua come lo stiletto dei suoi minareti
nella mia mancata comprensione».
Lei conosce bene e teme quella malia.

L’atto creativo è una vicinanza erotica,
il ritrovarsi dopo l’invadenza del vento.
L’infedeltà scopre la parola
e la piega ad una volontà superiore
fuori dall’orbita solare, verso il buio ignoto.

«Siamo echi di precedenti sistemi solari
– sussurra all’orecchio di lei, il maestro –
onde di ritorno di antiche maree,
pezzi di umanità che ci illudiamo di governare.

Ogni volta che fermiamo un attimo sul bianco
siamo intere costellazioni in movimento
perseguitate dall’assenza».

(Angela Greco)

*

Un colloquio silenzioso fatto di sguardi e di ammiccamenti tra il maestro e l’allieva, nel solco della poesia di pensiero. Una sorta di peripato, forse c’è un peristilio e un mosaico sopra il quale si cammina e si discetta di filosofia, dove si insegna a vivere e a morire. In fin dei conti, si può insegnare la vita come si può insegnare la morte, diceva il filosofo cirenaico Egesia.

Questa poesia (che fa parte di una raccolta ancora inedita) ha risonanza, c’è uno scarto simbolico tra ciò che la poesia dice e ciò che la poesia non può dire o vorrebbe dire; in questo modo si crea la significazione, in questo scarto, in questa distanza o differenza. Una poesia troppo detta, troppo vicina al referente, perde questa salutare distanza e resta sulla soglia della comunicazione in modo parassitario. Vive cioè come un parassita a scapito della comunicazione. Ma così facendo, muore. L’apertura dei finali delle poesie serve anche a questo, a legare una poesia all’altra in un filo di discorso che non si apre e non si chiude.

(Giorgio Linguaglossa)

∼ ∼ ∼

Approfondimento – L’immagine d’apertura è la fotografia di uno dei mosaici ritrovati nella Domus del chirurgo a Rimini. L’area è estesa su 700 mq, comprende diverse costruzioni, di cui la più interessante è la cosiddetta Domus del Chirurgo. Si tratta dei resti di un’antica domus romana risalente al II secolo d.C. Lo scavo ha portato alla luce anche altre strutture di rilievo: resti di una abitazione tardo imperiale, tracce di un insediamento altomedievale econ un grande sepolcreto sottostante che evidenziano una notevole stratificazione storica.
Di notevole importanza è il gran numero di reperti e mosaici ritrovati all’interno: ben conservati, hanno permesso una fedele ricostruzione della casa e dell’identità del proprietario, oltre a far luce su un passato affascinante. Il reperto forse più eccezionale è una collezione di ben 150 strumenti chirurgici che non hanno lasciato dubbi circa l’identità del padrone di casa: un medico. Pare che Eutyches, questo il suo nome, provenisse da ambienti ellenici e, come spesso accadeva nell’antichità, si fosse poi formato sui campi di battaglia. In effetti, gli strumenti ritrovati venivano usati soprattutto per traumi ossei e ferite, lasciando immaginare che Eutyches fosse un medico militare. ( notizie tratte dal sito www.domusrimini.com )

 

Giorgio Linguaglossa, un inedito da Il tedio di dio (viaggio nel paese delle ombre)

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Giorgio Linguaglossa, un inedito da “Il tedio di dio (viaggio nel paese delle ombre)” 

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Io, Zosimo
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Fu al tempo di Cirillo, vescovo di Alessandria.
Ormai, penso con recrudescenza a quelle vicende lontane.
I parabolani presero Ipazia in strada e la squartarono viva,
poi appiccarono il fuoco alla Biblioteca.
Presero a perseguitare i pagani ovunque si trovassero,
perché, dicevano, «C’è un unico pensiero, il pensiero di Dio,
agli uomini sia sufficiente quello», così
almanaccavano quei fanatici.
Io, Zosimo, portai con me, celati sotto la tunica
quanti più rotoli potei, e li nascosi in una madia segreta:
gli studi sulle orbite dei pianeti di Ipazia
e altre formule incomprensibili.
Fu allora che mi abituai al silenzio delle parole,
nascondevo con sospetto le parole ricche di senso
come cose perdute e dimenticate.
Così, avvenne che un giorno la lingua si stancò di essere lingua.
Se ne andò per i fatti suoi. Scomparve.
Io mi vergognavo a dire che ero rimasto senza lingua,
che non potevo più parlare.
Fu a quel tempo che presi a tossire.
Segnalavo la mia presenza con dei colpi di tosse,
dei singulti rauchi.
Nel frattempo, cercavo la lingua: di qua, di là,
di sotto, di su. Mi chiedevo:
«Ma dove s’è cacciata quella maledetta lingua?».
Alla fine, dovetti imparare a stare senza lingua,
ad emettere dei borborigmi, anche con mia moglie
e i miei figli, ad esprimermi con dei sibili,
dei fischi, dei cenni del capo…
E il bello era che essi mi capivano perfettamente,
non si accorsero mai che fossi rimasto privo di lingua.
Fu così che mi abituai a quel mio strano abisso.
«Dopotutto – mi dissi – è una condizione infausta
che ha però i suoi vantaggi».
Ben presto mi dimenticai della cosa.
E non ci pensai più.
Dimenticai perfino che un tempo
avevo avuto una lingua che si muoveva oscenamente
nella mia bocca.
.
.
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giorgiolinguaglossa 23 ottobre 2015 RomaGiorgio Linguaglossa è nato a Istanbul nel 1949 e vive e Roma. Nel 1992 pubblica Uccelli e nel 2000 Paradiso. Ha tradotto poeti inglesi, francesi e tedeschi tra cui Nelly Sachs e alcune poesie di Georg Trakl. Nel 1993 fonda il quadrimestrale di letteratura «Poiesis» che dal 1997 dirigerà fino al 2005. Nel 1995 firma con Giuseppe Pedota, Lisa Stace, Maria Rosaria Madonna e Giorgia Stecher il «Manifesto della Nuova Poesia Metafisica», pubblicato sul n. 7 di «Poiesis». È del 2002 Appunti Critici – La poesia italiana del tardo Novecento tra conformismi e nuove proposte. Nel 2005 pubblica il romanzo breve Ventiquattro tamponamenti prima di andare in ufficio. Nel 2006 pubblica la raccolta di poesia La Belligeranza del Tramonto. Nel 2007 pubblica Il minimalismo, ovvero il tentato omicidio della poesia in «Atti del Convegno: È morto il Novecento? Rileggiamo un secolo», Passigli, Firenze. Nel 2010 escono La Nuova Poesia Modernista Italiana (1980 – 2010) EdiLet, Roma, e il romanzo Ponzio PilatoMimesis, Milano Nel 2011, sempre per le edizioni EdiLet di Roma pubblica il saggio Dalla lirica al discorso poetico. Storia della Poesia italiana 1945 – 2010. Nel 2013 escono il libro di poesia Blumenbilder (natura morta con fiori), Passigli, Firenze, e il saggio critico Dopo il Novecento. Monitoraggio della poesia italiana contemporanea (2000 – 2013), Società Editrice Fiorentina, Firenze. Nel 2015 escono La filosofia del tè (Istruzioni sull’uso dell’autenticità) Ensemble, Roma, e Three Stills in the Frame Selected poems (1986-2014) Chelsea Editions, New York. Nel 2016 pubblica il romanzo 248 giorni con Achille e la Tartaruga. Ha fondato la Rivista Letteraria Internazionale lombradelleparole.wordpress.com  – Sito personale:: http://www.giorgiolinguaglossa.com ;  e-mail: glinguaglossa@gmail.com

 

Angela Greco, un inedito con un commento di Giorgio Linguaglossa

penna e calamaio

“E non importa \ se in esso non c’è mano, e non c’è viso, né il suo ovale.
La cosa quanto più è invisibile, tanto più è certo \ che sulla terra è esistita una volta”
(Iosif Brodskij, da “Poesie Italiane/Elegie romane”)
§
“[…] la poesia è sempre un atto di anacronismo.”
(Giorgio Linguaglossa, da un commento su L’Ombra delle Parole)
.
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.

Stamattina ho trovato la contraddizione che ti racconta.
Non ci sei, non ci sono le tue mani e non c’è il tuo volto
eppure sei qui tra questi righi che riempiono lo spazio.
Nell’atto stesso del pensare alle tue mani che altrove
si muovono, sei tu nel momento del riunirsi dei grafemi
e prendi corpo. Allora esisti anche dopo il punto e il buio.

Centottantasette giorni di discesa per ritrovare la strada:
il dito segna pagina ventinove e fiori destano il mio giardino
oltre la resina opaca di polvere la casa è ancora la stessa.
Mi guardi anche dopo le ultime pagine – che aspettano
fremendo di Jonio travolto dello scirocco – e ti chiamo.
Tu rispondi che la poesia è sempre un atto di anacronismo.
Sono certa che questo non è il nostro primo incontro
e così torno a scrivere.

(Angela Greco)

*

Sono convinto che la poesia sia un atto di anacronismo, uno scritto che si rivolge ad un destinatario ignoto in una lingua ignota, ignota proprio perché da tutti parlata quotidianamente. Poi, in una poesia ci devi mettere soltanto quelle cose che quella Lingua può ospitare, e non altre, perché altrimenti suonerebbe falsa, avrebbe un tinnire di metallo fesso, impuro. La Lingua dell’anacronismo è molto elitaria, selettiva, la Musa non accetta di buon grado le poetiche posticce, i grafemi di uso corrente, i lemmi desueti o paritari, quel discorso che non ha fatto anticamera. In fin dei conti, la poesia è un atto di disparità, di dissimmetria, è un sistema segretamente instabile – altro ché l’armonia di cui parlava la filosofia estetica del Croce! – il suo segreto sta lì, in quell’atto che reca la dissimmetria e l’anacronismo.

Angela Greco sceglie la linea «elegiaca» senza elegia, un verso ampio di origine narrativa, tenta di ribaltare la linea elegiaca mettendo in scena tematiche alte: il doppio, il traslato, il simbolico senza simbolo, il simbolo senza simbolico, la de-territorializzazione dell’io e la confezione di una «poesia del negativo». Un inizio promettente.

(Giorgio Linguaglossa)

248 giorni, romanzo, di Giorgio Linguaglossa letto da Angela Greco

ph.AnGre

248 giorni, romanzo, di Giorgio Linguaglossa letto da Angela Greco

A maggio 2016 per Achille e La Tartaruga di Torino è uscito, ne La Sezione Aurea, il nuovo romanzo di Giorgio Linguaglossa (biobibliografia, qui) intitolato 248 giorni. Tre cifre di cui, lette da sinistra verso destra, ognuna è doppia della precedente. E non è un caso. I protagonisti del romanzo sono Ely, una spogliarellista ed ex attrice del porno, Massimo, uno scrittore di terz’ordine di gialli anch’essi non brillanti e la filosofia, che interagiscono in un contesto di ricordi, realtà, mancata realizzazione e disincanto, in un’aria da dipinto metafisico che sfocia in alcuni momenti nel surreale, dove le immagine sembrano comprensibili, ma in realtà celano significati non svelabili nell’immediato. fotografia di Ferdinando SciannaParole, gesti, comportamenti e situazioni sono l’immagine visibile di espressioni della mente razionale del filosofo, dell’altro “Sé”, di quel “doppio” caro anzi carissimo all’autore. Sì, perché tutte le pagine sono permeate di rigorosa razionalità e non lasciano scampo a romanticherie o espressioni edulcorate, puntando dritto e senza mezzi termini al nulla a cui è dedicata l’intera vicenda. Nulla inteso non come una perdita di tempo, ma come fine ultimo dell’essere vivente, somma dell’intera filosofia a cui tende l’autore.

Il romanzo prende avvio dal casuale incontro dei due protagonisti nel 1999, per poi approdare nel secondo capitolo ad un momento accaduto vent’anni dopo e proseguire in seguito con il dipanarsi delle vicende introspettive e fisiche accadute ai due nei giorni della loro relazione, 248 appunto. Tutto il libro è una indagine introspettiva condotta da un protagonista nei confronti dell’altro usato espressamente come specchio di se stesso e al contempo è una spietata espressione dell’autore della sua visione del mondo e di quanto lo popola. Le notizie su Ely, bellissima, e Massimo, scrittore ormai grigio e privo di qualsiasi entusiasmo, sono centellinate, svelate goccia a goccia tra citazioni poetiche e filosofiche e accesi dialoghi, che hanno il grande pregio di accelerare una narrazione decisamente non veloce nel primo quinto del libro (in tutto sono duecento pagine). e79c42546b44f8db9fdeb6fc716172bf248 giorni è una sorta di testamento filosofico, non inteso come ultime volontà da eseguire, quanto piuttosto come strada da seguire, come indicazioni di viaggio per attraversare questa realtà che stiamo vivendo, nato da un’attenta visione del mondo in cui siamo immersi e al quale il filosofo sembra aver dato come risposta ultima il nulla, anche dinnanzi all’inatteso e non calcolato, realizzato nel romanzo dal sentimento che Massimo alla fine ammette di provare per Ely e sacrificato in nome di quella visione per la quale la vicenda-vita non può essere arbitrariamente modificata a dispetto degli eventi che hanno determinato la vita stessa.

Lingualglossa conduce il lettore in un labirinto, che a volte consente di guardare anche l’azzurro del cielo, ma soltanto per prendere fiato in vista della obiettiva difficoltà che il protagonista, anzi i protagonisti sanno per certo di dover incontrare fin dal primo momento in cui non hanno realizzato quanto ambivano per se stessi. Infatti, il libro non ha un finale delineato, atteso, scontato, no; il libro termina aprendosi in una nuova ed eventuale storia dove i protagonisti precedenti dopo un trauma, sono già divenuti altri da sé, nuovi, differenti e pronti per iniziare anche una nuova vita. [Angela Greco — foto b / n di Ferdinando Scianna]

*

1° giorno del 1999
L’INCONTRO ALLA FESTA DI CAPODANNO
Così, mi sono ritrovata seduta accanto a lui, sul divano. La sua spalla premeva sulla mia spalla. Affettavo una tranquillità che non avevo. Le volute di fumo si sollevavano e volteggiavano nell’aria come pesanti, morbidi tendaggi. Un aereo luminoso tagliò silenzioso il cielo. Pensai che il ronzio dell’aereo disturbasse la mia immobilità assorta. Le note di una musica da ballo raggiungevano il mio udito come se avessero attraversato una spessa coltre di ovatta. Giungeva il tinnire di stoviglie del dessert e lo scalpiccio degli ospiti come quando stai al telefono e percepisci, tra le parole dell’interlocutore, il brusio di altri estranei astanti come un rumore di fondo ineliminabile. E’ la fine dell’anno. Ma di quale anno? – mi chiedo – quanti anni sono passati? Ed io dove mi trovo? Chi sono queste persone che mi stanno intorno? Da dove sono venute e dove sono dirette? E domattina, che cosa farò – mi sono chiesta – quando tornerò nel mio appartamento ammobiliato? Che ore sono? Precisamente: la mezzanotte…

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Ponzio Pilato, romanzo, di Giorgio Linguaglossa letto da Angela Greco

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Ponzio Pilato, romanzo, di Giorgio Linguaglossa letto da Angela Greco

Ponzio Pilato, romanzo del 2010 di Giorgio Lingualgossa edito da Mimesis Edizioni (Milano-Udine) è un intreccio di storia, cronaca e psicologia, fatto di trenta brevi capitoli più un prologo ed un epilogo, che s’inseguono in maniera circolare e nell’andamento ricordano una marcia di soldati, che ben conoscono la meta e non si lasciano sopraffare dall’affanno di chi già conosce il finale. Il romanzo si apre con la notizia del ritrovamento di un’anfora colma di monete d’oro, all’interno di uno scavo che porta alla luce un frammento del pavimento di una villa patrizia emerso tra i resti di un incendio, “La villa di Ponzio Pilato” e si chiude con il “Commento di un romano a futura memoria”. Ognuna delle 133 pagine di cui è composto il libro (per la precisione il numero è inferiore, poiché quelle bianche elegantemente chiudono alcuni capitoli per concedere ai successivi di iniziare sempre sulla pagina frontale rispetto al lettore) è un agglomerato densissimo di notizie e spunti di riflessione, dove è necessario albergare qualche tempo nella calda e polverosa aria della Giudea, per cercare di comprendere meglio le dinamiche e la mentalità che hanno portato in una certa direzione la storia di quei popoli e dell’intero Occidente.

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Il grande pregio del romanzo è quello di mettere in discussione la storia di Jehoshua e di narrarla indirettamente attraverso i pensieri e le azioni dei protagonisti: Ponzio Pilato, quarto governatore della provincia romana di Giudea; sua moglie Claudia Procla; il comandante della milizia segreta romana Gaio Lentulo; il centurione Longino ed il Sinedrio, controparte attiva ed importante nell’esito della storia personale di Ponzio Pilato. Tra queste pagine, dove pure si citano frasi attribuite dai Vangeli e dalla tradizione a Gesù di Nazareth, non si cade mai nel tranello della reverenza rispetto all’ordine d’importanza delle figure, forte anche del pensiero su religione e religiosità del suo autore, che in Ponzio Pilato narra i fatti con il distacco e la competenza in materia del medico legale per il referto autoptico, rispettando il corpo che ha dinnanzi, in questo caso rappresentato da duemila anni di Cristianesimo giunto fino ad oggi con i capisaldi pressoché invariati dall’epoca dei fatti e sui quali si è costruito tutto un mondo che comunque Lingualgossa non demolisce, nonostante il fare meticoloso e razionale di chi cerca di sfuggire alla favola in favore della realtà, che emerge in tutto il romanzo.

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L’autore rende il dato storico e sociale, come fosse un cronista dell’epoca sul campo, relegando il proprio punto di vista a poche frasi, quasi sempre dubbi, che dissemina tra tutti i personaggi, senza imporre mai la propria voce, ma favorendo un sano senso critico nel lettore, adducendo ragionamenti e relative argomentazioni, che rendono quello che secondo me è lo scopo precipuo del romanzo: quello di fornire non già un avallo alla tradizione cristiana, quanto piuttosto un momento ed un motivo critico, sia all’occhio incantato del fedele che a quello disincantato del pragmatico fino all’ateismo, il cui punto di vista è spesso tenuto a debita distanza dall’argomento sacro-cristiano, che ha preferito reprimere ogni sorta di dubbio per una sua affermazione maggiormente duratura.

Lo sfondo mirabile del romanzo è Roma, sempre e comunque presente anche nelle pagine più specificatamente dedicate alla Giudea, ai suoi usi e ai suoi costumi; Roma, quale verità storica e termine di paragone tra due civiltà e due religioni, tra due modi di governare e di integrarsi, ma anche simbolo di quel potere mal accettato dal vinto e che pure doveva realizzarsi, perché anche noi fossimo quello che siamo oggi. Ponzio Pilato è romano e per tutto il romanzo ragionerà ed agirà da romano, fino al fatidico gesto per cui è passato alla storia, che al meglio esprime la difficoltà di un impero a governare in terre geograficamente e storicamente così lontane dalla sua realtà. Roma è rappresentata anche dalla moglie di Ponzio Pilato, Claudia Procla, di cui spesso si sottolinea in maniera specifica l’appartenenza al popolo romano, che rappresenta un po’ una sorta di superficie riflettente entro cui il procuratore romano si guarda e si interroga – rimanendo purtuttavia solo con le sue decisioni prese giuste o sbagliate che siano – e alla quale è affidato il ruolo di interpretare il sovrannaturale e l’oltre ragione, attraverso l’espediente narrativo del sogno grazie al quale Claudia mette in guardia Ponzio dal condannare Jehoshua, fornendo il controcanto e il dubbio (e se non fosse andata così?) circa la storia così come ci è stata raccontata.

Enrique Irazoqui ne Il Vangelo seocondo Matteo, Pier Paolo Pasolini, 1964

Nei trenta capitoli si susseguono le narrazioni secondo i punti di vista dei diversi protagonisti, in un movimento circolare della narrazione che pare voler ratificare quanto accaduto: possiamo così leggere la sentenza di Jehoshua secondo Pilato, ma anche secondo il centurione Longino, al quale è affidato il racconto di Gesù in questo momento in maniera maggiormente aderente alla tradizione, ma priva dell’alone di sacralità a cui siamo maggiormente abituati e grazie al quale scopriremo il freddo e macabro rito della crocifissione operato dei Romani.

Il romanzo scopre anche le enigmatiche figure di Barabba e Giuda, immerse nel contesto che deve essere loro appartenuto e sui quali abilmente vengono lasciati dubbi irrisolti; ma il dubbio è parte fondante di tutto il testo narrativo. Dubbio che affligge anche i lettori e fornisce dell’uomo Pilato – insieme alla peculiarità di soffrire d’emicrania, che lo rende più umano di quanto tramandato dai Vangeli – l’immagine di qualcuno maggiormente preoccupato della forma rispetto alla sostanza, sempre all’erta e allarmato sui suoi rapporti con Roma e sull’idea che quest’ultima può avere di lui; Pilato che in chiusura mi piace rappresentare con una frase da lui stesso enunciata, tratta dal capitolo “Parola apocrifa di Jehoshua”: Nella circostanza, il bandito e l’intellettuale si equivalgono, lasciando al lettore la scelta di chi schierare da una o dall’altra parte.

Angela Greco, luglio 2016

– immagini: P.P.Pasolini, Il Vangelo secondo Matteo – dal web –

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Prologo
La villa di Ponzio Pilato
Questa è l’anfora colma di monete di oro zecchino, sbucata fuori dalla terra dall’aratro di un agricoltore a Sovana nei pressi dell’odierna Grosseto. Un mucchio di quattrocentonovantotto monete d’oro che risalgono al periodo a cavallo tra il 420 e il 550 dell’era cristiana.
Chi è stato e perché hanno seppellito quel tesero cosi in superficie, appena sotto uno strato di terra soffice che potevi scavare con le mani? Che cosa è accaduto in quella notte del tardo impero quando i goti di Alarico invasero l’Italia?
Dagli scavi è emerso un frammento, appena una tessera del mosaico di un pavimento di una villa patrizia, e i resti di un incendio, alcune tavole di torba affumicate e null’altro.
Una villa patrizia con gli alloggi del latifondista e dei suoi schiavi, col peristilio in marmo e una piscina contornata di bianche statue e le papere tranquille che affondano nell’acqua torbida … Tutt’intorno, una fortificazione di muro spesso con i guardiani armati in vedetta, sui camminamenti di ronda e sulle torri merlate.
Giungono i barbari, di notte, nel silenzio delle stelle e passano a fil di spada gli abitami colti nel sonno, oltrepassano la cinta e si insinuano nelle stanze della servitù seminando stupri e morte. E giungono sulla soglia della porta a borchie del dominus che tenta una disperata resistenza con la spada in pugno insieme ai soldati sopravvissuti, mentre un fedele suddito sta scavando la buca e depone l’anfora con il tesoro di monete e l’effigie dell’ultimo imperatore.
I barbari sono arrivati e l’impero s’è dissolto come nebbia. E le monete sono qui, giunte fino a noi a duemila anni di distanza. Dopo il futuro e dopo la morte e dopo il tempo. Dopo il Tramonto.

Dunya Mikhail , La Partita

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Dunya Mikhail (Bagdad, 1965) – La partita

È soltanto una pedina
salta sempre nella casella opposta
non si volta a destra né a sinistra
non si guarda indietro
è mossa da una regina demente
che attraversa la scacchiera in lungo e in largo
e non si stanca di portare bandiere
e insultare gli alfieri
È soltanto una regina
mossa da un re sventato
che conta i quadrati ogni giorno
sostenendo che sono di meno
e prepara torri e cavalli
sognando un accanito rivale
È soltanto un re
mosso da un abile giocatore
che si rompe la testa
e perde il suo tempo in una partita infinita
È soltanto un giocatore
mosso da una vita vuota
in bianco e nero
È soltanto una vita
mossa da un dio confuso
che un giorno ha provato a giocare con l’argilla
È soltanto un dio
che non sa come uscire dal guaio in cui si è cacciato.

Traduzione di Elena Chiti

Dunya Mikhail. Il mito più forte della guerra – a cura di Elena Chiti (da isoladeipoeti.blogspot.it)

OLYMPUS DIGITAL CAMERADunya Mikhail (Bagdad,1965,) è una poetessa irachena residente negli Stati Uniti. Ha lavorato presso il giornale iracheno “The Baghdad Observer”, ma di fronte alle crescenti minacce e vessazioni da parte delle autorità irachene per i suoi scritti, nel 1990  è stata costretta a fuggire negli Stati Uniti . Ha studiato nella Wayne State University di Detroit. Nel 2001 ha ricevuto dalle Nazioni Unite il premio per la libertà di scrittura. Mikhail sa parlare e scrivere in Inglese, Arabo e Assiro. Attualmente vive in Michigan  dove lavora come coordinatrice delle risorse arabe nel locale distretto scolastico e universitario. Ha scritto in poesia: The Diary of a Wave Outside the Sea, 1999; The War Works Hard, (tradotto nel 2005 da Elizabeth Winslow) (tra i candidati per l’International Griffin Poetry Prize del 2006); The Psalms of Absence; La guerra lavora duro, (tradotto nel 2011 da Elena Chiti; traduzione segnalata al Premio Marazza Traduzione di Poesia Opera Prima nel 2012), testo arabo a fronte, Edizioni San Marco dei Giustiniani.

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E’ possibile leggere altri testi della stessa Autrice su L’Ombra delle Parole.

Sullo stesso blog la poesia presentata oggi in questa sede è stata oggetto di un interessante dibattito tra Giorgio Linguaglossa e Pasquale Balestriere; per leggere e intervenire clicca QUI

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